Nel nome di Laika, smisurata preghiera
Si è detto che, se anche un leone potesse parlare, non potremmo capirlo. Si è
fatto notare (facezia o meno, forse può importar poco) che da quegli ormai
lontani anni ’60 in cui il progetto Grandi Scimmie iniziava, alle grandi scimmie
sono state poste numerose domande, eppure nessuna di loro ne ha rivolta alcuna a
noi. Un po’ come se la risposta al problema dell’Animale, che crediamo non
saprebbe, di norma, rispondere – lezione che ci portiamo dietro da quel
Descartes che sosteneva che l’animale, favolosa macchina computazionale, potesse
mettere in fila voci plausibili e anche verosimili, ma mai rispondere
contestualmente a una domanda ricevuta – stesse non tanto, appunto, nella
abilità a rispondere quanto nell’abilitazione alla replica, alla contestazione,
al racconto.
Che gli animali possiedano la capacità di dare risposte sensate a domande
(sensate? Questo, forse, ce lo domandiamo di meno), lungi da essere assunto, è
ipotesi in corso di negoziazione, inesausto campo di lotta. E il redde rationem
è ogni volta travagliato, raggiunto attraverso uno sfinimento, se non già una
violenza laboratoriale. Forse per questo arriviamo anche noi, con una qualche
stanchezza, a domandarci perché l’animale dovrebbe mai risponderci, o voler
parlare con noi. Perché dovrebbe rivolgerci la parola, o rivolgersi a noi con
una parola. Aspettarsi, tra l’altro, che chi subisce l’oppressione manifesti le
sue doglianze in forma ordinata e composta, rifinita e non frammentata né
esplosiva, è forse un’ulteriore torsione di quell’oppressione stessa, ricatto o
tranello che solo chi occupa il posto dell’oppressore può tendere – e chi
frequenta la politica della rabbia lo sa bene.
Da questa prospettiva sembrava muoversi Massimo Filippi nella sua riflessione
Not in my name, ospitata ne L’albergo di Adamo (edito da Mimesis nel 2010).
Testo in cui Filippi si confrontava con alcuni (quattro: Enkidu, Argo, Stendardo
e Laika) animali fra quelli che hanno attraversato la letteratura e la
filosofia. «A differenza di Adamo», qui si diceva, rievocando la scena biblica
in cui Dio conduceva gli animali davanti al Primo Uomo, perché lui vi imponesse
un nome (scena in cui Walter Benjamin vedeva nascere nella natura,
impossibilitata a darsi un nome proprio, o a dare nomi a sua volta, una mutezza
che era presagio di lutto), ecco, «a differenza di Adamo non convocheremo questi
animali (Enkidu, Argo, Stendardo e Laika) per dar loro un nome, ma ci
approssimeremo a loro per venire a sapere cosa e come intendono risponderci».
> Questo perché, al di là di fantasie di potere (o meglio, favole: quel
> derridiano dare l’impressione di sapere qualcosa, laddove un sapere non c’è e
> viene invece costituito attraverso la sospensione della complessità, del
> dubbio, dell’ignoscenza), «gli animali conoscono i loro nomi e si chiamano tra
> loro», e solo accostandosi a loro tramite questa postura, che ha a che fare
> forse con quel farsi umili, all’altezza dei fiori e delle cose piccole che
> persino Nietzsche consigliava, si può ricevere da loro un qualche tipo di
> risposta, o una qualche forma di riguardo.
Bisognerebbe insomma tentare di parlar loro da quella postura che era quella da
cui Ortese, si ricordava sempre nelle stanze dell’Albergo, poteva chiamare Laika
– o sognava di poterlo fare: «Vorrei gridare: Laika! Siamo qui! Ti amiamo! Torna
indietro, Laika! Sì, sono questi i miei sogni: la resurrezione, il ritorno di
tutti i morti nell’ingiustizia. Già la morte è ingiustizia. Ma l’ingiustizia,
talora, come per Laika, è più ingiusta di ogni altra cosa ingiusta. È del tutto
il segno della disgrazia di Adamo, dice l’orrore della intelligenza di cui si è
fidato. Dice che non bisognerebbe più fidarsi di questa guida. Tornare
indietro!».
