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Senza confini
La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno. Non credo che lo facciano per opportunismo e che sia imputabile a singoli dirigenti. Dall’89 hanno perso la loro collocazione storica e i loro riferimenti e sono passati dall’altra parte. Con qualche sfumatura. Vogliono tornare al governo senza alcuna probabilità e pensano che questo dipenda dalle relazioni con i gruppi dominanti e con l’opinione maggioritaria moderata e di destra. Considerano il loro terzo di elettorato un intralcio più che l’unica risorsa disponibile. Si sono gettati alle spalle la guerra con un voto parlamentare consensuale. Non la guerra irachena ma la guerra americana preventiva e permanente. Si fanno dell’Onu un riparo formale e non vedono lo scenario che si è aperto. Ciò vale anche per lo scenario italiano, dove il confronto è solo propagandistico. Non sono mille voci e una sola anima come dice un manifesto, l’anima non c’è da tempo e ora non c’è la faccia e una fisionomia politica credibile. È una constatazione non una polemica. Noi facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala internazionale una potenza adeguata. Le nostre idee, i nostri comportamenti, le nostre parole, sono retrodatate rispetto alla dinamica delle cose, rispetto all’attualità e alle prospettive. Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C’è un’umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all’altra parte. Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine. > Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere > un’opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione > del mondo e dell’esistenza quotidiana. Non una bandiera e un’idealità ma una > pratica di vita. Se la parte di umanità oggi dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne farebbe dell’uccisione e della soggezione di sé e dell’altro la regola e la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni contiguità con questo versante inconciliabile. Una internazionale, un’altra parola antica che andrebbe anch’essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un’organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste. 24 aprile 2003 (Luigi Pintor è morto il 17 maggio 2003) La copertina è di Gabriella Mercadini/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto LEGGI IL COMUNICATO STAMPA E PARTECIPA ALL’EVENTO FACEBOOK SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Senza confini proviene da DINAMOpress.
Stile e lezioni di Pintor
Il mio rapporto con il gruppo storico del “manifesto” è stato altalenante, perché agli inizi degli anni ’60 le nostre posizioni di opposizione all’interno del Pci erano diverse, accomunate prevalentemente dalla critica della destra amendoliana, ma diverse nel giudizio su Togliatti e nella pratica oppositoria (io ero un “entrista”, figura archeologica imposta dal divieto di correnti organizzate dal basso). Comunque il mio apprendistato nella Fgci l’avevo fatto a “Nuova Generazione” sotto la direzione di Luciana Castellina e di un altro maestro eccezionale di giornalismo, Sandro Curzi. La frequentazione di Ingrao e della sinistra ingraiana veniva dunque da sé, con percorsi paralleli. Il rapporto era più facile con quelli che erano di poco più grandi di me e con Natoli, che per il ruolo politico tenuto a Roma aveva una grande capacità interlocutoria. Rossanda, in apparenza la più inavvicinabile per età, biografia “milanese” e statura intellettuale, aveva invece un’insaziabile curiosità per le idee nuove e per questi “giovani”, stimolando il dialogo e il confronto. Luigi Pintor aveva un carattere più riservato, al limite dell’ostico, ma l’ammiravo moltissimo come giornalista (allora dirigeva il quotidiano del Pci e fu fatto fuori da Alicata, che io consideravo quasi un nemico personale per le mie esperienze al “Contemporaneo”, a “Critica marxista” e sulle questioni ideologiche in generale (ebbe peraltro i suoi meriti resistenziali e prima ancora aveva sceneggiato Ossessione per Visconti). > Pintor, come Natoli, aveva fatto la resistenza antinazista nella Roma occupata > e