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Le lacrime di coccodrillo di Emanuele Fiano. Una risposta ragionata
Arrivare a questi livelli di ipocrisia era davvero un’impresa ardua. Ma ci sono riusciti. Un’azione di contestazione che i ragazzi del FGC hanno aperto con le parole “non siamo antisemiti, respingiamo l’antisemitismo”, scandite a gran voce in un microfono e udite da tutti, è stata raccontata a reti unificate sui giornali italiani come un “attacco antisemita” contro Emanuele Fiano, ex parlamentare del PD ed esponente di “Sinistra per Israele”. Fiano, che prima di essere contestato ha parlato per almeno 40 minuti, sarebbe stato messo a tacere perché ebreo. “Come mio padre nel ‘38”, ha aggiunto incredibilmente, con una dose notevole di sfacciataggine. Non c’è una parola più appropriata, quando persino la tragicità della sua vicenda familiare, che lui per primo dovrebbe trattare con rispetto, viene svilita pur di avere un argomento politico spendibile a breve termine contro chi critica Israele, facendo fronte comune con il governo di destra. Scomodando la memoria di suo padre perseguitato dall’OVRA sotto le leggi razziali, Emanuele Fiano insulta la nostra intelligenza, perché è chiarissimo che è stato contestato per le sue posizioni politiche. Per dirla in una battuta, Moni Ovadia non avrebbe ricevuto la stessa contestazione. Fiano lo sa benissimo, anche se finge di non saperlo. Ci sembra piuttosto che Fiano, che è un politico di lungo corso e tutt’altro che un agnellino, si sia prestato ad un’operazione politica (e mediatica) che ingigantisce una contestazione per finalità ben diverse dall’affermazione di alcuni principi. È difficile non notare la convergenza di settori del Partito Democratico assieme alle forze del governo di destra nel tentativo di ricompattare un consenso parlamentare attorno alla politica del governo Meloni di difesa di Israele a tutti i costi. In soldoni vediamo questo scenario: la destra cerca di spaccare il PD e il “campo largo” agitando l’accusa di connivenza con settori “antisemiti” contro la segreteria di Elly Schlein; i settori “centristi” e “moderati” del PD fanno lo stesso dall’interno, puntando alla convergenza con chi – come Renzi e Calenda – già è disponibile alla pacificazione con il governo rispetto alla condotta nei confronti di Israele. Il nodo che verrà al pettine sarà, ed è ampiamente prevedibile, il voto coordinato di tutti questi settori in favore del DDL Gasparri contro l’“antisemitismo”. Una legge bavaglio che punta a punire come odio antisemita la critica politica a Israele. Con i fatti di questi giorni, Fiano è, consapevolmente o meno, uno strumento di questa operazione politica, senza nessun imbarazzo nell’incassare immediatamente il sostegno degli eredi politici di coloro che – per davvero – furono complici delle leggi razziali, delle deportazioni e dello sterminio degli ebrei italiani. Intanto, Emanuele Fiano ha affidato alle colonne del Foglio (qui l’articolo) un suo sermone ai “ragazzi fascisti che gli hanno impedito di parlare”. L’articolo è un ottimo spunto per rispondere nel merito a molti degli argomenti che da due giorni imperversano su tutti gli organi di stampa. Prima di entrare nel merito, però, una precisazione doverosa. Mentre da due giorni si parla a sproposito di Fiano “silenziato”, la verità è che sulla stampa Fiano e i “suoi” parlano a reti unificate. La gioventù comunista viene definita un’organizzazione “antisemita” senza possibilità di contraddittorio e, per ora, di smentita.  Un numero veramente risibile di organi di informazione ha tenuto in conto il comunicato che esprimeva la nostra posizione, pubblicato peraltro in stralci microscopici, evidentemente per timori legali. Nessuna trasmissione televisiva ha invitato esponenti del FGC a parlare per esporre le proprie tesi. Ai cittadini viene proposta un’informazione a senso unico. Se c’è un pericolo di censura è questo! Questo, e non la contestazione di un gruppo di studenti a un ex deputato che esprime delle posizioni quantomeno definibili controverse, come la negazione del genocidio nella striscia di Gaza. Questo articolo, parafrasando il titolo