Lampedusa, 13 agosto 2025: la strage che non deve diventare oblio
Il 13 agosto, al largo di Lampedusa, circa cento persone provenienti da Somalia,
Eritrea, Etiopia, Egitto e Pakistan hanno affrontato il mare su due imbarcazioni
partite dalla Libia. Per quaranta di loro – tra dispersi e morti – la traversata
si è conclusa nel silenzio delle onde. Sessanta sono sopravvissutə, ventitré
corpi sono stati recuperati, mentre più di quindici restano senza nome né
destino.
Notizie/In mare
LAMPEDUSA, 13 AGOSTO: UN’ALTRA STRAGE DI FRONTIERA
Mem.Med: «Saremo al fianco di familiari e sopravvissuti che rivendicano verità,
giustizia e memoria»
Redazione
28 Agosto 2025
Il nuovo report di MEM.MED (Memoria Mediterranea), “Strage di Lampedusa del
13.08.2025. Memoria dal margine contro l’oblio di frontiera” 1, ricostruisce non
solo le circostanze del naufragio ma anche le omissioni istituzionali e le
ferite inflitte ai familiari dalle procedure di gestione dei corpi. È un lavoro
che chiede verità, giustizia e memoria per quelle vite spezzate.
Secondo le testimonianze raccolte, le due barche partite dalla Libia hanno
navigato insieme fino a quando una ha iniziato a imbarcare acqua. Le persone si
sono spostate sull’altra, più grande, che si è poi ribaltata a 14 miglia da
Lampedusa. Alcuni sopravvissutə parlano di un’onda improvvisa, altri di
instabilità dovuta al sovraccarico.
Ma il vero enigma resta la mancata individuazione delle imbarcazioni. In un’area
pattugliata da Frontex e Guardia Costiera, – sottolinea l’associazione Maldusa 2
– come è possibile che due scafi restino invisibili? Perché i soccorsi non sono
arrivati in tempo?
Inoltre, le ordinarie procedure di sbarco sono state stravolte. Le associazioni
della società civile, solitamente avvisate in anticipo per poter accogliere le
persone al loro arrivo, non hanno ricevuto alcuna comunicazione. Questa
esclusione ha impedito loro di essere presenti al molo, privando i sopravvissuti
di un primo sostegno umano e immediato.
A Lampedusa la morte viene confinata. I ventitré corpi recuperati sono stati
disposti a terra, all’aperto, in un deposito cimiteriale inadeguato, sotto il
sole d’agosto. Sigillati in bare contrassegnate da lettere, hanno atteso giorni
prima di essere trasferiti in Sicilia.
PH: Silvia Di Meo, Porto Empedocle
I familiari sopravvissuti, reclusi nell’hotspot, non hanno potuto vegliare i
propri cari. Il diritto al cordoglio e al rito religioso è stato violato. La
gestione dei morti di frontiera si è tradotta, ancora una volta, in un atto di
disumanizzazione.
Mentre le autorità tacevano, le famiglie – in Italia, in Europa e nei paesi
d’origine – hanno iniziato a cercare informazioni attraverso reti di
solidarietà. MEM.MED ha raccolto decine di segnalazioni e, in dialogo con la
Procura di Agrigento, ha reso possibile un percorso di identificazione delle
salme, spesso a distanza, tramite videochiamata.
Grazie a questa mediazione, ventuno corpi hanno ritrovato un nome. Un ragazzo
somalo, Mo, giunto sull’isola in cerca del fratello disperso, ha svolto un ruolo
decisivo aiutando le famiglie connazionali. Ma senza l’intervento delle
associazioni, la comunicazione tra istituzioni e familiari non si sarebbe mai
attivata.
Per molte famiglie la sepoltura è stata un ulteriore trauma.
La scarsità di cimiteri islamici e l’assenza di un quadro normativo hanno
portato a una dispersione dei corpi in undici comuni siciliani 3, spesso senza
garanzia di inumazione a terra, come richiesto dalle famiglie musulmane. Questa
frammentazione ha reso difficile conoscere gli spostamenti delle salme e
impedito di vivere il lutto in maniera collettiva e politica.
Alle barriere burocratiche e logistiche si è aggiunta la riduzione dei riti a
mere pratiche amministrative: le bare divise, le volontà dei familiari ignorate,
la possibilità di pregare e commemorare insieme negata. Così si ostacola la
restituzione di un nome, il diritto di vegliare e la trasformazione del dolore
in memoria condivisa.
Come scrive MEM.MED, non si tratta di semplici negligenze ma di «razzismo e
colonialismo strutturali che attraversano la nostra società, le nostre
istituzioni e che attribuiscono valore diverso alle vite delle persone
razzializzate e in movimento, anche da morte».
PH: Silvia Di Meo, Castelvetrano
La strage del 13 agosto non è un episodio isolato. Pochi giorni dopo, il 22
agosto, a Lampedusa sono arrivati i corpi di tre bambine di 9, 11 e 17 anni,
morte in mare insieme alla madre sopravvissuta, oggi rinchiusa nell’hotspot. «Ad
oggi» – denuncia Mem.Med – «le bambine si trovano nel cimitero di Cala Pisana e
non sappiamo dove verranno sepolte».
Ogni corpo restituito, ogni famiglia che chiede giustizia, ricorda che i confini
non sono linee neutre ma dispositivi di morte. Per questo la memoria non può
essere lasciata al caso: deve diventare pratica politica, resistenza collettiva
all’oblio.
Il Mediterraneo continua a essere attraversato da rotte che non solo uccidono,
ma cancellano: nomi, volti, legami. A contrastare questa cancellazione restano
le famiglie, le associazioni e chi decide di guardare in faccia la violenza del
confine, senza normalizzarla.
> Per le tre bambine ancora non sepolte, per la loro madre che lotta.
> Per le vite disperse in mare. E per i volti di quelle ventitré persone in
> cerca di libertà che noi non dimenticheremo mai. (Ultima pagina del rapporto)
PH: Silvia Di Meo
1. Scarica il rapporto ↩︎
2. Ancora una strage. Fino a quando? Maldusa (30 agosto 2025) ↩︎
3. Le salme infatti sono state distribuite nei cimiteri di: Canicattì,
Villafranca Sicula, Ribera, Grotte, Palma di Montechiaro, San Biagio
Platani, Calamonaci, Santo Stefano di Quisquina, Castrofilippo, San
Margherita del Belice, Campobello di Licata e Joppolo Giancaxio ↩︎