A volte ritornano: “Tiro al piccione” di Giose Rimanelli
Fenoglio. Vittorini. Calvino. Rigoni Stern. Revelli. Meneghello. Viganò. Tobino.
Arpino. E mettiamoci anche Levi, perché se non altro c’era l’intenzione di
resistere. E anche Morante, per quanto non combatté. Ecco, il canone della
letteratura sulla Resistenza è ben definito, o almeno tale sembra. Eppure, i
canoni non sono fissi. Certo, impensabile che ne escano gli scrittori su
elencati, Fenoglio in testa; ma ogni tanto scavi e trovi altro, e il quadro si
arricchisce, in qualche modo cambia. Potremmo far entrare Tutti i sognatori, di
Filippo Tuena, per esempio. Ce lo ha insegnato Thomas Stearns Eliot: tutto il
canone cambia quando entra un nuovo testo, le relazioni mutano, le filiazioni si
complicano, la rete si allarga, lati in ombra vengono alla luce…
Ragioneremo quindi su un testo che entra di diritto nel canone resistenziale. Un
libro per certi versi maledetto, rimosso, emarginato, uscito nel 1953, otto anni
dopo Uomini e no di Vittorini, sei dopo Il sentiero dei nidi di ragno di
Calvino, l’anno dopo I ventitré giorni della città di Alba di Fenoglio. Insomma,
un romanzo (con una dose di autobiografia ancora da misurare) figlio della
stessa ondata, nato dagli stessi eventi storici, animato dalla stessa volontà di
fare i conti con un passato vicinissimo, scritto da un uomo che aveva
combattuto. Parlo di Tiro al piccione di Giose Rimanelli (1925-2018), pubblicato
la prima volta nella “Medusa degli italiani” di Mondadori (copertina arancione);
un romanzo di guerra notevole, che in quel territorio dovrebbe avere lo status
di classico, del quale Giuliano Montaldo realizzò un adattamento cinematografico
omonimo, nel 1961. Tuttavia se ne parla pochissimo, e ancor meno se ne scrive.
Una parziale spiegazione sta forse nella scelta di Rimanelli di raccontare la
Resistenza vista da un ragazzo molisano, Marco Laudato, che finisce in modo
rocambolesco tra le file dei miliziani in camicia nera. Non è un partigiano: è
uno di quelli che combattono contro di loro. E pare che il libro rispecchi
l’esperienza vissuta dal suo autore. Insomma, abbiamo la versione di un
repubblichino, anche se alla fine del romanzo il protagonista ripudia
completamente quello che ha fatto (e che in una certa misura è stato costretto a
fare), e il suo contenuto non invita certo a simpatizzare per la causa della
Repubblica Sociale Italiana.
Quando torna nel suo paesetto, dopo due anni vissuti a dir poco pericolosamente,
aver visto gran parte dei compagni d’arme uccisi, aver conosciuto la disfatta e
rischiato l’esecuzione sommaria, dopo esser stato consegnato agli americani per
la deportazione in un campo di prigionia in Nordafrica ed esservi scampato
evadendo dalla tradotta che lo portava a Napoli, Marco viene accolto dal padre
ex-camicia nera come un figliol prodigo. In stile meridionale, vengono convocati
i notabili del posto per festeggiare il miracoloso ritorno di un ragazzo creduto
da lunga pezza morto; tra di essi don Diego Scrocca, già segretario del Fascio,
che attacca un panegirico dell’eroico combattente, del “giovane camerata qui
presente reduce dal nord”, che “ha combattuto per una Patria grande, ma
sfortunata”. Ma Marco, dopo tutto quel che ha visto e subito, non è affatto
compiaciuto. Pensa: Ora sapevo con chiarezza che quello che parlava era uno dei
tanti che andavano frustati e cacciati a pedate, era uno di quelli che avevano
pensato alla maniera sporca di mandarci a morire, sfruttando il nome della
Patria e altre cose. Io credevo che, salvandomi dalla guerra e tornando a casa,
sarei uscito dalla guerra e avrei trovato uomini nuovi, che mi avessero
insegnato come si fa a riprendere a vivere in una Italia diversa. Invece la
provincia era ancora attaccata ai fantasmi e alle illusioni del passato, e
speculava sulla nostra stupidità.
Come a dire, l’Italia non ha imparato niente, e don Diego Scrocca ce lo possiamo
immaginare benissimo tra le fila della DC degli anni Cinquanta e Sessanta,
magari nella corrente Andreottiana, come tanti ex-camerati.
