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Trascendere i confini, incontro virtuale tra India e Pakistan
Il 4 ottobre 2025 alle ore 11.00 CET, si è tenuto online su zoom il webinar “Transcending the Borders: an Interdisciplinary Analysis on the Indo-Pakistani Conflict in a peace construction perspective”. L’incontro si è inserito all’interno di una serie di iniziative promosse da Energia per i Diritti Umani in occasione della Giornata Internazionale della Nonviolenza, celebrata il 2 ottobre scorso. In questo contesto, è parso appropriato e necessario includere uno spazio di discussione per fare luce su uno dei conflitti più sottovalutati dal punto di vista geopolitico, quello indo-pakistano. Benché la comunità internazionale sia intervenuta nella recente escalation del maggio del 2025, il problema non è stato ancora risolto alla radice, né tantomeno portato in modo significativo all’attenzione dell’opinione pubblica. Per questo motivo l’organizzazione di un webinar volto a discutere l’argomento da un punto di vista accademico, al fine di coinvolgere le università e la rete di studenti dei due Paesi oggetto del dibattito, ha costituito un’occasione importante per sollecitare il pensiero critico della società civile. In particolare il coinvolgimento dei giovani, alimentato dal contesto educativo e dal confronto plurale, rappresenta un potente strumento di cambiamento sul piano dell’evoluzione sociale futura. All’incontro con più di 100 partecipanti (di origine indiana, pakistana, italiana, islandese, francese, spagnola, nepalese, argentina e canadese), sono stati invitati a relazionare il professor Irshad Ahmad Mughal (visiting professor all’Università del Punjab, Lahore, Pakistan), il professor Syed Khawaja Alqama (Preside della facoltà di Scienze Umane e Sociali della Minhaj University di Lahore, Pakistan) e Sudhir Gandrota, attivista indiano nel Movimento Umanista da oltre 45 anni, residente a Delhi. Il filo conduttore che accomuna questi tre profili risiede nel fatto che tutti, nell’ambito delle proprie attività quotidiane, si interfacciano con la popolazione civile: il professor Alqama e il professor Ahmad  attraverso l’insegnamento, mentre Sudhir Gandrota attraverso la promozione del dialogo sociale sia a livello locale che nazionale. Non a caso, l’obiettivo del seminario era proprio quello di allontanarsi dalla narrativa dominante e politicizzata che circonda una controversia rimasta in gran parte trascurata nel panorama geopolitico, per concentrarsi invece su un’analisi interdisciplinare che tenesse conto di due aspetti principali: da un lato, la complessità del conflitto e la necessità di affrontarlo da diverse angolazioni e prospettive per risolverlo alla radice, mediante un approccio olistico che possa offrire soluzioni concrete a una questione profondamente radicata nella coscienza storica e sociale dei popoli indiano e pakistano. Dall’altro, il ruolo fondamentale della sensibilità culturale e spiritual-religiosa nella gestione delle divergenze, attraverso la costruzione di un nuovo atteggiamento relazionale volto a sradicare la violenza. Ho moderato il dibattito in qualità di volontaria di Energia per i Diritti Umani e partecipante alla delegazione della Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza in Pakistan. Dopo una breve introduzione del contesto e presentazione dei relatori, il confronto si è aperto con un intervento congiunto di Ahmad e Gandrota, che hanno approfondito il primo dei due punti dialogando sul conflitto indo-pakistano e sviscerandone tutte le sfaccettature, da quella sociale, a quella politica, economica, ambientale e narrativa. Il dialogo tra i due relatori ha fatto emergere l’importanza di un approccio di cooperazione dal basso volto allo scardinamento dei pregiudizi e all’incentivo alla collaborazione tra i due popoli, che condividono molto sia in termini culturali che territoriali. Non possiamo infatti dimenticare come la divisione tra India e Pakistan costituisca di fatto l’esito del colonialismo britannico per cui, in un’ottica di barbara semplificazione, i confini sono stati tracciati sulla base della divisione religiosa tra induisti e musulmani, causando un violentissimo fenomeno migratorio che ha registrato innumerevoli perdite e originato traumi collettivi che si sono tramandati su base intergenerazionale. Tutto ciò ha avuto come risultato l’aumento di divisioni e ostilità, nonché la strumentalizzazione del fattore religioso, indicato come causa del conflitto. Proprio sulla prospettiva religiosa si è concentrato, a chiusura della tavola rotonda, l’intervento del professor Alqama, incentrato sull’analisi del paradigma discendente dalla Carta di Medina del 622 d.C., modello costitutivo dei principi di convivenza in ottica di conservazione di ciascuna identità e della costruzione di pace. L’argomentazione ha dimostrato come la religione in quanto tale, scevra da manipolazioni interpretative e strumentalizzazioni, abbia da sempre incoraggiato l’unione e la valorizzazione delle differenze e non possa quindi essere addotta in ottica strumentale a fondamento delle ragioni