Giordano Bruno Guerri / La fabbrica dei santi: Maria Goretti
Non credo che oggi in Italia – salvo rare eccezioni di segno oscurantista –
nelle agenzie educative la figura di Maria Goretti venga ancora proposta come
modello ideale per le ragazze. Lo era invece per le donne della mia generazione,
che però non ne volevano sapere, al punto da ridicolizzarla.
“Santamariagoretti”, scritto tutto attaccato, era diventato un sostantivo
ironico, usato per schernire chi pensava che la verginità fosse di per sé un
titolo di merito e che le decisioni sul proprio corpo potessero appartenere ad
altri. Eppure leggendo Povera santa, povero assassino di Giordano Bruno Guerri,
un po’ mi ritrovo a fare i conti con quel sarcasmo. Perché Maria Goretti non era
l’icona stucchevole che ci volevano imporre, ma una bambina di undici anni,
vissuta nella miseria più cupa, segnata da una solitudine estrema, e infine
uccisa nel 1902 da un ragazzo che voleva violentarla.
Il libro di Guerri, uscito negli anni Ottanta e riproposto in un’edizione
aggiornata da La nave di Teseo, è costruito come un atto d’accusa contro la
Chiesa cattolica. La tesi è radicale: la Chiesa dovrebbe chiedere perdono a
Maria Goretti. Non per non averla canonizzata – anzi, lo ha fatto piuttosto
rapidamente – ma per aver piegato la sua morte a esigenze morali e politiche
trasformando la sua vicenda in un modello di castità e di sottomissione
femminile. Per la Chiesa Maria è santa perché ha opposto resistenza alla
violenza “in difesa della purezza”, e perché sul letto di morte ha perdonato
l’assassino. A ciò si aggiungono due miracoli, richiesti dal diritto canonico:
guarigioni modeste, un decorso rapido di malattia e un incidente di lavoro
risolto senza conseguenze, che persino all’epoca apparivano fragili. Guerri ha
buon gioco a smontarli, sottolineando come anche l’elemento “soprannaturale” sia
stato costruito per necessità istituzionali.
Il cuore del libro è quindi l’analisi dei meccanismi della santità:
canonizzazioni come atti terreni, legati a strategie di potere. La proclamazione
di Maria nel 1950, davanti a mezzo milione di fedeli accorsi in piazza San
Pietro, fu voluta da Pio XII come risposta alla modernità, alla secolarizzazione
e alla “americanizzazione” dei costumi dopo la guerra. Già il fascismo aveva
incoraggiato il culto per dare una santa “locale” alle Paludi Pontine e
glorificarne la bonifica: Maria diventava così il simbolo di una terra redenta,
prima dal peccato, poi dal regime.
Guerri colpisce per la ricostruzione storica delle Paludi Pontine tra la fine
dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, quando i Goretti vi si
trasferirono. Non si tratta solo di uno sfondo, ma di un contesto che secondo
l’autore determina i destini. Le famiglie contadine vivevano in condizioni che
oggi sembrano inimmaginabili: baracche di fango e canne, acqua malsana, malaria
che mieteva vittime a ogni stagione. La mortalità infantile era altissima e
quasi nessuno superava i quarant’anni. La povertà era assoluta: salari da fame,
debiti perpetui con i proprietari terrieri, lavoro senza diritti. Le donne,
oltre al lavoro nei campi, portavano il peso della cura dei figli e degli
anziani, spesso senza alcun sostegno. I bambini, come Maria, diventavano subito
piccoli adulti, incaricati di mansioni sproporzionate alla loro età. Non c’era
spazio per lo studio né per la fantasia: la sopravvivenza assorbiva ogni
energia. Guerri insiste anche sull’isolamento culturale: niente scuole,
pochissime chiese, nessuna presenza istituzionale stabile. L’unico sapere
diffuso era quello delle superstizioni popolari, intrecciato a una religiosità
rudimentale. In questo scenario, la possibilità per una bambina di undici anni
di avere la “consapevolezza teologica” richiesta dalla Chiesa per la santità
appare davvero impensabile. Maria apparteneva fino in fondo a quel mondo, ne
condivideva la fatica e la disperazione.
