Tra uliveti e check points: la lotta di un palestinese per la terra e la sussistenzaCome palestinese che vive a Ramallah, con radici ancestrali nel villaggio di
Qira nella provincia di Salfit, la mia vita è da tempo intrecciata con quella
della terra. Da generazioni, la mia famiglia coltiva ulivi a Qira, una
tradizione che supporta sia la sussistenza che il patrimonio culturale. Eppure
quest’anno la raccolta delle olive deve affrontare minacce senza precedenti, non
solo a causa della siccità stagionale o dei parassiti, ma anche a causa degli
ostacoli sistemici imposti dall’occupazione israeliana.
Ogni volta che voglio visitare la mia città natale – per vedere la mia famiglia,
per camminare per le strade dove sono cresciuto o per occuparmi dei miei uliveti
– mi trovo di fronte a cancelli e posti di blocco. Quello che prima era un
viaggio di 30 minuti in auto ora può richiedere ore, o essere impossibile. Come
migliaia di altri palestinesi, sento che la mia vita si sta restringendo, non
per caso ma per scelta.
Posti di blocco e cancelli: strumenti di espropriazione
Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari
umanitari (OCHA), fino al 2024 l’occupazione israeliana ha istituito un totale
di 849 posti di blocco in tutta la Cisgiordania occupata, un terzo dei quali
costituiti da cancelli che bloccano le strade. Il numero è aumentato
drasticamente nel 2025. Circa 1.000 cancelli militari e posti di blocco
frammentano massicciamente la Cisgiordania, che copre un’area di non più di
5.000 chilometri quadrati, il che significa che c’è un cancello o un posto di
blocco ogni cinque chilometri. Per i palestinesi, queste statistiche non sono
astratte. Ogni cancello è un punto di strozzatura nella nostra vita quotidiana.
I checkpoint non sono solo un inconveniente, ma causano il collasso economico,
la privazione dei servizi di base e l’interruzione della vita sociale. I
villaggi un tempo collegati ai mercati ora vedono i loro negozi chiusi e i loro
giovani disoccupati. Quando le strade di accesso sono bloccate, i lavoratori non
possono raggiungere le città o Israele per cercare lavoro. Gli agricoltori non
possono raggiungere i loro frutteti né vendere i loro prodotti.
Nella provincia di Salfit, dove si trova Qira, la situazione è particolarmente
grave. Le restrizioni alla circolazione imposte da questi posti di blocco e
cancelli ostacolano gravemente l’accesso di quasi 90.000 persone alle loro
terre, all’assistenza sanitaria, all’istruzione e ai mezzi di sussistenza. I
cancelli hanno isolato le comunità rurali dalla città di Salfit, dove si trovano
ospedali, uffici amministrativi e mercati. L’ingresso alla mia città natale è
chiuso da mesi a causa di questi cancelli, costringendo i residenti dei villaggi
vicini a percorrere strade lunghe, sterrate e dissestate per raggiungerla.
Ma forse la cosa peggiore è che i cancelli separano le famiglie. Matrimoni,
funerali e visite quotidiane che un tempo richiedevano un breve tragitto in auto
ora diventano incubi logistici o viaggi impossibili. La sensazione di
imprevedibilità – non sapere mai se una strada sarà aperta o chiusa – si è
insinuata nel tessuto della vita palestinese, ricordando costantemente
l’impotenza.
Le difficoltà poste dai posti di blocco e dai cancelli sono aggravate
dall’escalation di violenza da parte dei coloni israeliani. Questi incidenti
includono aggressioni fisiche, minacce e la distruzione di ulivi.
L’OCHA ha documentato oltre 200 incidenti legati ai coloni durante la stagione
del raccolto del 2024, in cui più di 1.600 ulivi sono stati vandalizzati,
bruciati o tagliati. Sono stati rubati attrezzi e raccolti; gli agricoltori sono
stati aggrediti.
Tra gennaio e marzo 2025, la violenza dei coloni è aumentata di circa il 30%
rispetto allo stesso periodo del 2024. Questa ondata di aggressioni viene spesso
perpetrata nell’impunità, poiché le forze di sicurezza israeliane spesso non
intervengono né forniscono protezione alle comunità palestinesi sotto attacco.
Il mio villaggio è stato testimone di numerosi crimini commessi dai coloni,
l’ultimo dei quali è avvenuto lo scorso marzo, quando alcuni coloni vi si sono
intrufolati con la copertura dell’oscurità, hanno attaccato una casa alla
periferia del villaggio e hanno dato fuoco al veicolo di un agricoltore. Le
autorità di occupazione non hanno assicurato alla giustizia alcun colono e
l’incidente è stato registrato, come al solito, come opera di ignoti.
La stagione della raccolta delle olive si avvicina e io e la mia famiglia, come
molti palestinesi, non sappiamo se potremo raggiungere i nostri uliveti.
L’oliveto: un simbolo di resilienza
Per i palestinesi, la stagione delle olive è parte integrante del nostro
patrimonio, della nostra identità e della nostra resilienza. Il periodo della
raccolta è un momento di ritrovo familiare e di lavoro collettivo, un rituale
tramandato da generazioni. Questi alberi hanno attraversato secoli di storia,
testimoniando la fatica e la perseveranza dei nostri antenati.
