Il fallimento delle politiche “verdi”L’European Green Deal e gli Accordi di Parigi sul contenimento del riscaldamento
climatico sono morti, uccisi dalla guerra e sepolti dalla spesa in armamenti e
dalla conseguente militarizzazione della convivenza, mentre la crisi climatica e
ambientale accelera la sua corsa. D’ora in poi la priorità spetterà alle misure
di adattamento alle condizioni sempre più critiche che investiranno i territori
e alle comunità locali che dovranno affrontarle, sperando che si costituiscono
in attori capaci di compensare, almeno in parte, la diserzione dei rispettivi
governi. La loro azione, se e quando si svilupperà e diffonderà, potrà anche
contribuire alla mitigazione, cioè alla riduzione delle emissioni a effetto
serra che per ora continuano a crescere.
Non sono stati Trump e il suo abbietto negazionismo climatico a uccidere la
lotta ai cambiamenti climatici. L’abbandono degli impegni assunti o promessi dai
Paesi dell’Occidente o della Nato (due aree ormai in larga parte coincidenti),
ovvero dalle loro élite politiche, finanziarie e industriali, era già iniziato
da tempo, con un voltafaccia che non ha riguardato solo i programmi, ma anche e
soprattutto una cultura che dava la priorità, almeno a parole, alla pace e alla
cura della Terra. Prima di poter seraficamente dichiarare che il Green Deal “è
una cavolata” (e forse lo è stato realmente) l’establishment dell’Occidente
aveva visto nella guerra, nelle armi e nel “capitalismo della sorveglianza” una
prospettiva per tenere in piedi i propri affari più allettante, più sicura e più
proficua degli incerti e altalenanti percorsi della transizione energetica.
Cingolani che passa dal Ministero dell’Ambiente alla fabbrica di armi Leonardo
ne è l’epitome.
Il fatto è che quei programmi di transizione, spesso spacciata per conversione
ecologica, erano nati morti fin dal varo dell’Accordo Quadro sui Cambiamenti
Climatici (UNFCCC, 1992): sono sempre stati concepiti e gestiti dall’alto, senza
mai coinvolgere le popolazioni e le cittadinanze a cui erano destinati, che
avrebbero invece dovuto esserne protagoniste. Anzi, tenendole il più possibile
all’oscuro dei rischi a cui si andava incontro e delle alternative tecniche e
sociali disponibili per affrontarli (in questo campo la “disattenzione” dei
media ha giocato la sua parte per oltre trent’anni). E sempre cercando di
conciliare profitto e politiche climatiche, per non disturbare industria e
finanza, lotta per il clima e stili di vita, per non spaventare “il pubblico”.
Insomma, si poteva e doveva proseguire sulla strada della “crescita” con
investimenti “verdi” continuando a fare la vita di sempre, almeno per quelli che
potevano esserne bene o male soddisfatti: gli elettori che votano. Magari
irridendo e perseguitando i giovani che la crisi la prendono sul serio e vedono,
giustamente, nero il loro futuro.
Quelle politiche “verdi” promosse dall’alto non sono mai state precedute né
accompagnate da una consultazione popolare sulle scelte da fare. Eppure, il
cambiamento di abitudini, lavoro, attività, consumi, produzioni che una vera
lotta al cambiamento climatico richiede è radicale: può sì comportare un
miglioramento della vita per molti, ma, come ha spiegato Naomi Klein in Shock
Economy, comportano anche una perdita di potere per le élite, che infatti ne
rifuggono come dalla peste.
Per nascondere questa verità elementare l’attenzione del pubblico, soprattutto
in Occidente, è stata focalizzata sull’automobile: una “cosa” entrata da tempo
nell’organizzazione della vita quotidiana o nelle aspirazioni di chi ne è privo,
rendendo difficile anche solo l’idea di farne a meno. La mobilità fondata
sull’auto personale non è fatta solo di veicoli, carburanti ed emissioni, ma
anche di infrastrutture devastanti, di sviluppo urbano insostenibile, di consumo
di suolo e spazi di vita, di individualismo, competizione e ostentazione:
tutte cose che concorrono al riscaldamento globale. Ma invece di prevenirne
l’inevitabile crisi e promuovere un’alternativa fondata sul trasporto pubblico,
sia di massa che flessibile e personalizzato (peraltro facilitato dall’avvento
della guida automatica) per liberare in due o tre decenni la Terra, le città e
le strade dalla morsa del traffico, sostenendo con esempi concreti le tappe
successive di una consultazione popolare, si è puntato tutto sulla sostituzione,
uno a uno, dei veicoli termici con veicoli elettrici.
Sembrava una prospettiva promettente per l’industria e per il pubblico perché
cambiava poco, ma non funziona: l’auto elettrica personale non elimina nessuno
dei maggiori guai dell’auto termica, ossia particolato, consumo di suolo,
congestione, competizione, ecc. Alla fine sia il pubblico che i produttori hanno
visto che il gioco non valeva la candela: la conversione ecologica, mantenendo
inalterati stili di vita e produzioni, non si può fare. E lo stesso vale per
tanti altri settori o filiere, dall’agricoltura chimica agli allevamenti
intensivi, dall’edilizia alla nautica da diporto, dalla modalità al turismo di
massa. O si cambia veramente, con la convinta partecipazione dei più, o non vale
la pena neppure provarci. Però l’adattamento, che richiamerà presto tutti
all’ordine, richiederà molti più sforzi con meno risultati.
Guido Viale