Ana María Matute / L’infanzia inquietante
Ana Maria Matute nel risvolto di copertina racconta di non aver pensato
all’inizio che I bambini tonti diventasse un vero libro: lo scriveva a
frammenti, in luoghi diversi, su foglietti improvvisati, mentre attendeva il
marito. Proprio lui raccolse quei pezzi sparsi, che altrimenti sarebbero andati
perduti. Così, quasi per caso, nacque quello che Matute considera uno dei suoi
libri più cari.
In effetti i ventitré racconti brevi di Ana María Matute sono delle pepite che
risaltano nell’impaginazione inframezzata anche da qualche pagina bianca che
sembra lasciata per sbaglio nella prima parte del libro edito da Canicola:
piccoli lampi sull’infanzia, racconti scabri, inquietanti, refrattari a
qualsiasi etichetta, che si collocano in una zona liminare, dove la crudeltà
convive con la grazia e il mistero con la misera banalità quotidiana. A volte il
racconto è solo un fermo immagine. La loro potenza sta proprio in questa
indeterminatezza, in una scrittura che dice senza spiegare, che apre fenditure e
slabbra ferite.
“E il giorno di Pasqua, quando il bambino dello straccivendolo si sedette alla
tavola (…) vide, sopra la tavola, spellata, la testa del suo amico. Che lo
guardava, per l’ultima volta, con quello sguardo che non aveva mai visto in
nessun altro.”
Con questo colpo di scena finisce L’agnellino di Pasqua una folgorazione che non
viene spiegata né commentata ma che – ovviamente – confida nel lettore: chi
legge deve saper cogliere da solo la crudeltà insita nella scena, deve intuire
l’abisso che si apre tra la creatura bambino e il sadismo inconsapevole dei
genitori.
Fa venire in mente il povero bambino con le orecchie rosse maltrattato
implacabilmente da Reiser nei suoi fumetti. Anche lì il lettore è messo di
fronte a un meccanismo familiare spietato, dove l’infanzia diventa bersaglio
della derisione, senza che l’autore si premuri di aggiungere spiegazioni. È la
stessa dinamica che troviamo nel celebre antecedente di Una modesta proposta di
Jonathan Swift, dove l’autore suggeriva di cucinare i bambini irlandesi per
sfamare i poveri.
Matute, Reiser, Swift – in modi diversi – si affidano alla complicità di chi
legge. Non infantilizzano il lettore, non lo accompagnano con morali o
spiegazioni rassicuranti. Lo pongono, piuttosto, davanti a un vuoto etico,
scandaloso e rivelatore che obbliga a pensare, a provare disagio, a riconoscere
la violenza implicita nelle strutture sociali e familiari – cosa che in media
siamo abbastanza disponibili a fare – ma anche che esistono bambini tonti o
addirittura bambini brutti e cattivi. L’infanzia non è solo una proiezione dei
nostri pensieri e delle nostre cure, i bambini “Semplicemente non appartengono
al mondo degli adulti”. Parole di Ana Maria nell’intervista immaginaria che
accompagna i racconti, costruita con frasi, interventi e scritti dell’autrice. È
un’operazione che restituisce la voce dell’autrice, la sua visione dell’infanzia
e della letteratura, e che dialoga: qui la finzione editoriale è uno strumento
critico.
Purtroppo, non altrettanto riuscita appare la seconda parte del volume, occupata
dai contributi grafici prodotti in un laboratorio – fatto quando e dove non si
sa – da vari autori. L’idea era quella di tradurre in fumetti l’universo dei
racconti, ma il risultato delude: là dove Matute lascia in sospeso, evoca,
disorienta, i fumetti tendono a spiegare, giustificare, addomesticare. Gli atti
inspiegabili dei bambini diventano allegorie esplicite; l’infanzia, che per
Matute è un mondo separato, ostile alle categorie adulte, viene ridotta a
simbolo morale o pedagogico. È come se la radicale oscurità dei racconti fosse
stata schiarita, smorzata, ricondotta a un senso condiviso.
A questo si aggiunge una resa grafica che non aiuta: il tratto medio, la scelta
quasi esclusiva di grigi spenti, l’assenza di segni davvero memorabili rendono i
fumetti più simili a un esercizio scolastico che a un’opera compiuta. Viene da
pensare che, se un laboratorio di narrazione produce un tale scarto rispetto
alla forza originaria dei testi, la lezione sia proprio che non sempre la
mediazione collettiva serve: i racconti di Matute parlano da soli, e con una
potenza che nessuna illustrazione qui riesce a eguagliare.
Scritti nel decennio dei Cinquanta, I bambini tonti mostrano un’infanzia che
Matute libera da ogni cliché: non angeli né vittime, ma figure ambigue, crudeli,
misteriose. È una libertà che rifletteva anche un sentire femminile in
trasformazione, stanco di farsi carico dei bambini come destino inevitabile.
Oggi, al contrario, la retorica dell’inclusività più superficiale e sciatta non
sembra tollerare il “bambino cattivo” se non come vittima. Così si perde la
possibilità di pensare l’infanzia come un mondo a sé, irriducibile all’innocenza
o alla colpa. È questa libertà che i racconti di Matute illuminano con la loro
forza scabra, e che i fumetti dell’edizione finiscono invece per addomesticare.
Ana María Matute (1925–2014) è stata una delle grandi narratrici spagnole del
Novecento, considerata in Spagna una voce centrale della generazione dei
“ragazzi della guerra” con riferimento alla guerra civile spagnola. I bambini
tonti comparve in Italia per la prima volta nel 1964 per Lerici, in un’edizione
accompagnata dalle tavole dell’artista e grafico Magdalo Mussio.
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