Quando Alaa era un ragazzoNon è stata la canonica presentazione di un libro, quella di ieri davanti al
sagrato della Cattedrale di Palermo: è stato innanzi tutto l’incontro con una
persona meravigliosa, Alaa Faraj, che l’arcivescovo Lorefice ha definito capace
di “una postura umana e morale elevatissima e delicatissima” e Gustavo
Zagrebelsky dotato di “una grande forza di resistenza, senza mai una
recriminazione, anzi disposto alla gratitudine e al perdono, nonostante la
consapevolezza dell’ingiustizia subita, insomma una testimonianza civile”.
È stata anche l’occasione di diffondere controinformazione su un caso terribile,
che ricorda molto quello di Leonard Peltier per cui tanto ci siamo battuti;
controinformazione sulla disumanità di una “legge astratta, che giustifica la
forza invece di garantire la giustizia e fa conto dei numeri anziché delle
storie delle persone” (sempre Zagrebelsky, presidente emerito della Corte
Costituzionale); controinformazione sulla condizione delle carceri
(sovraffollamento, assenza di misure alternative di lavoro in semilibertà,
assenza di pratiche di rieducazione, come ci ha ricordato Daria Bignardi).
E occasione, ci auguriamo, di avviare una campagna di denuncia e di solidarietà
martellante ed efficace.
Alaa Faraj è nato a Bengasi nel 1995. Sua madre è insegnante, il padre
ingegnere. Anche lui studia ingegneria all’Università ed è un promettente
giocatore di calcio, ma la guerra civile stravolge la sua vita, cancella tutte
le opportunità. Con tre compagni, anch’essi calciatori, decide di tentare “la
strada” e venire in Europa per completare gli studi e la carriera sportiva.
Parte contro il volere dei genitori, su un barcone di appena 13 metri che deve
affrontare i marosi; vomita per tutto il viaggio, fino all’approdo, quando
vengono scoperti nella stiva i corpi di 49 persone asfissiate.
È “la strage di ferragosto” del 2015, come la chiamarono i giornali. Alaa, sulla
base di confuse testimonianze (poi ritrattate) di nove superstiti terrorizzati e
sotto choc, viene accusato di essere lo “scafista” e processato con accuse
pesantissime: omicidio plurimo, traffico d’uomini e concorso in emigrazione
clandestina, reato previsto dall’articolo 12 del codice penale, “pensato per
colpire le navi che portano soccorso e umanità in mare”, come sottolinea
Alessandra Sciurba ( cofondatrice con Luca Casarini di Mediterranea e docente di
filosofia del diritto a ItaStra, università per stranieri), la curatrice (ma
anche coautrice) del libro Perché ero ragazzo edito da Sellerio.
Alaa viene condannato a 30 anni, dei quali dieci li ha già scontati: arrivato
appena ventenne, è ora un uomo. Uscirà nell’agosto 2045… La corte d’appello di
Messina prima e la Cassazione poi hanno ricusato qualunque revisione, pur
parlando i giudici siciliani di “innocenza morale” e consigliando di chiedere la
grazia a Mattarella, e pur precisando il tribunale di ultima istanza che gli
scafisti sono “l’ultima ruota di un mostruoso ingranaggio […] vittime piuttosto
che colpevoli”.
Ad oggi Alaa non ha voluto chiedere la grazia, che presume una colpevolezza: “Ho
accettato il ruolo del detenuto, non quello di criminale” spiega. La sua
avvocata, “la mia leonessa” come la chiama affettuosamente lui, sta lavorando
alla riapertura del processo.
In carcere Alaa ha incontrato Alessandra, divenuta la sua più cara amica e
confidente, e mons. Lorefice, e con entrambi ha avviato un carteggio, nella sua
lingua “germinale e creativa”, appresa dietro le sbarre da detenuti e secondini,
ma anche dagli insegnanti e dagli psicologi che lo hanno seguito. Ha conosciuto
anche don Ciotti, Luciana Castellina, Antonio Sellerio e tanti altri.
Ora punta ad iscriversi finalmente all’università per riprendere gli studi
interrotti e a diventare almeno allenatore di calcio, visto che è troppo grande
per il gioco professionale.
“Io forse sono l’unico che vede nel carcere un’opportunità, grazie alle belle
persone che ho incontrato, e cerco di difendermi dalla sventura senza
offendere”, ci confessa. Davvero questo giovane uomo ci dà una profonda lezione
di “purezza e intelligenza con la sua mancanza di rancore e capacità di perdono”
come afferma Alessandra.
Ed inoltre, proprio grazie a lei, “ci ha fatto un grandissimo straordinario dono
d’amore e resistenza”: il libro, nel quale le epistole indirizzate a Sciurba
sono intercalate dal racconto degli eventi ad esse collegate, racconto di mano
della stessa Sciurba. Due scritture, entrambe diversamente intense, e due anime,
ugualmente sincere e appassionate, che si intrecciano.
Ieri pomeriggio Alaa ha ottenuto il primo permesso di uscita dopo dieci anni,
per venire a parlarci di questo suo libro. Ha vissuto per dieci anni chiuso in
cella, eccetto che per le due ore d’aria al giorno. Daria Bignardi, la quale da
trent’anni lavora nelle carceri grazie all’art.78, che prevede progetti
culturali con i detenuti, e conosce molto bene San Vittore e non solo, gli
chiede di descrivere ciò che prova.
“Sto vivendo emozioni contrastanti. Questa sera si può chiamarla una vittoria o
si può chiamarla un dono. Certo è un miracolo, fatto da Don Corrado e
Alessandra. Io finora dell’Italia non ho visto altro che tribunali e carceri.
Oggi ho visto bambini e fiori e sono felice.”
Bignardi continua: “Ai ragazzi capita di essere costretti a guidare la barca
perché non hanno soldi per la traversata: sono ricattati dai trafficanti, non
sono scafisti. Alaa ha sofferto per le 49 vittime, che ha visto solo in foto
molto dopo, e sta lottando non solo per sé ma per tutti.” E rivolta a lui: “Non
ti devi vergognare. I tuoi familiari devono essere fieri di te, perché ora sei
uno scrittore e perchè ti stai battendo per la giustizia”.
“Spero che il mio libro serva affinché la mia storia non accada più nessuno.” –
replica lui – “A mia madre a lungo non ho detto nulla della condanna: ero certo
che le avrebbe fatto male. E infatti, quando ha saputo, è finita ripetutamente
all’ospedale. I miei genitori credono, come me, nel rispetto delle leggi. Ecco
perché non ho voluto che venissero a trovarmi, poi a luglio sono venuti ed è
cambiato tutto…
Ho perdonato, ho riflettuto sul senso del tempo, che è un dono prezioso”.
Le parole “dono” e “perdono” rimbalzano frequenti dall’uno all’altro degli
interlocutori, forse perché a sostenere la volontà e l’impegno di tutti stasera
è “la forza della fede”, come rammenta Lorefice. Una fede religiosa in senso
lato, fede, anche laica, nell’umanità e nella sua dignità.
Corrado Fortuna, che ha letto diverse lettere dal libro commuovendoci, desidera
ricordare le parole di Sandro Pertini: “Non c’è giustizia sociale senza libertà
e non c’è libertà senza giustizia sociale” e, sull’orma di Michela Murgia,
suggerisce che “la lotta è intersezionale o non è lotta e dunque attraversa il
Mediterraneo”.
Daniela Musumeci