L’olivo, simbolo dell’identità e della resilienza palestinese, è diventato un
bersaglio nella più ampia strategia di sfollamento e spoliazione. Un rapporto
pubblicato dal Palestinian Land Research Center ha rivelato che nel 2024
l’esercito israeliano e i coloni hanno sradicato più di 59.000 alberi e
confiscato circa 50.000 dunam (5.000 ettari) di terra nella Cisgiordania
occupata.
Le cifre sono impressionanti: tra il 1967 e il 2011 sono stati sradicati oltre
800.000 alberi. Dal 2010 al 2023, altri 278.000 sono stati distrutti. Ogni
albero impiega anni per crescere; ogni uliveto sradicato rappresenta non solo
una perdita di reddito, ma anche la perdita di storia e identità. Il danno
psicologico per gli agricoltori che assistono allo sradicamento degli alberi dei
loro antenati è profondo, poiché significa un attacco diretto al loro patrimonio
e stile di vita.
Quest’anno, il raccolto è oscurato dalla presenza incombente dei posti di blocco
e dei cancelli militari israeliani e dalla violenza dei coloni, che impediscono
il nostro accesso alla terra. Queste barriere non sono semplici strutture
fisiche, ma rappresentano una strategia deliberata per recidere i nostri legami
con le terre ancestrali ed erodere il nostro patrimonio agricolo.
Le implicazioni più ampie: sfollamento e confisca delle terre
I funzionari israeliani spesso giustificano i cancelli e i posti di blocco come
misure di sicurezza. Ma i palestinesi li vivono in modo diverso: come strumenti
di punizione collettiva e sfollamento. Il diritto umanitario vieta di prendere
di mira i mezzi di sussistenza dei civili, eppure la distruzione degli ulivi, il
blocco delle strade e lo strangolamento dei villaggi continuano con regolarità.
La sicurezza non può spiegare perché i coloni abbattano antichi oliveti o perché
un cancello rimanga chiuso per settimane senza preavviso. Queste misure non ci
rendono più sicuri, ma più poveri, più arrabbiati e più determinati a resistere.
La distruzione sistematica degli ulivi e l’imposizione di restrizioni alla
circolazione fanno parte di una strategia più ampia volta a sfollare le comunità
palestinesi e a impossessarsi delle loro terre. Un cancello mi impedisce di
raggiungere i miei uliveti; i coloni approfittano quindi della mia assenza per
tagliare, bruciare o rubare. Se non posso accedere in sicurezza ai miei alberi
per anni, rischio di perderne la proprietà in base alla legge israeliana che
designa i terreni inutilizzati come “terreni demaniali”.
Questo sfollamento non è solo una conseguenza della violenza, ma una politica
deliberata volta a modificare il panorama demografico della Cisgiordania.
Costringendo i palestinesi ad abbandonare le loro terre e a trasferirsi nei
centri urbani, l’occupazione israeliana facilita l’espansione degli insediamenti
e il consolidamento del controllo sui territori palestinesi.
La resilienza è l’unica opzione
Il paesaggio familiare dei miei uliveti è deturpato dalla presenza dei posti di
blocco e dalle cicatrici della violenza dei coloni. Eppure, nonostante queste
avversità, gli ulivi resistono, con le loro radici profondamente radicate nel
suolo dei nostri antenati.
Ogni autunno, con l’avvicinarsi della stagione della raccolta, provo ansia
piuttosto che gioia. I cancelli saranno aperti? I coloni attaccheranno? Riuscirò
a portare avanti la tradizione che da generazioni lega la mia famiglia a questa
terra?
Quando mi trovo davanti a un cancello chiuso sulla strada che porta al mio
villaggio, non vedo il metallo. Vedo i volti dei miei figli, che si chiedono
perché non possono andare a trovare la nonna. Vedo gli ulivi del mio defunto
padre, carichi di frutti, che aspettano mani che potrebbero non arrivare mai.
Vedo la cancellazione della memoria e dell’appartenenza, un cancello, un albero
alla volta.
Non so se riuscirò a raggiungere i miei uliveti, o se i coloni attaccheranno
prima che io ci arrivi. Ma so questo: finché i palestinesi rimarranno radicati
nella loro terra, finché continueremo a raccogliere le olive nonostante i
cancelli e la violenza, la storia della nostra esistenza non potrà essere
cancellata. Nonostante gli ostacoli, continuiamo a coltivare la nostra terra, a
preservare il nostro patrimonio e a lottare per un futuro in cui poter vivere
con dignità e in pace.
Condividendo le nostre storie, non vogliamo solo mettere in luce le nostre
difficoltà, ma anche chiedere solidarietà e sostegno. La comunità internazionale
deve riconoscere le ingiustizie subite dagli agricoltori palestinesi e
intraprendere azioni concrete per difendere i nostri diritti e la nostra
dignità. Solo attraverso uno sforzo collettivo possiamo sperare di realizzare un
futuro in cui gli uliveti di Qira – e di tutta la Palestina – continuino a
prosperare per le generazioni a venire.
di Fareed Taamallah
Traduzione di Nazarena Lanza
Redazione Piemonte Orientale