E così Filippi sembra forse fare, adesso: tornare indietro, come incitava a fare
Ortese attraverso Laika –, o tornare semplicemente a Laika, forse. Con un nuovo
testo, che porta proprio questo titolo: LAIKA, forse, appena uscito a settembre
per l’editore Ortica: il 3 novembre la cagnolina sarebbe stata lanciata nello
spazio, a bordo dello Sputnik 2, e sarebbe morta dopo poche ore, nonostante la
versione ufficiale promossa dal governo sovietico racconti di quattro giorni di
sopravvivenza nel cosmo. Se ipotizziamo un mese di addestramento nelle stanze
della scienza, forse proprio a quei giorni di settembre risale la sua cattura?
Il testo, con un’epigrafe da Walking at night di Louise Glück, proprio in giro
(di notte? Forse) si apre, precipitandoci in una prosa loppide, che
immediatamente ci avverte dell’orrore di una certa intelligenza e della sua
velocità: «Le strisce grigie sono pericolose ci passano i grossi coleotteri
rotolanti di metallo e vetro e schiacciano non appena ti distrai schiacciano
senza pietà o rimorso bisogna saper valutare la loro velocità e avere pazienza
ne ho già visti parecchi di simili e diversi stesi a terra con le viscere fuori
il sangue e le urla e il disinteresse il pianto o le risa» (p. 7).
Siamo allora Laika, forse, o quantomeno sentiamo con lei: sentiamo che, rispetto
alla frenesia dell’abitacolo latta e del copertone che vortica sull’asfalto, c’è
una velocità che ci dà più gusto e più gioia – «seguo una traccia m’immergo nel
profumo che porta e corro a zigzag mi piace correre fermami ad annusare un
arbusto rigoglioso o rinsecchito un effluvio di urina ancora calda» (p. 8). E
c’affezioniamo, naturalmente, a questo cuore di cana, seguendola sino al
capitolo secondo che ci conduce nostro malgrado In laboratorio, un ritmo
stagnante e rituale in cui una voce metallica, assieme asettica e rabbiosa e
certamente troppo umana le fa da controcanto, e dunque a un capitolo terzo, nel
quale siamo spedite, rinchiuse, a una velocità vorticante, In orbita. Per
accostarci ancora una volta a lei, in una quarta parte che c’immerge, da fuori,
in una smisurata preghiera laica, litania della nuova voce narrante che a Laika,
forse, si rivolge – per accostarci a lei non, purtroppo, in fuga, ma In coda.
Continuiamo dunque ad approssimarci, tenendoci perciò, grazie alla cura attenta
dell’autore, in quella che è la giusta distanza – secondo Pascal ve ne è solo
una, una per ciascuna cosa: e insieme a ciascuna cosa va indovinata, e dunque
mantenuta –, perché siano eventualmente gli animali non umani ad avvicinarsi a
noi, se mai vorranno, per raccontare quella loro storia (che pure, quando
scompare il corpo, dilegua anch’essa). L’effettiva storia e l’effettivo nome di
Laika, il cui nome richiama la parola russa per il verbo abbaiare, e che davvero
era nome comune di cane, ribattezzata in realtà Kudrjavka, ovvero ricciolina,
non possono essere scoperti, non si lasciano stanare.
Filippi allora sembra stare in attesa, stare a vedere che cosa lei vorrà dirci,
se mai vorrà dirci qualcosa (una parola, o altro): e allora per Laika produce
quelle immagini-racconto che J.-L. Nancy, in una bellissima riflessione sul
cineasta Kiarostami, diceva avessero il potere di rivaleggiare con la cosa, non
nella forma dell’agonismo ma della corsa e della rincorsa; in questa sfida
l’immagine chiamerebbe quindi avanti la cosa, la evocherebbe, chiamerebbe alla
presenza: «Nell’immagine o come immagine […] la cosa è posta in soggetto: essa
si presenta». «Adesso, tu, forse puoi raccontare la tua storia di nuovo per una
volta» (p. 78), scrive infatti l’autore nella quarta parte, rivolgendosi alla
cagnolina che, forse, ha evocato – di cui ha indovinato il nome, forse.
E lo ha indovinato senza colpo ferire, e senza ammutolire di rimando – niente di
più distante da un novello Adamo. L’ha indovinato come Zanzotto indovinava che i
«furbissimi topinambur / si affollano al cancello / come a scuola, nel giorno
giusto» e forse questo è il potere profetico della poesia, anche quando rifiuta
la forma del verso riconoscibile. E quindi noi leggiamo e ci facciamo raccontare
la storia di LAIKA, forse, la storia della persona che l’ha incontrata e ne è
rimasta ossessionata, infestata come solo lo si può essere a motivo di un
fantasma.