dell’articolo di Fiano, avrebbe potuto intitolarsi “Il FGC spiega cosa avrebbe voluto dire all’Italia se i giornali gli avessero dato la parola”. Fatta questa premessa, entriamo nel merito di alcune cose. Lo facciamo riportando le parole di Fiano, più di quanto lui e i suoi giornali siano disposti a riportare le nostre. Fiano dice: “ho provato a spiegare che l’antisionismo, quando nega il diritto all’autodeterminazione di un popolo […] diventa antisemitismo. Se neghi al popolo ebraico ciò che rivendichi per gli altri – il diritto di autodeterminarsi – stai compiendo una discriminazione.” Partiamo da qui. Definire “autodeterminazione del popolo ebraico” ciò che fa Israele equivale a dire che l’invasione hitleriana della Polonia era “autodeterminazione del popolo tedesco”. È autodeterminazione del popolo ebraico il fatto che lo Stato di Israele dichiari apertamente che non esisterà mai uno Stato di Palestina? È autodeterminazione sterminare 70mila persone a Gaza? È autodeterminazione degli ebrei aver costretto la popolazione di Gaza a vivere in un assedio perenne, aver imposto un regime di apartheid nei territori occupati della Cisgiordania? Rivendicare una terra abitata da un altro popolo sulla base di un messianesimo religioso? Il principio di autodeterminazione dei popoli nasce per riconoscere legittimità alle lotte delle popolazioni sottoposte ad occupazioni coloniali. Nel momento in cui si usa per legittimare l’operato di Israele, che da decenni occupa territori al di fuori di qualsiasi forma di legalità sancita dal diritto internazionale si compie un grottesco e inaccettabile ribaltamento della realtà. La questione diventa più chiara seguendo lo sviluppo del ragionamento di Fiano: “Si può contestare, si deve discutere. Si può criticare il governo di Israele, come qualsiasi governo. Ma negare agli ebrei il diritto all’autodeterminazione, cancellare lo stato di Israele dalla carta, impedire la parola a chi non si allinea: questo non è dibattito, è totalitarismo.” Apriti cielo. Si costruiscono castelli in aria, ma fino a prova contraria qui sulla terra è lo Stato di Israele a essere sulle carte geografiche, mentre lo Stato di Palestina non c’è. E non c’è precisamente perché Israele ha deciso di impedire che possa esistere. A questa obiezione basilare solitamente si sente la stessa risposta “Sì, ma è perché Hamas ha come obiettivo la cancellazione dello Stato di Israele”. Ecco, questo è un esempio da manuale di informazione manipolata e parziale. Nel programma originale del partito oggi al governo in Israele, il Likud, si leggeva “Il diritto del popolo ebraico alla terra di Israele è eterno e indiscutibile […] tra il Mare e il fiume Giordano ci sarà solo la sovranità israeliana”[1]. In Italia si scrivono fiumi di parole sullo slogan “dal fiume al mare”, che spesso viene urlato nelle manifestazioni per la Palestina, ma si dimentica che questo slogan nasce proprio in Israele e nel piano di cancellare i palestinesi dalla Palestina. I palestinesi lo hanno fatto proprio di riflesso. Si dimentica anche che le cose sono più complesse della dicotomia tra i “pacifici” e gli “intolleranti” che si vorrebbe raccontare. Anche dal lato palestinese. Ad esempio, quanti sanno che Hamas nel 2017 aveva accettato la prospettiva di uno Stato palestinese nei confini del 1967 e quindi, implicitamente, una soluzione a due Stati?[2] È proprio sulla questione dei “due popoli, due Stati” che si svela l’enorme ipocrisia di fondo di Fiano e compagnia. Formalmente, proclamano di essere per “due popoli, due Stati”, al punto da aver inserito queste parole anche nel loro nome. Lo dicono, come lo dicono gli USA e l’UE. Ma nei fatti sostengono Israele, e promuovono la sinistra “per Israele”, proprio mentre l’obiettivo di Israele è cancellare per sempre dalla storia la possibilità di uno Stato palestinese e di una soluzione a due Stati. E la cosa peggiore non è neanche questa. La cosa peggiore è che Israele vuole sì uno Stato unico, ma non è disposto a far sì che sia uno Stato anche per i palestinesi. Non vuole uno stato binazionale, ma uno Stato ebraico chiuso in cui gli “arabi”, come vengono chiamati da quelle parti (negando che esista una nazionalità “palestinese”) saranno al massimo “ospiti”, minoranza, cittadini di serie B. Israele non vuole dare diritti di cittadinanza a milioni di palestinesi, perché teme che diventino la maggioranza. Non vuole una “soluzione” a uno Stato, ma piuttosto una “situazione” a uno Stato, imponendo con la forza, de facto, la sua esistenza esclusiva tra il fiume e il mare. Oggi non si può essere contemporaneamente per “due popoli due Stati” e “per Israele”. Se si è per due Stati, bisogna prendere parola contro Israele. Ma questo la “Sinistra per Israele” non lo fa. E no, non basta dirsi contro il governo di Netanyahu. Si tratta di una posizione di comodo, per provare a rendersi più presentabili nel dibattito pubblico e, probabilmente, per lavarsi un po’ la coscienza. Talmente di comodo che negli ultimi mesi persino esponenti del governo di destra, dinnanzi a uno scenario sempre più indifendibile nella Striscia di Gaza, non hanno lesinato critiche al primo ministro israeliano. Dirsi contro il governo di Israele, a favore dell’opposizione di Lapid, che in questi anni ha dato pieno sostegno all’operato dell’esecutivo a Gaza, non rende le proprie posizioni sulla questione palestinese più accettabili, al massimo più ipocrite. Quello che avviene ai palestinesi non è imputabile al fatto che in Israele c’è un governo di destra, ma piuttosto a una strategia condivisa sia dal governo israeliano che dalla sua “opposizione”, espressione delle élite di quel paese. Dove sono le parole di Fiano contro il genocidio dei palestinesi – riconosciuto come tale dalle corti internazionali, dall’ONU, da tutte le ONG umanitarie – compiuto da Israele? Non esistono. Silenzio. Dove sono le parole contro il piano di trasformare Gaza in un protettorato degli USA? Non ci sono, silenzio. È legittimo o no contestarli pubblicamente per le posizioni politiche che esprimono e per quelle che non esprimono? A nostro avviso, lo era eccome. Era anzi doveroso. Per sviare l’attenzione da questo silenzio imbarazzante, accusano noi di essere intolleranti e di volere “la cancellazione dello Stato di Israele”. Il FGC, in continuità con la posizione assunta dal movimento comunista internazionale, sostiene la nascita e il riconoscimento di uno stato palestinese indipendente e sovrano nei confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale e la garanzia del diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Se certi giornali avessero fatto un minimo di inchiesta avrebbero trovato questa posizione nelle nostre dichiarazioni recenti (l’ultima risale a pochissimi giorni fa)[3]. Sappiamo bene che non è una prospettiva priva di criticità, anzi. Ma allo stato attuale delle cose, il minimo che si possa fare è ristabilire il diritto internazionale ed esigere che Israele si ritiri all’interno dei confini riconosciuti come legittimi dalle Nazioni Unite. Israele deve smantellare le colonie, rompere l’assedio e permettere la nascita di uno Stato di Palestina. Proprio perché non siamo ipocriti, dinanzi alla realtà dell’occupazione e del regime di apartheid, riconosciamo il diritto dei palestinesi a lottare con tutti mezzi contro l’occupazione illegittima e l’oppressione. Per qualche assurda ragione, nell’Italia che ha conosciuto bene l’occupazione tedesca e la lotta partigiana di liberazione, si fa fatica a riconoscere una prerogativa riconosciuta dal diritto internazionale, cioè il diritto alla resistenza contro un’occupazione. È una cosa tanto semplice che fino a qualche decennio fa era pacifico che venisse ricordata davanti al parlamento dal Presidente del Consiglio italiano e persino dagli esponenti della DC. Negli ultimi anni, invece, proprio le posizioni che si vorrebbero presentare come “silenziate” hanno messo una pressione tale da rendere il riconoscimento di questo diritto qualcosa di difficile anche solo da pronunciare. Praticamente nessuno tra i “politici” lo fa, mentre tra gli intellettuali va riconosciuto il coraggio di averlo fatto a Piergiorgio Odifreddi. Ma verrebbe da porgere la seguente domanda: secondo la “Sinistra per Israele”, esattamente, i palestinesi cosa dovrebbero fare? Attendere