Pomodori rosso sangue
Il paesaggio agricolo ragusano, che un tempo appariva come un mosaico di campi
aperti, muretti a secco e coltivazioni tradizionali, oggi è segnato da un
orizzonte diverso: distese di serre bianche, plastica che riflette il sole e
ricopre ettari di territorio. Da lontano il paesaggio luccica, ma dietro quella
luce si nasconde un’ombra scura: lo sfruttamento.
Dagli anni Ottanta in poi, la corsa all’orticoltura intensiva — pomodori,
zucchine, melanzane esportate in tutta Europa — ha trasformato le campagne di
Vittoria e dintorni in una delle più grandi aree agricole industrializzate del
Mediterraneo. Ma allo sviluppo economico non è corrisposta una crescita in
giustizia sociale: il sistema delle serre si è retto sul lavoro sottopagato e
spesso invisibile di migliaia di braccianti, italiani e soprattutto migranti.
Il caporalato, cioè l’intermediazione illecita della manodopera, ha preso il
posto delle vecchie forme di lavoro stagionale. Non più il contadino che lavora
la propria terra, ma uomini e donne reclutati ogni giorno da caporali, condotti
nei campi, pagati a cottimo, costretti a turni estenuanti e privi di diritti. A
questo si aggiungono condizioni abitative precarie, baracche o case abbandonate,
lontane dai centri abitati, dove i braccianti vivono in isolamento.
Così il paesaggio ragusano, che un tempo era simbolo di identità e orgoglio
contadino, è diventato un luogo ambivalente: da una parte l’immagine di
un’agricoltura florida, dall’altra il teatro quotidiano di sfruttamento,
violenze e ricatti, che spesso colpiscono le persone più vulnerabili — donne,
migranti, lavoratori senza documenti. Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto
della Flai-Cgil, in Sicilia si stimano oltre 40 mila lavoratori agricoli a
rischio sfruttamento, di cui circa la metà coinvolti direttamente in meccanismi
di caporalato. Il ragusano, con le sue serre, è uno degli epicentri. Uomini e
donne, in gran parte migranti, vengono reclutati ogni mattina dai caporali:
paghe da 25-30 euro per giornate di 10-12 ore, zero contributi, condizioni
abitative precarie in casolari fatiscenti o baracche isolate.
Il paesaggio ragusano è dunque duplice: cartolina e ferita. Da lontano, abbaglia
con le sue serre bianche, simbolo di modernità e di abbondanza. Da vicino,
mostra crepe profonde: le mani che raccolgono i frutti della terra spesso non
hanno diritti, né voce. Così, dietro ogni pomodoro lucido e perfetto, resta
l’eco di una campagna trasformata — non più comunità, ma catena produttiva; non
più campi aperti, ma capannoni di plastica; non più lavoro libero, ma
caporalato.
La giornalista Stefania Prandi, nel libro Oro rosso (Settenove, 2018), ha
documentato le storie delle braccianti nelle campagne del Mediterraneo, tra cui
quelle siciliane, raccontando molestie e ricatti legati al lavoro nei campi. Più
di recente, Diletta Bellotti in Pomodori rosso sangue (Nottetempo, 2024) ha
legato l’immagine del pomodoro, simbolo del made in Italy, al sangue versato da
chi lo raccoglie senza diritti. I pomodori che da Vittoria arrivano sulle tavole
d’Italia e d’Europa portano con sé questa contraddizione: dietro il colore rosso
brillante c’è spesso il sangue invisibile del lavoro non riconosciuto.
Il recente sequestro del ragazzo di Vittoria, figlio di di un noto commerciante
di prodotti ortofrutticoli, irrompe in questo scenario come un campanello
d’allarme. Non si tratta soltanto di un fatto di cronaca nera: è il sintomo di
un territorio in cui le tensioni sociali, economiche e criminali si intrecciano.
La filiera agricola, cuore pulsante dell’economia ragusana, non è mai stata
un’isola felice: dietro i numeri record dell’export ci sono precarietà,
sfruttamento, debiti, ricatti. Quando un giovane viene rapito in pieno centro e
davanti agli occhi degli amici si tratta di un campanello di allarme ed è un
episodio che dimostra come le tensioni sociali ed economiche che ruotano attorno
alla filiera agricola non siano più confinate nei margini, ma arrivino a toccare
il cuore della comunità.
La procura di Ragusa non parla di estorsione, ma gli investigatori sottolineano
che il fatto “non può essere separato dal contesto economico e sociale” in cui è
maturato. Un contesto dove la criminalità organizzata trova sicuramente terreno
fertile. Ignorare questo segnale significherebbe accettare che sotto la plastica
delle serre non si coltivino solo pomodori e zucchine, ma anche ingiustizie,
rabbia e paura. Sta alla politica, alle istituzioni e alla società civile
decidere se lasciare che queste tensioni esplodano o se invece raccogliere
l’allarme per restituire dignità e giustizia a un territorio che produce
ricchezza, ma che non può più farlo al prezzo dell’invisibilità e della
violenza.
Venera Leto