In questo ambiente si colloca anche la sua solitudine personale: il padre morto
presto, la madre assorbita dai campi, fratelli troppo piccoli o occupati
altrove. Bambina tra adulti, trascorreva le giornate a prendersi cura di chi era
più piccolo di lei, senza spazi di gioco né protezione. Doveva curarsi anche del
suo futuro assassino che già la molestava e angariava con richieste e dispetti
continui. La sua infanzia fu negata e la sua morte atroce. Dopo l’aggressione,
sopravvisse ventiquattro ore: tra dolori lancinanti, fu sottoposta a
un’operazione chirurgica senza anestesia benché i medici sapessero che non
avrebbe avuto alcun esito positivo. È in questo contesto di sofferenza estrema
che la tradizione cattolica colloca le sue parole di perdono per il suo
assassino, decisive per la canonizzazione.
Per Guerri quella bambina, vissuta in condizioni così aberranti e quasi priva di
istruzione religiosa, non poteva avere alcuna consapevolezza teologica. Il suo
rifiuto e il suo perdono, così come sono stati tramandati, sarebbero dunque solo
costruzioni postume. Qui forse emerge il limite del suo sguardo:
l’anticlericalismo materialista e razionalista, pur prezioso per smontare la
retorica della Chiesa, rischia di non cogliere la capacità di decisione che
rimane presente anche in condizioni estreme. Nel caso di Maria, questa capacità
si tradusse in un gesto di grande dignità: dire no all’aggressione, non volere
che quell’uomo “le alzasse la gonna”, non accettare di essere violata come già
aveva cercato di fare più volte.
Guerri dedica anche al giovane assassino, Alessandro Serenelli, un capitolo
importante, mostrando come la sua parabola sia stata determinante per la
canonizzazione. Il suo pentimento, la richiesta di perdono alla madre di Maria e
la scelta finale di ritirarsi in convento furono interpretati dalla Chiesa come
prova della santità della bambina, al punto che Serenelli divenne, in modo
grottesco, una sorta di causa efficiente della sua santità: senza di lui non ci
sarebbe stata né la morte violenta né la santificazione. Anche qui però mi pare
si noti il limite dello sguardo di Guerri. Così come nega a Maria una
soggettività, riducendola a mero frutto delle condizioni di vita delle Paludi
Pontine, allo stesso modo giustifica Serenelli, considerandolo quasi non
responsabile perché anch’egli solo prodotto della miseria e dell’ignoranza. Uno
sguardo che, pur criticando la Chiesa, finisce per appiattire le differenze e
cancellare la responsabilità personale.
Alla sua prima uscita, il libro suscitò scandalo: il Vaticano accusò Guerri di
anticlericalismo e falsificazione. L’autore rispose pubblicando le contestazioni
ufficiali della Commissione e le sue confutazioni, punto per punto. Le edizioni
successive si arricchirono di aggiornamenti: prima sul rapporto tra Chiesa e
fascismo, poi sulla “politica dei santi” da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI,
fino a papa Francesco sotto il cui pontificato le spoglie di Maria Goretti hanno
compiuto una sorta di tour religioso negli Stati Uniti! Povera santa, povero
assassino è ormai un classico della controstoria cattolica, che ha saputo
resistere alle polemiche e continua a parlare al presente. Per me, leggere
Povera santa, povero assassino significa anche ripensare alla memoria
generazionale. Quando da ragazze dicevamo “sei una Maria Goretti” per ridere di
un modello soffocante, ci ribellavamo a un’icona imposta ma così facendo
cancellavamo la bambina vera, che non può che suscitare profonda tenerezza e
rispetto. Oggi non posso che dirle: scusa.
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