Questi e altri brani nei capitoli conclusivi attestano che Tiro al piccione
tutto è tranne che un’opera di apologia nostalgica del Ventennio, tantomeno di
legittimazione di Salò e dei suoi combattenti. Eppure fino a oggi, nonostante
sia stato edito da Mondadori prima e poi addirittura da Einaudi nel 1991, il
romanzo di Rimanelli è restato in una sorta di zona crepuscolare, ai confini con
la realtà. La destra non può farlo suo perché il libro presenta la RSI. in una
luce tutt’altro che favorevole; quanto alla sinistra, soffre – pur con lodevoli
eccezioni – di quella sorta di puritanesimo per cui bisogna essere antifascisti
sforzandosi di sapere il meno possibile del fascismo (ultimamente sembrava che
bastasse condannare annualmente le leggi razziali, sorvolando su tutto quello
che precede il 1938); insomma, il libro di un ex-repubblichino è una cosa forse
un po’ troppo sporca per certe sensibilità.
Ma il contenuto di Tiro al piccione non basta a spiegare il fato di Rimanelli.
Il problema serio fu verosimilmente un altro libro, un saggio che lo scrittore e
critico pubblicò nel 1959 sotto lo pseudonimo “Solari”: Il mestiere del furbo:
panorama della narrativa italiana contemporanea, edito da Sugar. Lo stesso
pseudonimo Rimanelli l’aveva utilizzato per firmare una rubrica letteraria su
“Lo specchio” dal 1958 al 1959, e nei suoi scritti aveva sparato a zero sul
mondo dei salotti che a suo avviso decideva vincitori e vinti dei vari premi
letterari. A partire dai suoi articoli, ne Il mestiere del furbo lo scrittore
molisano presenta un quadro delle patrie lettere dal 1930 alla fine degli anni
Cinquanta dove non fa sconti a nessuno; Leonardo Sciascia gli riconobbe il
merito di “una sincerità e un coraggio di cui, purtroppo, pochissimi sono
capaci”, ma il resto del mondo letterario ne decretò la damnatio memoriae. E non
va trascurato il fatto che la rivista “Lo specchio” fosse diretta da Giorgio
Nelson Page, un americano che aveva rinunciato alla cittadinanza statunitense
per prendere quella italiana e aderire al fascismo, poi salvato dall’amnistia di
Togliatti; e che l’orientamento della rivista, che si era “distinta” per una
serie di attacchi a Pasolini, fosse di orientamento decisamente conservatore,
per usare un eufemismo.
Ad ogni modo, dopo la pubblicazione del pamphlet Rimanelli lascia l’Italia,
recandosi prima in Canada, quindi negli Stati Uniti per il resto dei suoi
giorni. Lì inizia, potremmo dire, la sua terza vita, quella di professore di
letteratura italiana e comparata in diverse università statunitensi – tra le
quali Yale – che lavora sulla letteratura della diaspora italiana ma anche sulle
tradizioni della sua regione di nascita; non senza proseguire l’attività di
narratore, i cui frutti sono stati di recente ripubblicati da Rubbettino.
Al di là di vetuste polemiche letterarie, è il suo romanzo a interessarci, un
testo che indubbiamente abides: perdura ostinatamente, incancellabile. Offre una
prospettiva rovesciata rispetto a quella dei classici della letteratura
resistenziale, consentendo di vedere il conflitto come appariva a entrambe le
parti; un modo di affrontare la narrativa di guerra che si avvale della
metodologia comparatistica, la quale di solito opera su letterature di diversi
paesi in conflitto tra loro. In questo caso, l’operazione è semplificata perché
sia i partigiani che chi dava loro la caccia (o ne era cacciato) si esprimevano
(e poi scrivevano) nella medesima lingua, al netto di tutte le idiosincrasie
stilistiche e le diverse strategie narrative.
Ma Tiro al piccione si fa apprezzare anche per la sua brutalità: un aggettivo
prescritto dal romanzo stesso. Quando Marco racconta a Ida, l’amante del
sergente del suo reparto, come due uomini in borghese, entrati nella corsia
dell’ospedale dove era ricoverato, hanno scaricato le loro pistole su un
militare convalescente, la donna protesta: “È brutale come racconti”. Il
commento vale per quell’episodio, ma sembra rivolto all’intero romanzo. La
guerra partigiana e la repressione della Resistenza da parte dei reparti di Salò
è raffigurata senza nascondere niente, senza retorica, senza abbellimenti, senza
giustificazioni.
La vicenda di Marco Laudato comincia all’indomani dell’8 settembre; il ragazzo
sente il traffico incessante dei camion tedeschi che portano rifornimenti al
fronte, passando per il suo paese. Recano gli echi di un mondo più ampio e
avventuroso di quello della provincia molisana. Il rapporto con il padre, ex
fascista non per fede politica ma per portare uno stipendio a casa, è
conflittuale; ha una storia con una ragazza del posto, la cui sua famiglia la
vuole sposata ad un maestro. Dopo l’ennesima lite, Marco scappa di casa, chiede
un passaggio a un camion della Wehrmacht, attraversa l’Italia occupata e si
ritrova a Venezia senza sapere cosa fare. Va ad arruolarsi nell’esercito di Salò
come se cercasse di trovare la propria identità in quella divisa, ma si ritrova
a scavare trincee per le truppe tedesche: manovale come suo padre dopo la
smobilitazione della milizia.