per grazia divina che Israele smetta di fare quello che sta facendo da decenni? O attendere che uno Stato palestinese venga loro offerto dalla stessa “comunità internazionale” composta dagli alleati storici di Israele? A questo interrogativo non daranno risposta. Ribadiranno banalità come “la violenza è sempre sbagliata” e che quando i palestinesi sparano “passano dalla parte del torto”. Il fatto che tutti i principali partiti politici palestinesi – compresa Fatah, che pure è al governo dell’ANP – abbiano le loro milizie armate, e che la lotta armata palestinese abbia una storia pluridecennale che risale a molto prima della nascita di Hamas, non scalfirà le coscienze della nostra “Sinistra per Israele”. A proposito di democrazia, poi. Fiano dice: “La libertà di espressione non è un favore concesso agli amici: è la regola che protegge tutti, soprattutto le minoranze e i dissenzienti. Vale per me oggi, varrà per loro domani.” In Israele i dissidenti vengono perseguitati, sanzionati, espulsi fisicamente dal parlamento appena esprimono dissenso, come accade da tempo al deputato comunista Ofer Cassif, membro del Partito Comunista di Israele (Maki) e di Hadash. Verrebbe da chiedere a Fiano se la sua idea di libertà è quella israeliana. A giudicare dalle richieste di mettere a tacere Francesca Albanese e dall’utilizzo arbitrario dell’accusa di antisemitismo come clava contro il dissenso politico, forse sì. Fiano invoca la “libertà di parola” e inventa una censura inesistente, mentre non sembra farsi problemi nell’essere uno strumento della destra nazionalista per introdurre una censura vera e pesante. Il DDL contro l’antisemitismo depositato in Parlamento da Gasparri è uno strumento che verrà utilizzato per mettere a tacere a colpi di denunce per crimini di odio le mobilitazioni in sostegno del popolo palestinese, le agitazioni degli studenti nelle scuole e nelle università, tutti accusati di “antisemitismo”. Infine, un’ultima precisazione che ci sta a cuore. Diversi organi di stampa, nel tentativo di attaccare il FGC e di suggerire un accostamento tra i comunisti e l’estrema destra, ha utilizzato il nome della nostra organizzazione giovanile, il Fronte della Gioventù Comunista, come “prova” di connivenza con l’antisemitismo, richiamando alla memoria la giovanile del Movimento Sociale Italiano. Curiosamente, chi suggerisce questo accostamento incassa la solidarietà proprio di quelli che nel MSI ci stavano davvero. In ogni caso, vale la pena ricordare in chiusura che il Fronte della Gioventù è stato il nome dell’organizzazione giovanile unitaria della resistenza partigiana in Italia. Fu fondato nel gennaio 1944 proprio da un partigiano ebreo, il comunista Eugenio Curiel, e al suo interno c’erano la FGCI e delle altre giovanili antifasciste. Come avvenne anche con il nome “Ordine Nuovo”, i neofascisti si appropriarono di quella sigla con chiarissimo intento provocatorio. È a quella storia che il FGC si richiamò quando fu fondato nel 2012. Il richiamo all’esperienza del Fronte della Gioventù fondato da Curiel è utile anche ad evidenziare un fatto più eloquente di tante parole: in quei drammatici anni, nel pieno della lotta contro il mostro nazista che si macchiava delle deportazioni e dell’Olocausto, nessuno propagandava l’idea che per gli ebrei dovesse essere una sorta di obbligo morale ed esistenziale l’adesione al sionismo, come invece avviene oggi. Anzi, tantissimi ebrei come Curiel hanno dato il loro contributo alla lotta partigiana riconoscendosi proprio nell’adesione su base politica ad una lotta che veniva condotta su queste basi contro la discriminazione razziale, anche nel rifiuto della separazione su base etnica e religiosa. A riprova ulteriore della profonda differenza tra l’essere ebrei e aderire politicamente al sionismo. A chi ci consiglia di “studiare” con i soliti toni paternalistici, consigliamo la “Storia del Fronte della Gioventù nella Resistenza” scritta dal partigiano Primo De Lazzari. Emanuele Fiano e “Sinistra Per Israele”, tanto vi dovevamo. Avete scatenato tutta la forza mediatica di cui disponete. Ora, se avete il coraggio, visto che vi presentate come “amanti del dialogo”, accettate davvero un confronto politico.   -------------------------------------------------------------------------------- [1] https://www.jewishvirtuallibrary.org/original-party-platform-of-the-likud-party [2] https://www.aljazeera.com/news/2017/5/2/hamas-accepts-palestinian-state-with-1967-borders [3] https://www.gioventucomunista.it/wp-content/uploads/2025/10/comunicato-ottobre-palestina.pdf Redazione Italia
