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Regime forfettario, crescono le adesioni dei contribuenti
Nel nostro Paese l’economia «non osservata» — cioè la somma di quella sommersa (prevalentemente generata da sotto dichiarazione del valore aggiunto e dall’impiego di lavoro irregolare) e delle attività illegali (attività produttive relative a beni e servizi illegali, o che, pur riguardando beni e servizi legali, sono svolte senza autorizzazione o titolo) — vale 218 miliardi di euro, pari al 10% del Pil, secondo una rilevazione Istat 2023 citata dal governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta. Quasi la metà è radicata al Nord mentre un terzo al Sud. Tutte risorse sottratte al bilancio pubblico dall’evasione fiscale, «che riduce la capacità di spesa dello Stato e accresce gli oneri per i contribuenti onesti, con effetti negativi sull’equità e sull’efficienza del sistema tributario». A quanto sottolineato dal governatore mi viene di aggiungere che, se di “sistema tributario” volessimo parlare dovremmo ricordare che in Italia vige un regime fiscale agevolato, chiamato “forfettario”, destinato alle persone fisiche esercenti attività d’impresa, arti o professioni. È stato introdotto con la legge n. 190/2014 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 2015. Il regime forfettario permette di pagare un’imposta sostitutiva del 15% o del 5% per i primi cinque anni di nuova attività, con notevoli semplificazioni amministrative. Per accedere al regime è necessario rispettare limiti precisi: fatturato sotto 85.000 euro e spese per collaboratori inferiori a 20.000 euro annui. I principali vantaggi del regime forfettario possono essere riassunti come segue. * La percentuale di tassazione è agevolata: si paga un’aliquota fiscale fissa del 15%, oppure del 5% per 5 anni in caso di avvio di una nuova attività. * Non si applica l’IVA sulla vendita di prodotti e servizi. Questo costituisce un vantaggio competitivo per le attività B2C aderenti al regime forfettario, in quanto potranno vendere a un prezzo più conveniente rispetto ai concorrenti. * Non è obbligatorio tenere registri contabili, come avviene invece per il regime ordinario. * Si può richiedere la riduzione INPS del 35% per artigiani e commercianti che aderiscono al regime forfettario. * Le spese vengono determinate su base forfettaria. Questo potrebbe essere conveniente per le attività che sostengono pochi costi, come i professionisti. * I costi per la tenuta della contabilità sono minori. Le attività possono così allocare le risorse risparmiate alle iniziative finalizzate alla crescita del business. * Si è esclusi dall’applicazione degli ISA (indici sintetici di affidabilità fiscale), alleggerendo così gli adempimenti amministrativi e tributari per i contribuenti. Dal 2019 al 2025 le adesioni al regime forfettario sono passate da 1,3 milioni di contribuenti a 2 milioni. Dal 40 al 60% delle partite IVA hanno aderito al forfettario. Nei servizi professionali – come consulenti, avvocati, commercialisti, psicologi, ingegneri e architetti – l’adesione supera il 70%, con una prevalenza tra i giovani professionisti che iniziano la carriera. Nel commercio al dettaglio e nelle attività artigianali, l’adozione del regime è più variabile: molto alta tra chi avvia piccoli negozi online o attività individuali di e-commerce, meno tra chi gestisce attività tradizionali con margini ridotti, dove i costi deducibili limitati del forfettario possono essere un freno. Nel settore creativo e digitale – copywriter, grafici, social media manager, sviluppatori – il forfettario è ormai la regola. Qui i costi di gestione sono bassi e la convenienza fiscale massima. Infine, tra gli operatori sanitari come fisioterapisti, logopedisti e nutrizionisti, il regime è scelto nella maggioranza dei casi, anche perché la soglia di reddito si adatta bene alle entrate medie della categoria. Tutto questo è stato presentato come azione di contrasto all’evasione fiscale, ed è vero: conviene non rischiare e mettersi in regola. Ebbene comunque là si voglia interpretare politicamente (penso al principio sancito dalla costituzione in merito alla progressività della tassazione, che evidentemente in questa zona di ricchezza è sospeso) sta di fatto che il tradizionale binomio di lavoro autonomo e lavoro dipendente è superato. Nel mondo delle partite IVA la linea del Piave è quella che le separa dalle Srl, che possono ammortizzare le spese dei beni strumentali e dedurre o “scaricare” tutte le spese inerenti all’attività svolta. Altra soglia è la possibilità di assumere dipendenti, che nel forfettario ha un limite che si è innalzato a € 35.000  nel 2025. E infine la tutela del patrimonio individuale, che nel forfettario non è separato da quello dell’azienda nella malaugurata ipotesi di un indebitamento e fallimento, a differenza delle Srl.   Michele Ambrogio
Fisco: il ceto medio immaginario
C’era una volta la progressività fiscale. La scrissero nell’art. 53 della Costituzione come criterio per istituire il sistema tributario. Negli ultimi decenni – attraverso la riduzione degli scaglioni dei redditi, l’introduzione di tassazioni separate e l’ampliamento delle “flat tax” – di fatto è stata progressivamente tradita l’indicazione dei costituenti. Oggi siamo arrivati al paradosso di dichiarare che a pagare le imposte sono soltanto i ricchi. «Chi guadagna dai 60 mila euro in su, di fatto, finisce sempre per pagare per due: per sé e per chi resta totalmente a carico della collettività. È la trappola del ceto medio: molti ricevono senza dare, pochi danno senza ricevere». L’affermazione – in occasione della dodicesima edizione dell’Osservatorio sulle entrate fiscali, a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, presentata il 30 settembre alla Camera dei Deputati – è di Stefano Cuzzilla, presidente della Confederazione Italiana Dirigenti e Alte Professionalità. La maggior parte dei mezzi di comunicazione ha riportato la notizia con questo titolo: “L’IRPEF sulle spalle di pochi. Il ceto medio la paga per tutti”. Anche l’attuale Governo continua a promettere che nella prossima legge di bilancio ci sarà un intervento a favore del ceto medio, alleggerendo l’aliquota IRPEF intermedia dal 35% al 33%, possibilmente alzando il tetto dello scaglione fino a 60mila euro. Il risultato effettivo sarà che i contribuenti con redditi superiori a 60mila euro usufruiranno della maggiore diminuzione di imposta (1.440 euro). Peccato che tutti si scordino di segnalare che gli italiani con redditi sopra i 60mila euro sono 2,1 milioni e rappresentano soltanto il 5% del totale dei 42,5 milioni di contribuenti. È del tutto evidente che considerare “ceto medio” il 5% più ricco è ridicolo oltre che un insulto alla logica. In realtà, in Italia il reddito medio dei contribuenti è di 24mila euro annui, mentre il reddito mediano (cioè il reddito di chi si trova nel mezzo della classifica dei contribuenti) è soltanto di 20mila euro. “In medio stat virtus”, scriveva Aristotele. Il problema sta nel comprendere dove si trova il “medio”. Tanto più che il filosofo greco affermava che “la virtù sta nel mezzo” per esortare a cercare l’equilibrio e la moderazione, rifuggendo ogni esagerazione. Oggi invece dilagano gli estremisti camuffati da moderati, dimenticando che “tutti devono concorre alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” (art. 53 Costituzione). Se molti non contribuiscono, probabilmente significa che ci sono troppi poveri e anche troppi evasori fiscali. E sempre più spesso si dà la colpa ai primi, mentre si perdona i secondi, attraverso la “pace fiscale”, l’unica pace di cui abbiamo notizia. Come scriveva Francis Bacon: “Niente provoca più danno in uno Stato del fatto che i furbi passino per saggi”. Rocco Artifoni