Voluntary Humanitarian Refusal: la campagna di denuncia dei falsi rimpatri volontari dai paesi di transito
In vista della discussione sulla Legge di Bilancio e del rinnovo automatico del
“Memorandum Italia-Libia”, in scadenza a febbraio 2026 ma la cui decisione per i
successivi tre anni di estensione sarà presa già a partire da novembre di
quest’anno, le organizzazioni promotrici della campagna “Voluntary Humanitarian
Refusal – Una scelta che non puoi rifiutare” ovvero ActionAid, A Buon Diritto,
ASGI, Differenza Donna, Le Carbet, Refugees in Libya, Lucha y Siesta e Spazi
Circolari, hanno presentato i primi risultati nel corso di conferenza stampa
alla Camera dei Deputati.
Nel corso della presentazione della campagna a Milano lo scorso 24 maggio nel
contesto degli Stati Generali sulla Detenzione Amministrativa, Maria Adelaide
Massimi in rappresentanza dell’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici
sull’Immigrazione) aveva evidenziato come il concetto stesso di “volontarietà”
venga stravolto di fatto nella pratica ed esposto l’obiettivo dell’azione ovvero
una chiara denuncia delle gravi criticità e dell’uso strumentale dei cosiddetti
rimpatri volontari assistiti (RVA o Voluntary Humanitarian Return – VHR) dai
paesi di transito, in particolare la Libia e la Tunisia, chiedendo al tempo
stesso un cambiamento radicale nelle politiche migratorie europee.
Le testimonianze sono inequivocabili: quando la scelta avviene all’interno dei
centri di detenzione, sotto minaccia di espulsione o in contesti di violenza e
violazione sistematica dei diritti fondamentali, non c’è di fatto nulla di
‘volontario’ e si tratta di ‘espulsioni camuffate’ come illustrano i promotori
della campagna, il cui manifesto è stato firmato da 64 associazioni e 320
persone in pochi mesi.
«Non è un caso – ha spiegato Massimi – che l’esistenza di alternative al
rimpatrio non sia nemmeno contemplata nella definizione ufficiale
dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), che è di fatto
l’unico ente a implementare questi programmi». Eppure, ha sottolineato Massimi,
«secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e il
Relatore Speciale ONU per i diritti dei migranti, la presenza o meno di
alternative è determinante nel qualificare un rimpatrio come effettivamente
volontario».
Nel 2018, durante una visita in Niger, il Relatore Speciale ha chiarito che
nella maggior parte dei casi i rimpatri volontari non rispettano i criteri di
reale volontarietà: le persone migranti si trovano di fronte a scelte obbligate,
spesso tra la detenzione, lo sfruttamento o il ritorno in paesi dai quali erano
fuggite. La volontarietà e la legalità dei rimpatri effettuati nell’ambito del
quadro RVA, in particolare per le persone vulnerabili, tra cui donne, bambini,
vittime della tratta e persone con esigenze mediche, continuano a destare
preoccupazione a tutti i livelli. Le criticità di questo meccanismo sono,
infatti, ben note alle persone che vivono le rotte migratorie, così come ad
accademici e organizzazioni impegnate nel settore. Tuttavia, nell’opinione
pubblica prevale ancora una narrazione “umanitaria” del rimpatrio volontario,
visto come una forma di supporto a chi si trova in situazioni insostenibili nei
paesi di transito. In realtà, è proprio questa rappresentazione a nascondere il
nodo centrale: le condizioni di insostenibilità nei paesi di transito non sono
accidentali, bensì il prodotto diretto delle politiche europee di
esternalizzazione.
«Bisogna allargare lo sguardo – ha affermato Massimi – e interrogarsi sulla
responsabilità dell’Unione europea nella creazione di queste situazioni. I
finanziamenti e i mezzi forniti alla Guardia costiera libica o alla Garde
nationale tunisina parallelamente ai sistemi di controllo della mobilità nei
paesi di transito sono strumenti che, di fatto, bloccano le partenze e
contribuiscono a creare scenari di violenza strutturale».
In questo contesto, il ricorso massiccio ai rimpatri “volontari” allontana il
problema dalle frontiere europee, lasciando le persone migranti sprofondare
nuovamente nei sistemi oppressivi dai quali erano fuggite, spesso aggravando la
situazione con lo stigma del ritorno e del fallimento. Particolarmente
drammatica la situazione delle persone vittime di tratta: bloccate in Libia,
impossibilitate a proseguire il viaggio, finiscono per essere ricondotte nei
paesi d’origine – dove le attende, molto spesso, una nuova spirale di
sfruttamento e violenza, senza reali prospettive di pianificazione futura né
tantomeno di salvezza.
L’ASGI, con altre organizzazioni ed esperti giuridici in tutta Europa, da molto
tempo è impegnata in contenziosi presso i Tribunali Amministrativi per
sottoporre a giudizio la legittimità dei finanziamenti ai programmi di rimpatrio
dalla Libia e dalla Tunisia. «L’esito non è ancora favorevole – ha specificato
Massimi – ma quel che è emerso con chiarezza è la profonda mancanza di
consapevolezza pubblica sulle implicazioni di questi meccanismi».
Proprio per queste ragioni la campagna “Voluntary Humanitarian Refusal” ha un
duplice obiettivo: aprire un dibattito pubblico sulle responsabilità europee
nella produzione di condizioni inumane nei paesi di transito e rilanciare
l’urgenza di alternative politiche. «L’alternativa – ha concluso Massimi –
esiste sempre: è una scelta politica. Occorre prima di tutto liberarsi dalla
retorica dell’aiuto umanitario che, di fatto, legittima l’inazione e normalizza
la violenza strutturale. Dopodiché la nostra richiesta riguarda anche
l’attivazione di politiche di protezione verso le persone bloccate nei paesi di
transito e la sospensione di ogni forma di cooperazione con questi paesi
finalizzata al blocco della mobilità».
Anna Lodeserto