533° anniversario della “scoperta”, ovvero colonizzazione, del continente americano
L’incisione disegnata dal tipografo tedesco Théodore de Bry (1528-1598) raffigura il fatto storico accaduto nel 1500 sull’isola caraibica di Santo Domingo: l’arresto di Cristoforo Colombo e dei suoi fratelli, suoi complici… Questa vicenda memorabile merita di venire ricordata il 12 ottobre 2025, cioè nel 533° anniversario della “scoperta dell’America”, che è la data spartiacque tra il medioevo e l’epoca moderna e la giornata in cui negli USA si celebra il Columbus Day e in molti posti, anche tante località italiane, si onora la figura del navigatore ligure che condusse la storica impresa, ovvero alla guida della prima flotta europea approdata nel continente americano. In cambio della conquista dei domini coloniali insignito governatore dei territori che aveva assoggettato al regno spagnolo, e da lui amministrati insieme ai suoi fratelli Giacomo e Bartolomeo, Cristoforo Colombo fece strage degli indigeni, perciò i fratelli Colombo vennero accusati, quindi indagati e arrestati, poi processati e, giudicati colpevoli, rimossi dall’incarico di rappresentanza della corona spagnola. Ad accertare le loro responsabilità nel massacro era stato un inquisitore, Francisco de Bobadilla, ufficiale dell’esercito spagnolo e cavaliere in due ordini militari, l’Ordine di Calatrava e l’Ordine di Alcántara. Inviato nella colonia per verificare la veridicità dei fatti, Bobadilla raccolse molte testimonianze, che trascrisse nel documento esaminato dai giudici per stabilire la corrispondenza tra i fatti e le accuse rivolte contro il governatore della colonia e i suoi assistenti, i suoi due fratelli. Siccome il “rapporto Bobadilla” su cui si basava la sentenza andò perso, nella memoria storica sono stati rimossi e ignorati anche l’arresto, il processo e la destituzione di Cristoforo Colombo, così la memoria collettiva ha dimenticato il ricordo della figura storica del despota nel 1500 condannato colpevole di una carneficina allora considerata un reato perché l’uccisione dei sudditi disonorava e ledeva i sovrani e oggi considerata un crimine contro l’umanità. Il rinvenimento di una copia autenticata del “rapporto Bobadilla” ha dimostrato la fondatezza delle prove esaminate dai giudici spagnoli 500 anni fa… … prove analoghe a quelle in questi anni raccolte nel rapporto di Global Witness Radici di resistenza, che documenta gli omicidi delle persone che in molti paesi del mondo, in particolare in America Latina, lottano contro imprese multinazioni e regimi autoritari che usurpano gli indigeni dei territori per sfruttarne le risorse naturali, e nel “rapporto Albanese” e nella documentazione sottoposta alla Corte Penale Internazionale per valutare le responsabilità di Benjamin Netanyahu e dei governanti come lui responsabili delle operazioni militari compiute dalle forze armate israeliane e delle azioni violente commese dai coloni israeliani nei territori popolati dai palestinesi. Maddalena Brunasti
Il cibo come strumento di soprusi e di morte in Palestina
Dallo zaatar vietato ai datteri espropriati: come il colonialismo di insediamento ha colpito l’agricoltura e la cultura gastronomica palestinese. “Perché hai questo sacchetto? Perché se un giorno non potrò comprarmi da mangiare a Londra, avrò il mio cibo: zaatar. E gli ho chiesto: Do you know zaatar? ”. Si sono allontanati e mi hanno lasciato da sola nel mio silenzio e nelle mie perplessità: come hanno occupato il nostro paese per trent’anni e non sanno distinguere il timo macinato (lo zaatar) dalla polvere da sparo? O hanno paura dello zaatar perché fa bene alla memoria e vuole eliminarla totalmente?” ( Viaggio dopo viaggio , Salman Natur). Il cibo è il nostro