di un conflitto. La discussione è stata estremamente partecipata, in particolar modo da studenti universitari, accademici e attivisti sia dell’uno che dell’altro Paese, in un clima di ascolto reciproco, condivisione e desiderio di cominciare a strutturare un movimento di co-progettazione dal basso che possa occuparsi di questi temi, nell’auspicio di trovare una soluzione e un cambio di paradigma alle dinamiche distruttive che hanno caratterizzato il conflitto negli ultimi settant’anni. In questo clima di speranza, India e Pakistan si sono finalmente incontrati trascendendo i confini fisici posti a separazione gli uni dagli altri. In un mondo in cui il confine è visto come un limite, un luogo da interdire o demonizzare, in cui la dicotomia “dentro-fuori” genera l’orrore “noi-loro”, ripensare i confini come spazi di riflessione, confronto e co-costruzione si è rivelato un atto di resistenza necessario ai fini di riscoprire la radice dell’umano e costruire ponti di dialogo sociale. La più bella eredità di sabato 4 ottobre in fondo è proprio questa: il manifestarsi della pace nello sforzo intenzionale del dialogo, nel tentativo luminoso che attraversa chi riconosce un Essere Umano nel volto di colui che qualcun altro aveva cercato di dipingere come un nemico.   Energia per i Diritti Umani
La nave che non doveva tornare indietro
Flottilla, Unità nazionale e responsabilità politica: quando l’Italia rinuncia a se stessa Riceviamo e pubblichiamo questa riflessione di Paolo Giulierini , archeologo e saggista, già direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Figura di spicco nel panorama culturale italiano, Giulierini continua ad intervenire con passione sui temi dell’identità, della memoria e della responsabilità civile. C’è chi, di fronte a un limite, avanza e chi torna indietro. Mi sarebbe piaciuto che, in acque internazionali, qualunque idea si avesse avuto sull’operazione flottilla, la nostra nave (meglio se fossero state di più) avesse scortato le imbarcazioni fino all’ultimo miglio di mare praticabile per legge. Perché, da italiano, anche se non approvassi l’iniziativa, non tollererei mai di lasciare il pallino della decisione ad altri se ci sono connazionali di mezzo. Se il confronto politico nazionale e le pressioni internazionali portano, come estrema conseguenza, alla frantumazione dei valori dell’appartenenza allo stesso paese, dividendo tra buoni e cattivi e, alla fine, tra italiani e non italiani solo in quanto portatori di idee diverse, si è superato un nuovo limite: un punto di non ritorno. Nel nostro inno si dice, ad un certo punto, “uniamoci a coorte” o, più correttamente, “stringiamoci a coorte” : un’espressione tratta dal mondo militare romano e poi trasmessa nei secoli, che è un anelito alla coesione. Gli Alpini non sono mai arretrati. Quella nave, che ne porta il nome, non doveva tornare indietro. Chi governa, in ogni tempo, ha il dovere di rappresentare e proteggere tutti: è questa la responsabilità che si assume il partito (appunto, una parte) che vince le elezioni. Ma forse il nostro Paese non ha ancora preso coscienza di una vera Unità, di quel processo automatico che scatta in altre nazioni quando bisogna ricompattarsi, facendo un passo indietro tutti: per l’Italia, per la Patria che amiamo. Redazione Napoli
Chi più può seguire l’ipocrisia delle leggi degli uomini e degli dei?
Quando norme e riti diventano maschere, resta solo il comandamento dell’amore. Nell’attualità, la contraddizione tra leggi umane e leggi divine si rivela con una chiarezza quasi dolorosa. Da un lato, i confini marittimi tracciati dalle norme internazionali autorizzano persino l’arresto di volontari che cercano solo di portare aiuto, come nel caso delle flottiglie dirette verso popoli assediati. Dall’altro lato, lo Yom Kippur, con la sua sacralità rituale, immobilizza un intero paese per invitare alla riflessione, al digiuno, al pentimento. Due forme di legge che sembrano opporsi: una che giustifica il potere e la forza, l’altra che richiama l’interiorità e la coscienza. Ma entrambe, se svuotate di verità, rischiano di diventare maschere. Le leggi umane si proclamano strumenti di ordine e di sicurezza, mentre spesso producono ingiustizie, guerre ed esclusione. I riti divini si proclamano vie di riconciliazione, ma se restano prigionieri della forma possono convivere con la violenza quotidiana, senza interrogarla davvero. È qui che l’ipocrisia diventa evidente: quando la norma o il rito si trasformano in alibi, invece che in strade di giustizia. Che crollino pure dunque! È arrivato il momento! Il Vangelo, invece, dice senza compromessi: “Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questo” (Mc 12,31). È questa la sola legge autentica, la sola che smaschera l’ipocrisia delle altre, la sola che non conosce confini né riti, ma chiede di essere incarnata ogni giorno, nel gesto umano della cura, dell’ascolto, della solidarietà. Chi non riconosce il volto del Buon Samaritano nella flottilla che attraversa il mare, chi non vede in quell’atto la legge dell’amore, allora si ritiri puro nel silenzio del nulla. Stefania De Giovanni