La Cina contro Nvidia
Il 17 settembre il governo cinese ha ordinato alle principali aziende
tecnologiche del paese di interrompere l’acquisto e l’uso di chip Nvidia,
inclusi l’RTX Pro 6000D e l’H20, due chip progettati appositamente per aggirare
le restrizioni imposte dal governo americano all’export di hardware USA avanzato
in Cina.
Nei giorni immediatamente precedenti, la Cina aveva avviato un’indagine
antitrust in merito all’acquisizione di Mellanox: un’azienda israelo-americana,
specializzata nell’interconnessione di rete ad alte prestazioni, comprata da
Nvidia nel 2020 per oltre 7 miliardi di dollari. L’indagine antitrust segna
l’ingresso in una nuova fase della “guerra dei chip”, che ora si estende non
solo ai singoli processori ma a tutti i componenti delle infrastrutture di
calcolo critiche.
La posizione cinese ha ovviamente fatto molto rumore, con il titolo di Nvidia
che ha immediatamente subito una flessione e il CEO dell’azienda – Jensen Huang
– che si è detto estremamente deluso (“disappointed”) dalla decisione di
Pechino.
Dal canto suo, come spesso accade, subito dopo aver acceso il fuoco il governo
cinese ha indossato i panni del pompiere. Il giorno successivo all’annuncio del
veto, il ministero degli Esteri ha assicurato che, in ogni caso, la Cina
“intende mantenere il dialogo con tutte le parti”, e non intende “danneggiare le
catene globali del valore della micro-elettronica”. Frasi che paiono messaggi in
codice inviati ai centri di potere di Washington, in passato accusati proprio di
provocare danni sistemici.
UN ASSET GEOPOLITICO
Da quando le sue GPU sono finite al centro dell’ecosistema hardware legato
all’addestramento dell’AI, i ricavi e la capitalizzazione di Nvidia sono
aumentati esponenzialmente. I dati dell’ultimo trimestre, comunicati a fine
agosto, parlano di 46,7 miliardi di ricavi, per un utile ad azione pari a 1,05
dollari e un valore della singola azione che è decuplicato negli ultimi 5 anni.
In parallelo a questa crescita se ne è però verificata un’altra, di cui i
vertici dell’azienda di Santa Clara avrebbero fatto volentieri a meno: un boom
di esposizione (geo)politica. Data la centralità di Nvidia nell’ecosistema AI –
e data la centralità di questo ecosistema nelle politiche di potenza degli Stati
contemporanei – negli ultimi anni Nvidia è diventata uno dei più contesi asset
tecnologici del pianeta.
È dal 2022 che l’azienda si trova sotto l’attenzione costante dei doganieri di
Washington e che deve fare i conti con la necessità di trovare escamotage
(tecnici o politici) ai loro divieti. In particolare durante gli anni di Biden,
la Casa Bianca ha inasprito le restrizioni all’export di semiconduttori avanzati
verso la Cina, vietando la vendita dei chip più potenti e imponendo licenze
anche per le versioni “ridotte” progettate apposta per il mercato cinese. Per
Nvidia questo ha significato rivedere continuamente il proprio catalogo: dal
chip A100 si è passati a modelli “castrati” come l’A800 e l’H800, fino ad
arrivare all’H20, le cui prestazioni rientrano nei limiti imposti dagli Stati
Uniti ed è stato pensato appositamente per aggirare le restrizioni.
La parabola dell’H20 è particolarmente emblematica. Nato come compromesso per
mantenere aperto il mercato cinese pur rispettando i vincoli imposti da
Washington, il chip è stato accusato dai media di Pechino di contenere un
“kill-switch”, ovvero un meccanismo occulto di disattivazione remota che avrebbe
reso vulnerabili le infrastrutture cinesi in caso di conflitto.