carburante, ci diciamo spesso. Però, forse, non è una cosa di cui ci occupiamo abbastanza: magari prestiamo più attenzione alla benzina che mettiamo nell’auto. Nelle nostre concitate vite trangugiamo pasti di fretta, troppo spesso e senza riflettere su ciò che abbiamo nel piatto. Eppure produzione e consumo di cibo sono le funzioni principali che gli esseri umani svolgono sulla terra per la propria sopravvivenza. Danno forma alle nostre città, visto che le stesse sono nate, quasi ovunque nel mondo, intorno ai mercati; creare le reti e le connessioni, poiché il trasporto delle risorse alimentari disegna e trasforma le vie di comunicazione; determinano anche conflitti, sin dai tempi dell’antichità. Oggi in Palestina, in quello che ormai è definito, anche in sede giuridica, come genocidio (il 16 settembre 2025 una commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite, dopo una lunga indagine, lo afferma come tale in quanto sono stati commessi quattro dei cinque atti che, secondo il diritto internazionale, identificano questo tipo di crimine contro l’umanità), il cibo ha assunto un ruolo terribile: è stato usato per affamare la gente della Striscia di Gaza, per costringerla a evacuare e, purtroppo, per ucciderla in massa, come intento di pulizia etnica. In pratica, come ha più volte ricordato Rula Jebreal, il cibo è diventato un’arma di guerra. La connessione tra l’occupazione della Palestina e il cibo è, però, molto più profonda e antica: già dalla fase iniziale del colonialismo di insediamento, tutto è ruotato intorno alla terra e ai suoi frutti. Una bellissima, quanto tragica, ricostruzione degli avvenimenti la si può trovare nel famoso testo di Ilan Pappe Dieci miti su Israele , pubblicato nel 2022 e tradotto in Italia da Edizioni Tamu, in cui l’autore, attraversando le varie fasi del progetto sionista a partire dalle prime colonie del diciannovesimo secolo fino a oggi, ci rende noto come tutto sia nato ben oltre un secolo fa. D’altra parte, come potrebbe non essere così, se la questione nodale del progetto colonialista israeliano riguarda l’appropriazione di terra? Non tutte le colonizzazioni hanno avuto questo obiettivo: ad esempio, gli stati europei che si sono macchiati di crimini efferati nella cosiddetta tratta atlantica attingevano all’Africa per il commercio degli schiavi da usare come manodopera nelle piantagioni americane e, infatti, per questo motivo, nel 1680 fu istituita la Royal African Company , promuovendo l’arrivo massiccio di schiavi nelle colonie inglesi. Nel colonialismo di insediamento israeliano, invece, la terra è al centro dell’interesse: in quell’area geografica e in nessun’altra si sarebbe mai potuto riprodurre allo stesso modo. Infatti, come noto, il progetto sionista, traendo origine da un’interpretazione, a detta di molti, tra cui Moni Ovadia, assolutamente restrittiva del libro del Levitico , fa coincidere il diritto all’acquisizione della terra promessa con la creazione dello stato-nazione israeliana. Le conseguenze del progetto di insediamento sono state, quindi, da subito di grande impatto, in senso negativo, per l’agricoltura palestinese, ma anche per la cultura culinaria plurimillenaria della Palestina. Il sionismo si è occupato con una certa dedizione della persecuzione delle sue radici culturali. Parliamo del famoso zaatar, considerato un simbolo nazionale palestinese che lega le persone alla propria terra e cultura. Si tratta di una miscela di erbe e spezie composta tradizionalmente da timo, sesamo e sommacco e usata come merenda energetica dagli studenti, dai lavoratori, dai bambini, per lo più nella fase che precede il pranzo, a metà mattinata. Lo zaatar, usato su pane, verdure, carne, pesce e persino nelle insalate, viene consumato da secoli sia in Palestina che in tutto il Medio Oriente, elemento di resistenza culturale, un modo per mantenere viva la connessione con la terra di origine, specialmente per la diaspora palestinese. Nel 1977, con una legge, lo stato di Israele ne ha vietato la raccolta, applicando sanzioni penali ai palestinesi, ma non agli israeliani. Questa politica è vista come un tentativo di tagliare il legame dei