Marco ha uno spirito ribelle, e di fare lo schiavo per i crucchi non ha nessuna
voglia: fugge di nuovo, arriva a Milano e lì viene tradito da un milite fascista
al quale dà ingenuamente fiducia. Si ritrova davanti ad una scelta: la
fucilazione in quanto disertore, o mettere la camicia nera e combattere. Opta
per la seconda alternativa, ma le aspettative sue e degli altri arruolati
vengono nuovamente deluse: non si ritrovano a combattere inglesi e americani, il
nemico che parla un’altra lingua e veste un’altra divisa, ma vengono inviati in
Val Sesia ad affrontare i partigiani. Si ritrovano in una guerra civile, a dover
ammazzare altri italiani, e scoprono a loro spese che i partigiani sono
inafferrabili, colpiscono quando meno te lo aspetti, anche mentre sei in
convalescenza in una corsia ospedaliera. Sempre che i due sicari in borghese
fossero davvero partigiani, e quello cui Marco assiste non fosse un regolamento
di conti tra camerati.
Nella seconda parte del romanzo, che narra gli scontri, i rastrellamenti e le
imboscate sui monti, c’è una ristagnante atmosfera di morte. Quella dei soldati
di Salò è una lotta senza speranze, l’unica chance che hanno è morire
eroicamente (cosa che non sempre succede), in nome di un malinteso senso
dell’onore. A uno a uno i compagni di Marco cadono, anche la sua storia d’amore
imbastita con un’infermiera più grande di lui (un riecheggiare hemingwayano?) è
senza futuro e senza scampo. Unico amico tra i commilitoni è il sergente Elia,
un militare di carriera che ha continuato a combattere perché nella vita ha
fatto solo quello, pur consapevole che dalla RSI non se ne uscirà vivi.
Il romanzo parte dunque lentamente, mostrando gli eventi dalla prospettiva di un
ragazzo che sta uscendo dall’adolescenza, e che si perde nel caos dell’Italia
occupata; ma nella seconda parte raggiunge anche momenti di suspense, come
quello in cui un gruppo di miliziani entra in una taverna frequentata dai
partigiani spacciandosi per paracadutisti inglesi; una scena che ne anticipa in
modo sorprendente una assai simile in Inglorious Basterds di Quentin Tarantino
(avrà visto il film di Montaldo?).
Il momento culminante (e devastante) è il finale della seconda parte, quando il
reparto di Marco sta tentando di raggiungere la Valtellina, dove si dovrebbe
resistere fino all’ultimo uomo agli eserciti alleati che dilagano nella Pianura
Padana. La via dell’ultimo ridotto passa per il valico del Mortirolo, dove però
sono asserragliati i partigiani, ben armati e posizionati e decisi a non far
passare i repubblichini. Dopo tre giorni di combattimenti disperati, i
superstiti vedono arrivare un prete con una bandiera bianca, e quello che rivela
loro li annichilisce: Mussolini è stato catturato e giustiziato, ormai non si
combatte più, è veramente finita. Gli assalti suicidi delle ultime camicie nere
in attività sono stati inutili.
Mi sembra che questa chiusa, seguita dal deprimente ritorno a casa di Marco, sia
una sorta di metonimia della sua avventura al Nord: una guerra condannata fin
dal principio, senza prospettive di vittoria, nella quale si poteva solamente
morire. Una guerra perduta prima ancora di cominciarla, perché già nell’estate
del 1943 era certo che l’Italia non poteva più combattere, proseguita per gli
interessi del Terzo Reich, non per i nostri.
In tutto questo Marco più che protagonista è un ragazzo trascinato dalla
corrente; in parte forzato a combattere pena una pistolettata in testa, in parte
legato volente o nolente ai suoi compagni di squadra, le uniche persone con cui
si rapporta, una relazione tutt’altro che affettuosa, una sorta di solidarietà
tra condannati a morte; in ultima analisi – ed è uno degli aspetti più
interessanti – è un adolescente immaturo spesso preda di emozioni momentanee,
degli istinti, incluso quello di uccidere. Non è dunque un innocente, e la sua
maturazione consiste nel prenderne pienamente coscienza verso la fine,
rendendosi conto di essere in fin dei conti figlio di suo padre, con una vena
violenta come la sua, e nel comprendere che sulle montagne ha perso qualcosa, ha
“detto addio all’altro Marco Laudato che era rimasto lassù […] con tutti i morti
della guerra”.
Memorabile la chiusa, nella quale il protagonista, dopo aver rifiutato la
celebrazione da parte dei notabili paesani irrimediabilmente fascisti, riflette:
“Adesso sapevo che era necessario tornare in mezzo alla gente, vestito con i
miei panni civili, e vivere finalmente per una ragione”. Perché la lugubre e
grottesca epopea di Salò, a ben vedere, avrà avuto le sue cause, ma una ragione
non l’aveva.
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