Dario Capello / Nella notte torinese
Torino e le ombre. Nel teatro della città natale di Dario Capello gli incontri
si adeguano al grande fiume, ai palazzi lividi e taciturni, e gli enigmi trovano
risposte che vanno bene alle strade, alle visioni incontrate dietro ogni angolo:
sono le parole con tutto il loro potenziale placido ed esplorativo a consegnarci
una poesia che si estende lungo i decenni con la rarefatta presenza – ma quanto
resistente e necessaria – di quattro raccolte consegnate alle stampa dal 2000 a
oggi. Ora infine è la volta di La straniera, che si unisce alla bella collana
diretta da Giancarlo Pontiggia. Capello aveva esordito nel primo numero di
“Niebo” (1977), rivista diretta da Milo De Angelis. Dopo vi fu un silenzio di
ventidue anni, interrotto con la pubblicazione di Il corpo apparente, primo
libro che raccoglieva poesie degli anni Novanta. L’opera spinse il redattore di
questo minimo scritto ad alzare il telefono, a cercare una voce che indicasse la
via di accesso a una scrittura capace di seguire l’asfalto cittadino e le anime
vaganti e ben visibili nella trama minerale della notte torinese.
Le ombre seguite dal poeta continuano a cercare i propri inseguitori, a
scompigliare la voce di viaggiatori, a dare tracce sparse qua e là nella gola
della notte. A dare sbocchi agli assetati nel loro varcare la soglia dei bar,
mentre cercano nomi da amare e una donna che si è amata una volta per sempre.
Capello sa interpretare le risposte, anche se il fiato si fa più corto – colpa
degli anni, colpa dei tempi in odore di guerra. Lui entra nel mondo “già fatto”,
continua a entrarvi pur non essendone mai uscito poiché i confini sono circolari
e non esiste nessuna fine. E nessun inizio. Sono gli anni, questi, riuniti
nell’isola pedonale rappresentata da La straniera – corpo fluttuante, fatto di
note basse, e decisivo. Decisivo perché si tratta di quella increspatura da cui
nasce la notte abitata. In cui le ombre non sono mai oscure, ma circondate dagli
azzurrini e il rosa antico delle albe.
La Straniera è “femminile”, non può esserci dubbio, l’incantamento da cui
Capello – è lui stesso a suggerirlo – trae il suo mito personale. Ecco perché i
nomi scivolano volentieri per le strade del mondo che ancora si ripete in queste
poesie, cariche del “tu” novecentesco che tanto amiamo noi invecchiati ai
costituenti Montale e Caproni. Se prima il “camminatore” si atterriva di fronte
alle maschere ferme al semaforo (come in molte poesie presenti in Il corpo
apparente), oggi nel cuore della notte si accennano mezzi sorrisi, lievi
ricongiungimenti che tutt’al più bruciano senza ustionare. Il fiume porta le
voci in “esercizi di strana quiete” – l’immensa madre, la città d’inverno ha le
sue insegne, chi vi passa lancia i suoi segnali, e se si trova a esser poeta
come Capello ha tutti i mezzi per aprire la prima grande finestra della casa
abitata nei decenni. Nella media notte lui e pochi altri sapevano tutto,
sapevano che i dolori hanno sempre lo stesso volto. Un lascito che questo nuovo
libro appoggia nel teatro della memoria, e nessuno dovrà pagarne lo scotto.
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