Massimo Ilardi / Here to stay
Ormai arrivati a un quarto di secolo, sono molte le analisi, della più varia
estrazione teorica, e che oscillano regolarmente tra il bilancio e il rilancio,
rispetto alle trasformazioni dell’azione politica che si sono susseguite a
partire dai fatti di Genova 2001. Uno dei fenomeni che ha segnalato la «crisi
dei paradigmi interpretativi dei conflitti» – come si legge nel sottotitolo di
questa bella collettanea di saggi curata da Massimo Ilardi per DeriveApprodi – è
senza dubbio costituito dal cuore del libro, ovvero «le rivolte urbane del XXI
secolo». E, tra i tanti approcci possibili per un campo di indagine così
proteiforme da contenere tanto le rivolte delle banlieues francesi e le
iniziative di Black Lives Matter quanto le cosiddette “primavere arabe” o ancora
le manifestazioni di Rosarno del 2008 e del 2010, i contributi del saggio si
attestano su un taglio generalmente sociologico (dando così conto della propria
origine accademica, come programma di ricerca inaugurato da un seminario
organizzato nel marzo 2024 dal dottorato di ricerca in Ingegneria
dell’Architettura e dell’Urbanistica della Sapienza), ma con frequenti tinte
militanti.
Un testo di riferimento è allora facilmente individuato in Città di quarzo
(1990) di Mike Davis, pubblicato in Italia poco dopo che a Los Angeles, città
alla quale è dedicato il saggio, erano scoppiati i violenti riot della primavera
1992, originati dalla circolazione del video del pestaggio di Rodney King da
parte della polizia locale. In linea con l’approccio di Davis, così come quello
di molti altri studiosi – il più ricorrente, anche per effetto della preminenza
nel volume del caso di studio francese, è forse il nome di Alain Bertho, autore
negli ultimi quindici anni di vari saggi sull’argomento, ancora inediti in
Italia –, le rivolte urbane degli ultimi due decenni sono prese in
considerazione, in primo luogo, per il rapporto, al tempo stesso derivativo e
trasformativo, con il territorio in cui si sviluppano. Come scrive Ilardi, «[è]
dunque il conflitto e non la spazialità artificiale, disciplinata dal lavoro,
controllata, neutralizzata e omogeneizzante dello Stato e del mercato che
dovrebbe fondare oggi uno spazio pubblico come possibilità di formazione del
politico, non quello leninista utile per la conquista dello Stato ma quello che
serve per il ribaltamento dei punti di forza sul territorio».
In questa citazione vi è uno dei pochi spiragli di futuro di un testo che si
apre, tuttavia, sui toni cupi della «drammatica e definitiva sconfitta» di
Genova 2001: se la forma-movimento non è forse scomparsa, nell’ultimo ventennio,
ma si è attestata sulla rivendicazione di diritti civili e/o sociali, le rivolte
urbane hanno di certo preso il sopravvento, a livello quantitativo, pur
muovendosi paradossalmente – secondo un’adeguata metafora ripresa da Le temps
des émeutes (2009) di Bertho – «tra l’inudibile e l’indecifrabile, tra il
silenzio e il rumore». Parallelamente, si è registrato, in qualche Paese
europeo, il ritorno ai comitati territoriali – più che “civici”, non aderendo
quasi mai alla cornice del civismo liberale – come ad esempio i comitati per la
casa: se questi ultimi declinano il proprio legame con i territori in modo
certamente diverso dalle rivolte e dai riot, sono senza dubbio questi ultimi a
essersi estesi a livello globale (come ricorda il contributo finale, a volo
d’aquila, di Eugenio Conti) e a essersi imposti come uno dei fenomeni politici
più rilevanti dell’inizio del ventunesimo secolo.
Nel volume, si alternano analisi legate a casi di studio specifici – come la
“Storia e controstoria delle banlieues” di Agostino Petrillo, già autore di
varie ricerche sulle periferie urbane, o anche “Harraga Riot” di Roberto De
Angelis, sui territori italiani attraversati dagli harraga (dall’arabo
maghrebino, chi migra “bruciando i confini”) – e contributi di impostazione
teorica più generale, come quelli di Michele Garau, Nicolò Molinari, Gaia
Bacciola e anche di Andrea Cerutti (con una derivazione trontiana, in questo
caso, fin troppo evidente). Non mancano anche i contributi di ricerca più
chiaramente afferenti agli studi culturali come quelli di Luca Benvenga e
Salvatore Benasso, specialisti della trap italiana, e di Fabrio Violante, su
quello che può essere definito, con una semplificazione, “cinema francese delle
banlieues”.
Del resto, in un volume che rivela qui e là una comune matrice teorica
post-operaista, nonché un’enfasi trasversale sulla violenza destituente, le
città sono «centri della rivolta, come teatro e oggetto di processi di
contro-soggettivazione» – come scrive limpidamente Conti nell’ultima pagina del
libro – il cui approfondimento rivela, di volta in volta, una complessità così
grande e fortemente articolata che «servirebbe un’etnografia del mondo intero
per provare a comprendere davvero» quanto sta accadendo, a livello globale. Un
orizzonte potenzialmente inesauribile, dunque, ma da tener presente ogni volta
che si articolino nuove prospettive di ricerca sull’argomento del volume e si
vogliano, magari, evitare i limiti della forma-elzeviro, che pure è stata
frequentemente adottata, nel caso delle rivolte urbane, da svariati teorici à la
page. Si ricorderà ad esempio quanto scriveva Slavoj Žižek all’epoca dei riot di
Tottenham del 2011, riponendo un’eccessiva e squalificante enfasi sul feticismo
della merce evidenziato dalle pratiche di saccheggio e mancando il punto
politico della questione.
Aveva tentato, invece, un’elaborazione teorica più generale del riot, in termini
di economia politica, Joshua Clover con Riot sciopero riot, uscito in lingua
originale nel 2016. Anche Clover è spesso citato nel volume di DeriveApprodi, ed
è forse doveroso, non soltanto per chi scrive, terminare questa recensione
ricordando l’autore californiano, a pochi mesi dalla sua scomparsa, con le
parole che aprivano il suo saggio: «I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui
e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata».
L'articolo Massimo Ilardi / Here to stay proviene da Pulp Magazine.