Quello che unisce
di COLLETTIVO EURONOMADE
Lo sciopero generale del 22 settembre e le manifestazioni dei giorni successivi
segnano un prima e un poi nel processo “né orizzontale né verticale” attraverso
cui in tre anni di opposizione alla guerra e al colonialismo, e ai loro
correlati – dal patriarcato alle politiche securitarie, in primo luogo – si è
andata strutturando una moltitudine ribelle allo status quo e alle derive
neo-reazionarie che si sono manifestate negli ultimi anni. Passo dopo passo,
assemblea dopo assemblea, manifestazione dopo manifestazione, l’andamento,
inizialmente carsico, di una nuova opposizione sociale ha rotto la crosta della
superficie ed è emersa in tutta la sua potenza e autonomia, senza leader,
padrini politici o sindacali, senza bisogno di padri saccenti afflitti dalla
sindrome del colonnello Buendía che, dall’alto delle loro 32 rivoluzioni
perdute, pretendono di spiegare ai palestinesi (e a cascata a studentesse e
studenti, ecc.) come si fa ad essere palestinesi.
È probabile che dalle redazioni giornalistiche o dalle sedi politiche la visione
di questa marea che ha calpestato le strade e bloccato quasi ovunque strade,
porti e stazioni appaia distorta, corrispondente ai propri desiderata e alle
proprie pre-cognizioni; è certo che dall’interno delle piazze e dei cortei
l’unione inedita tra componente migrante, studenti e studentesse, lavoratori e
lavoratrici, ma anche nuclei famigliari, non ha fatto rimpiangere gli assenti.
Certo è che quella composizione eterogenea delle piazze ha dettato una linea di
opposizione senza sé e senza ma al genocidio e al colonialismo.
Alcune considerazioni, in attesa delle prossime scadenze. La parola “genocidio”,
che non è “stata sdoganata”, ma si è imposta nella coscienza collettiva, è
l’esito di una guerra all’omertà (per dirla con Demetrio Stratos) che è stata
combattuta in tutti i luoghi in cui è ancora possibile praticare il discorso
pubblico, e infine vinta. A chi ironizza su una “sinistra che si fa guidare da
Francesca Albanese”, si può rispondere (avendone tempo e voglia) che il diritto
internazionale umanitario è oggi, nel regime di policrisi che attraversiamo, una
chiave di lettura del reale ben più utile dei facilitatori lacaniani e delle
loro schematizzazioni da bignami. E che – dal momento che non basta avere
ragione: bisogna che la ragione te la diano – le norme e i linguaggi che si
addensano nel diritto internazionale sono stati imposti dal basso: ciò che un
tempo si sarebbe detta egemonia.
In secondo luogo, la molteplicità dei foulard delle ragazze musulmane
all’interno delle manifestazioni del 22 settembre, con quanto di allegro e
gioioso può esserci nella policromia di una piazza che si oppone eticamente al
crimine dei crimini praticato in diretta televisiva, è la migliore risposta
all’infamia di chi ha gettato liquame su Hind Rajab sostenendo che se la bambina
palestinese fosse sopravissuta sarebbe stata rinchiusa in un burqa.
E ancora: le manifestazioni del 22 si sono incrociate, con un reciproco rilancio
in avanti, con la pratica di disobbedienza civile della Global Sumud Flotilla.
Una pratica, quella della Flotilla, che coniuga l’attivismo politico con la
vigenza del diritto internazionale e dei diritti umani – il diritto di navigare
in sicurezza in acque internazionali – che i governi degli stati nei fatti
negano quotidianamente, salvo poi brandire diritto legalità e sicurezza ad ogni
pretestuosa occasione, in maniera puramente strumentale. Ma come ci ricorda
l’appello di Luca Casarini e don Ciotti, “le acque del nostro Mediterraneo non
possono essere zona franca per eserciti armati fino ai denti che agiscono
indisturbati in aperta violazione di ogni legge”.
All’interno di questo movimento, senza cercare né riconoscere altra leadership
se non quella che viene dall’interno delle piazze e delle strade, bisogna
moltiplicare le istituzioni della democrazia reale, gli incontri, gli spazi per
far circolare parole d’ordine e conoscenze – sempre ricordando che il sapere non
è fatto per conoscere, ma per prendere posizione: contro la guerra, contro il
genocidio, contro la necroeconomia del genocidio, contro il colonialismo. E per
elaborare quella critica complessiva al regime di guerra globale,
all’autoritarismo e al nazionalismo, che la crisi mondiale rende sempre più
urgente, e che finora i movimenti sono riusciti solo ad evocare, più che ad
articolare collettivamente.
Le manifestazioni che stanno segnando questa fine di settembre indicano la
possibilità – e l’espressione – della riscoperta di quello che unisce. Il paese
si blocca non per vertenze strettamente interne e territoriali ma perché unito
alla popolazione di Gaza, seguendo le onde di un Mediterraneo solcato dalla
Flotilla, un mare che ancora una volta unisce invece che dividere. Il blocco
delle armi da parte dei portuali ci ricorda poi ancora una volta come l’economia
di guerra ci tenga in costellazione, dalle Università e i Politecnici con i loro
accordi con Leonardo, all’import export delle munizioni passando per il piano di
distruzione di Gaza per rimpiazzarla con un nuovo snodo centrale della
logistica.
Ancora una volta sono la solidarietà dal basso, la mobilitazione della società
civile e l’organizzazione politica di movimento a prendere lo slancio e a
rispondere alla violenza, in questo caso genocidaria, di un governo criminale,
il cui capo si presenta all’ONU impunito – nonostante i mandati di arresto,
forte del fatto che Israele e USA non hanno mai ratificato lo Statuto di Roma, e
quindi non sono obbligati a cooperare con la Corte Penale Internazionale.
Noi crediamo che questo movimento sia guidato dalla speranza, intesa non come
quella passione triste che consiste nell’attesa passiva degli eventi, ma in
quella che si concretizza nella pratica attiva per cambiare il mondo: da ogni
fiume a ogni mare, per una vita degna di essere vissuta.
Foto di copertina di Maryuri González Acosta.
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