Lontano da dove?
Comunque finisca, all’ombra di Gaza c’è una realtà politica che resta in piedi.
Quella che negozia il male minore, che ogni giorno si misura con la perdita di
tutto.
Personalmente sono inseguito da una svista, un errore nella messa a fuoco che mi
porta a confondere Gaza City con lo Shtetl e scambiare le vecchie parole per la
migrazione degli ebrei dell’Europa centrorientale con le immagini dei profughi
in fuga dalla città distrutta o dai villaggi di contadini.
Cerco di mettere in fila qualche frammento per ritrovare un filo. Che ci sia una
pulizia etnica e una deportazione o migrazione coatta mi pare un fatto. E che ci
siano campi o spazi di segregazione pure. Se li chiamo Lager sembra un partito
preso, ma quello sono e lo sono anche i “centri di accoglienza”.
Altri fatti certi. La Nakba non è iniziata il 7 ottobre. Certo. Ma un qualche
salto deve pure esserci stato se siamo ad un punto di non ritorno.
Un salto, o anche solo quello che Benjamin descrisse come un taglio non
marginale. Ed ecco che il mio Shtetl si avvicina a queste immagini di famiglie
in fuga. Un apologo jiddish ricordava che ad un migrante che annunciava la sua
partenza venne chiesto dove sarebbe andato. Lui rispose: lontano. Il suo paesano
gli disse: lontano da dove? A me pare che oggi si veda che oltre al dramma
storico geograficamente circoscritto ci sia un’altra dipartita. Quella di
un’intera tradizione culturale con l’esperienza che oggi ne possiamo fare da
testimoni superstiti.
Mi pare che, da una parte e dall’altra, delle identità riconosciute si siano
screditate proprio in quel tratto che pareva costitutivo, e penso all’ebraismo
ma anche all’atlantismo e al diritto internazionale o all’ONU. Azzarderei
qualcosa di simile per i fondamentalisti islamici, che però conosco meno. A lume
di naso però credo che Twin Towers e 7 Ottobre potrebbero facilmente aggiungersi
alla lista di un “il più pulito ha la rogna”.
Cosa resta di quelle identità e cosa insegna la tradizione? Ha un bel dire
Landini che la lotta di Gaza si lega a quella degli sfruttati contro gli
sfruttatori. Due cavalli zoppi non ne fanno uno in buona salute. Perché solo la
povertà dell’esperienza umana, la miseria della nuda carne, che è condizione
comune di ogni campo di sterminio, è stata di nuovo rivelata senza pudore, e la
sua veste migliore strappata. Ogni narrazione pare stroncata e ridotta ad una
conta macabra, persino affermata pubblicamente con quel “se non accettano il
piano finiremo il lavoro”. Quella frase a me pare una parafrasi letterale della
“soluzione finale”, ma qui e ora è stata pronunciata ad alta voce. E non c’è
nessuna ideologia che le sappia tener testa. Aggiungo che senza una qualche
ideologia è impossibile non ridurre l’esperienza ad una successione cronologica
di stati. Bit senza alcun valore intrinseco.
Un taglio, quindi.
Questo taglio rende ibrida non la guerra, che infame e bastarda lo è sempre
stata, ma le maschere della civiltà. Quella di un ebraismo custode della
differenza e dell’occidente paladino della democrazia. Maschere che pare
ritrovino il loro ruolo solo quando vengono fatte a pezzi e bistrattati i corpi
che le indossano.
Non è stato tutto fatto in un giorno: ricordo le polemiche degli anni ottanta
per il revisionismo dei Nuovi Filosofi; ma è un fatto che l’esercizio per lo più
retorico e quotidiano di una memoria antistorica è in questo giro di giostra
arrivato al suo capolinea. Così che Israele oggi può rivendicare insieme il
titolo certificato del deposito di quella memoria (un titolo di razza e
religione) contando sulla forza di una internazionale fascista e suprematista
(che si fregia persino di quel legame tra sangue e suolo di cui la storia della
persecuzione antisemita si era alimentata). Contingente, come le connessioni in
campo, e necessario, che ci sia un’altra storia. Ma quale e dove?
Quindi un taglio, che probabilmente si ripete a fronte di ogni monumento eretto,
dentro ogni Stato ed ogni Realpolitik. E non si tratta di sviste momentanee o
stato di eccezione, non una ontologia o metafisica, ma qualcosa di storico e
determinato, ogni volta compiuto da qualcuno che ha dovuto lottare con la
resistenza di altri. Ritrovo così per mio limite la parola tanto abusata
“resistenza” e la vedo in relazione specifica a questo taglio, quello che ha
disconnesso oggi questo presente proprio dalla storia della Shoah (non so e non
riesco a farmi un’idea sulla possibilità che le odierne manifestazioni di massa
siano una controtendenza) e separato la storia dell’Olocausto dalla lotta al
nazifascismo. Anche qui ho omesso di proiettare questo schema discorsivo sulla
Nakba, per mia personale ignoranza di quel mondo. Mi limito così alle mie di
storie e parole, come resistenza, antifascista, proletario… c’è un taglio e una
povertà di esperienza, quella che mi fa passare dai forconi ai gilet gialli e
poi ad un’altra corsa, sempre aspettando che sia quella giusta. Perché sono
stato fortunato e non sono dovuto andare “lontano. Lontano da dove?”.
Michele Ambrogio