Nvidia ha smentito con forza queste insinuazioni, chiarendo che nessuna delle
sue GPU include funzioni di spegnimento a distanza o backdoor segrete. Ma il
sospetto ha contribuito a erodere ulteriormente la fiducia, offrendo alle
autorità cinesi un nuovo appiglio per giustificare le sue misure restrittive. Il
caso dell’H20 mostra come, in un’industria estremamente complessa dal punto di
vista tecnico (e dunque, per natura, opaco), la percezione conti quanto la
realtà: persino in assenza di prove concrete, il timore di vulnerabilità latenti
è sufficiente per spostare interi equilibri di mercato. Il dubbio diventa
un’arma politica.
Nel frattempo, la politica americana ha oscillato tra rigore e pragmatismo. Dopo
la stagione Biden, fortemente orientata al contenimento tecnologico di Pechino,
l’amministrazione Trump ha riaperto degli spiragli negoziali, concedendo le
licenze che hanno effettivamente consentito la vendita proprio di chip come
l’H20. Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, il cambio di orientamento
sarebbe stato il risultato di un efficace e paziente lavoro di “diplomazia” di
Jensen Huang, che ha saputo costruire una relazione personale privilegiata con
il presidente degli Stati Uniti.
La realtà – come vi avevamo raccontato anche qui – è che, nonostante gli
embarghi e i compromessi, i chip Nvidia hanno continuato a circolare in Cina
persino all’apice dei veti bideniani, in alcuni casi attraverso intermediari o
triangolazioni con Paesi terzi, aggirando così i divieti formali e confermando
quanto sia difficile bloccare del tutto il flusso tecnologico in un mondo di
catene di fornitura globalizzate.
PERCHÉ IL VETO CINESE E PERCHÉ PROPRIO ORA?
Lungi dall’essere puramente ritorsiva, la decisione cinese di colpire Nvidia va
letta come parte di un disegno più ampio. Apparentemente drastica, essa risponde
a una logica “strutturalista” che mira a riequilibrare il rapporto di dipendenza
con i fornitori stranieri. Pechino non intende più accontentarsi di avere
accesso a versioni “attenuate” dei chip americani: l’obiettivo adesso è la
conquista di un’autonomia tecnologica che abbracci l’intera filiera del calcolo,
dai semiconduttori all’infrastruttura, riducendo al minimo i punti di
vulnerabilità. È del resto lì che si gioca la sfida della “sovranità
tecnologica”, che la leadership cinese ha ormai posto tra le proprie priorità
politiche. Ma perché tutto questo avviene proprio ora?
Un indizio si trova nello “strano” tempismo con cui – due giorni dopo l’annuncio
del blocco a Nvidia – Huawei ha svelato una roadmap di sviluppo di chip che
copre i prossimi tre anni e che, se realizzata nei tempi e nelle modalità
annunciate, potrebbe ridisegnare l’intero equilibrio competitivo del settore.
La punta di diamante della strategia dell’azienda di Shenzhen è lo sviluppo
della linea di chip Ascend, una serie lanciata nel primo trimestre del 2025 con
l’Ascend 910 C e che, attraverso una progressione esponenziale dei nodi e delle
interconnessioni, punta a quadruplicare la capacità di calcolo da qui al 2027.
Sebbene, a oggi, le GPU Nvidia siano ancora considerate superiori per
prestazioni e affidabilità, l’uscita allo scoperto di Huawei riflette la
consapevolezza, da parte cinese, che la capacità manifatturiera domestica di
chip costituisce sempre meno un collo di bottiglia sensibile alla volubilità di
Washington.
La roadmap di Huawei non è solo un piano industriale, ma un atto politico: un
manifesto che intende rassicurare gli alleati interni e spaventare i concorrenti
esterni. In questo senso, il veto contro Nvidia diventa una leva utile a
concentrare investimenti pubblici e privati sul fronte della produzione
nazionale, rafforzando l’idea che la “dipendenza dall’Occidente” non sia più
insuperabile.
In altre parole: il veto cinese a Nvidia e l’annuncio di Huawei non vanno letti
come episodi isolati, ma come due mosse coordinate di una identica strategia. Un
messaggio al mondo – e in particolare, ovviamente, all’inquilino della Casa
Bianca – che la Cina non intende più limitarsi a comprare e inseguire, ma vuole
innovare e guidare.
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