palestinesi con la loro terra e la loro cultura. I dati sugli arresti confermano questa supposizione: tra il 2004 e il 2016, tutti i 61 imputati accusati per la raccolta di questa pianta erano palestinesi, secondo un articolo di NenaNews: “Solo un anno dopo la Giornata della terra Israele emanò una legge che vietava la raccolta dello zaatar perché ‘pianta protetta’. Facendo così però, osserva il giornalista Hammud, Tel Aviv non solo ha giustificato il suo furto delle terre dei palestinesi, ma si è anche appropriata dei loro elementi culturali”. akkoub Una sorte analoga è toccata all’akkoub, “una pianta selvatica difficile da raccogliere a causa della sua posizione montanara e delle foglie spinose. Ha un sapore simile al carciofo. Nella cultura araba e palestinese in particolare, viene utilizzata per la preparazione di cibi e per scopi curativi, e queste culture rispettano e si identificano con questa pianta” (dal sito della Fondazione Slow Food per la biodiversità che lo ha inserito nelle piante da preservare). Sempre sullo stesso tema, va citato il bellissimo docufilm Foragers , girato sulle alture del Golan, in Galilea ea Gerusalemme, che, attraverso l’utilizzo della finzione, del documentario e di filmati d’archivio, mostra scene di inseguimenti tra i raccoglitori e le pattuglie israeliane, momenti di difesa nelle aule del tribunale e momenti in cucina. Un caso a parte e molto controverso è rappresentato dai datteri, quelli che noi mangiamo a Natale: accade che i datteri coltivati dai contadini di Jenin, di antica produzione autoctona, a causa della sottrazione delle terre, rischiando di sparire dal patrimonio della biodiversità del pianeta, tant’è che è nata un’impresa sociale, Al Reef, che dal 1993 supporta i piccoli produttori della Cisgiordania costretti ad affrontare le limitazioni delle autorità israeliane e le violenze dei coloni. In Italia, sulle nostre tavole, essi vengono sostituiti dai più famosi datteri della Valle del Giordano; quest’ultima è una varietà introdotta successivamente nel deserto del Negev e nei kibbutz israeliani, cooperative agricole sostenute dal governo israeliano e operanti prevalentemente in territori occupati, cioè aree dove il colonialismo di insediamento israeliano e il controllo militare causano l’espropriazione di terra palestinese, la demolizione delle case e, sempre più spesso, uccisioni indiscriminate. I datteri israeliani sono venduti in Italia attraverso la rete Naturasì che, proprio a causa di critiche provenienti da alcuni consumatori che chiedevano di boicottare tali produzioni, ha ritenuto doveroso pubblicare un chiarimento che riportiamo in calce. Infine, va fatto un breve accenno alla notizia che sta girando molto sul web circa l’intreccio esistente tra il nostro pomodoro “pachino” e l’agroindustria israeliana: tale ortaggio, che la stragrande maggioranza delle persone pensa sia un prodotto tipico di Pachino, Portopalo di Capo Passero, Noto e Ispica, in provincia di Siracusa, viene invece prodotto grazie a semi di proprietà della multinazionale Hazera Genetics, che ha sede centrale nei Paesi Bassi e in Israele, con filiali in 11 paesi, oltre a una rete di distribuzione che serve oltre 130 mercati. Tutto è iniziato nel 1989, quando l’azienda sementiera ha selezionato questa varietà e ha iniziato a fare affari con i contadini siciliani e il consorzio IGP. Sì, si tratta proprio di affari, poiché i frutti ottenuti non sono in grado di riprodurre il seme che, quindi, deve essere sempre riacquistato. Non possiamo affermare, in questo caso, che vi sia un diretto coinvolgimento della multinazionale nelle azioni criminali agite dal governo israeliano. Certo è che il rischio che vi siano complicità in atto andrebbe considerato e verificato per tutte le aziende che hanno sede o investimenti in Israele. In definitiva, se siamo ciò che mangiamo, l’attenzione al cibo deve essere centrale nella lotta alle violazioni documentate che il popolo palestinese subisce costantemente dalla fine dell’Ottocento. La vera origine del pachino – L’Indipendente NenaNews alreeffairtrade.ps RaiNews YouTube Fondazione Slow Food NaturaSì Hazera Genetics Nives Monda