Persona e terza voce narrante, questa, che appare dopo il cane e dopo lo
scienziato, ma che pare anche lei loppide nella misura in cui con sicurezza
assume la posa del cinico: quella sicurezza che sola proviene dal coraggio della
verità, verità che va spesso abbaiata, indovinata e profetizzata, chiamata in
avanti, tramite la giusta distanza e la giusta immagine. È questa voce-abbaio
che sa vedere nel corpo della cagnolina in fiamme nell’abitacolo spaziale una
protesta, una rivolta nella forma dell’autoconsunzione, una violenza girata di
segno, rivolta su di sé, nell’impossibilità o forse nella lucida volontà di non
volgerla verso il fuori e restituirla, sfogata.
> È sempre una voce cinica e nuda quella che ci avverte – questa violenza
> ricevuta è sì evidente sul corpo di Laika, che da questa violenza è stato
> consumato, ridotto in cenere, smontato in laboratorio, spedito in orbita;
> spesso non lo è altrettanto su quei corpi che rimangono, loro sì, senza alcun
> nome: sterminate sono le vittime dell’industria zootecnica, della violenza
> degli stabulari (quali velocità avrebbero corso, loro, quali piste avrebbero
> seguito col naso o con le orecchie, di cosa avrebbero goduto? Cosa ci
> avrebbero raccontato, dove e come avrebbero esploso la loro rabbia, la loro
> protesta?).
Ed è, ancora, sempre questa voce di cane che ci ammonisce, perché «il nostro
sguardo non vede, noi abbiamo gli occhi rivolti all’indietro» (p. 72), e qui non
si parla di quell’indietro a cui dovremmo tornare, come ci diceva Laika
attraverso Ortese, ma forse piuttosto di quell’indietro che è la cecità e
cattività di cui aveva parlato Rilke nell’Ottava Elegia; abbiamo gli occhi come
rivoltati, tesi come una rete a imprigionare quel libero passo delle cose – che,
sempre con Rilke, non riusciamo a sentir cantare: «io temo tanto la parola degli
uomini./ Dicono tutto sempre cosí chiaro: / questo si chiama cane e quello casa,
/ e qui è l’inizio e là è la fine […] Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani.
/ A me piace sentire le cose cantare. / Voi le toccate: diventano rigide e mute.
/ Voi mi uccidete le cose».
A chi ha questo coraggio, a chi ha questa forza di rimanere in silenzio per
stare a sentire, e da lì tornare ad abbaiare contro quella realtà – che non è
l’unica possibile – che s’è incaricata di mettere a tacere ogni randagia
devianza e ogni altra possibilità, può infine apparire un intimo segreto: «Che
la tua storia non è andata perduta, che ancora racconti e che ancora si dice,
che il tuo fulgore celeste tuttora traluce nella terranea radice» (p. 78). A chi
abbia scoperto questo segreto inconfessabile diventerà forse possibile farsi
testimonianza di questa verità lo stesso scoperta, e raccontare, a chi sfoglierà
le pagine, questa cinica storia che è anche un po’ una cinegetica dalla parte
del cane, rincorsa in cui è una cagnolina riccioluta a starci alle calcagna, a
braccarci, a toglierci anche il fiato quando il fiato si fa più fioco e rado,
nello Sputnik, assieme a lei.
In uno scambio pure a distanza, Blanchot e Nancy si interrogavano sulla
possibilità di una comunità il cui nome non evocasse quel fondale storico di
disastro sul quale ogni comunità che conosciamo, invece, si staglia. Una
comunità che quindi rinunciasse da subito all’opera (di cui la corsa allo spazio
può essere lampante esempio, adamitica velocità che ha mostrato e ancora oggi
mostra un certo non-senso), una comunità che quindi rinunciasse da subito
all’idea di non-mortalità.
Una comunità, si ipotizzava, che si formasse anzi là dove può tenere la mano –
se non è una mano, forse, potrà essere una poesia, o una zampa, una coda di
ratto, e così via – a quel’altr* che muore. Comunità inconfessabile, perché muto
sembrerebbe, a chi non ne fosse coinvolt*, quel dialogo che ha la forma del
commiato. Comunità dell* amant*, forse la chiamavano, che avrebbe per fine la
distruzione della società per come la conosciamo. Comunità che avrà mai un nome?
Forse, se e quando avrà voglia di dircelo, di raccontarcelo, di invitarci a
prenderne parte; allora seguiremo anche noi le tracce di Laika, forse, o forse
dell’orso M49, o – «forse sono le mie o forse di un qualche forsennato disfarsi
dei bordi del mondo in attesa di rinascere in sfolgorante creazione» (p. 84).
La copertina è di Colectivul Dumitrana wikicommons
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