Luigi Pintor, cento anni in un giorno
Ha senso chiamare a parlare, in un giorno di fine settembre, chi ha conosciuto
Luigi Pintor, e anche chi non lo ha conosciuto, in occasione dei cento anni
dalla sua nascita? È lecito chiederselo e perciò vale la pena trovare risposte
adeguate all’uomo Luigi Pintor e al secolo che ha attraversato, a volte in buona
compagnia, a volte meno, e in piccola parte vissuti assieme, al “manifesto”, il
“quotidiano comunista”. Cercare qualche risposta è lo scopo principale
dell’incontro che si terrà a Cagliari il 20 settembre prossimo, dal titolo
“Piazza Pintor”, organizzato dal Collettivo Pintor, in collaborazione con Il
Manifesto e grazie al sostegno della Fondazione Sardegna e alla cooperativa
Agorà Legacoop.
Come fosse la targa di una via cittadina, nella locandina c’è la data di
nascita, 1925, e quella della sua imprevista scomparsa, il 2003. Ma c’è anche
una riga che spiega, per chi non lo sa, chi era Luigi Pintor: «Giornalista,
scrittore, comunista, sardo». La targa è anche un auspicio: che al «più grande
giornalista italiano», come lo aveva definito Enrico Berlinguer, la città che lo
ha visto nascere dedichi una strada, un luogo, una memoria indelebile.
Così come hanno fatto a Orgosolo i cittadini che lo hanno immortalato nel murale
che compare sulla locandina che chiama, chi lo ha conosciuto e chi no, a un
incontro costruito sui ricordi ma anche su una visionaria idea di futuro. Così
come è stata la biografia di Pintor.
È stato giornalista nel senso migliore di questa accezione, ormai caduta in
prescrizione, perché ha saputo costruire dal nulla, assieme a un piccolo gruppo
di suoi pari, un oggetto scandaloso e perciò straordinario: un giornale fuori
dai partiti e dai potentati economici, frutto della sapienza e della irriverenza
verso ogni dottrina. Un’eresia, senza però la pretesa di dar vita a una nuova
religione.
Da quel 1971 (e dalla radiazione dal Pci), per trent’anni ogni mattina Luigi,
Rossana, Valentino e un pugno di giovani per la maggior parte senza bussola,
hanno potuto navigare in direzione ostinata e contraria a volte arrancando ma
sempre imponendo un punto di vista originale e dissacrante. Con quel «pessimismo
dell’intelligenza e ottimismo della volontà» di cui Pintor è stato uno dei più
degni interpreti. Ed è stato scrittore di libriccini piccoli ma densi e sapienti
e commoventi e laceranti che hanno sbaragliato la metrica e l’ortografia
regalando quattro petali di un fiore desinato a non appassire mai. Chi li ha
letti li ha anche letti di nuovo e forse continuerà a farlo fino a che quella
sua intima storia raccontata con pudore, quasi con timidezza, non tracimerà
restituendoci l’immagine migliore e più disperata di un paese assediato. È la
storia di un mondo che non c’è più del quale Pintor è stato testimone distaccato
e al tempo stesso protagonista.
Ed è la sarditudine indelebile con il suo accento che non ha mai perso le vocali
e il suo stupore condito con oassione e orgoglio per questo mare troppo azzurro
per essere vero e queste erbe troppo verdi per essere nate su terreni aridi.
Ed ecco, infine, perché è stato comunista sempre, con o senza il Partito.
Comunista nello sguardo sulle persone, sugli eventi che hanno segnato il
Novecento, sui processi, sulle sconfitte. Sulla volontà di ricominciare senza
perdere un briciolo della capacità di interpretare il presente per immaginare il
futuro. Perfino nel suo ultimo editoriale, Senza confini, riesce a non farsi
travolgere dalle devastazioni culturali e politiche pur capendone la carica
dirompente. Io vorrei che tutti lo leggessero (è stato scritto nel 2003, pochi
mesi prima della morte). Anzi, forse, se fosse stato letto e capito allora,
l’orrore del presente avrebbe potuto essere meno devastante.
Qualche riga, e chi vuole può andare a leggerlo o a rileggerlo sul sito della
Fondazione Pintor: «Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo.
C’è un’umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni,
divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora
di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una
estraneità riguardo all’altra parte. Destra e sinistra sono formule superficiali
e svanite che non segnano questo confine. Anche la pace e la convivenza civile,
nostre bandiere, non possono essere un’opzione tra le altre, ma un principio
assoluto che implica una concezione del mondo e dell’esistenza quotidiana. Non
una bandiera e un’idealità ma una pratica di vita».
L’immagine di copertina è tratta dal manifesto dell’iniziativa
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