questo conferiva loro, come ai gappisti di via Rasella, un’aura di rispetto > presso i ragazzi con le magliette a strisce che erano scesi in piazza contro > Tambroni nel 1960 immaginandosi di ripetere Porta San Paolo 1943. Vabbè, sono storie di altri tempi, in cielo volavano ancora gli pterodattili, mica i droni. Poco dopo tornammo tutti, volenti o nolenti, a respirare aria libera. Era arrivato il ’68 – e una mano al suo scoppio gliela avevamo data tutti ma l’evento ci sorpassava di gran lunga ed era internazionale – eravamo ormai fuori del Pci e con la successiva segmentazione (sciagurata ma inevitabile) del movimento in partitini ci trovammo agli estremi opposti dello spettro politico “sovversivo”. Il manifesto quotidiano restava però un punto di riferimento ineludibile e per tanti anni facevo il mio pellegrinaggio affabulatorio una volta a settimana a via Tomacelli, libreria e redazione, passando di stanza in stanza a salutare i compagni, fino a concludere con lunghe conversazioni, al piano e al bar di sotto, con Valentino Parlato – che non era il più “a sinistra” del gruppo, ma una fonte inesauribile di storie e mi raccontava anche della Libia, per me esotica, al punto che andai a vedere dall’esterno la sua casa di allora, quando andai a Tripoli da turista nel 2001, nella vecchia citta-giardino italiana. Anche allora non mi azzardavo a disturbare Pintor, il cui amore per la solitudine e l’avversione alle chiacchiere erano leggendari. Il mio periodo di maggior frequenza e scrittura al “manifesto”, cadde fra il 1988 e il 1991, quando Virno diventò redattore culturale e inaugurò un breve periodo sperimentale di resistenza non nostalgica all’ilare e tossica restaurazione degli anni ‘80. Rossanda chiamava ancora me e Paolo “i giovani”, anche se non lo eravamo più e un’intera generazione, la nostra, era stata massacrata, incarcerata o zittita. Al di là delle relazioni personali, spesso dettate da casualità e impulsi affettivi, resta il giudizio sul politico, sul maestro di stile giornalistico e naturalmente sullo scrittore, altrettanto essenziale e impegnato su un arco di emozioni e ricordi ben più profondi dalle miserie di cronaca su cui un editorialista è costretto a esprimere valutazioni. > Pintor era famoso, ben fuori della sua parte, per i corsivi fulminanti e > tutt’altro che d’occasione, tanto che in alcuni casi potrebbero essere > riproposti oggi tali e quali (su Israele, sulle allocuzioni ministeriali > sollecitanti la formazione di una coscienza alimentare nazionale, sullo > stillicidio degli infortuni sul lavoro). La forza dell’approccio di Pintor, espressa negli editoriali del “manifesto”, stava e resta nel suo tenere insieme la crisi del Pci (e metamorfosi susseguenti) con la dinamica dei movimenti, soprattutto dopo le rotture epocali del 1989 per il primo e del 1978 per i secondi, che facevano venir meno la dialettica, a volte malsana ma in fondo produttiva per cui una serie di istanze rivoluzionarie erano tradotte in importanti riforme negli anni ’70, con una tacita complicità bilaterale (almeno fino al 1977) al di là del dissidio strategico e dalla virulenza del linguaggio. Il muro della “fermezza” eretto dal Pci contro la componente terroristica post-sessantottina finì per tagliar fuori tutto lo spirito del movimento , che in maggioranza dal terrorismo era alieno, compresa l’eterogenea moltitudine che si radunò e si sciolse nel mitico convegno bolognese del 1977. In questa situazione Pci e movimenti si suicidarono ciascuno per conto suo, alla Bolognina e a via Fani. Il neoliberismo, una volta schiacciati i sovversivi (non senza l’aiuto dei riformisti), si dedicò a fagocitare i riformisti e poi a disperderli – il tutto in un contesto internazionale di riflusso in cui la caduta del Muro di Berlino sovradeterminava scioglimenti e rifusioni locali. Pintor non aveva nessuna nostalgia del Pci, pur essendo cresciuto proprio nella costruzione del Partito nuovo a partire dal 1943-1944, ma aveva capito che le periodiche insorgenze dal 1960, del 1968 e di tutti gli anni ’70 in polemica aspra con il Pci implicavano appunto la loro esistenza a sinistra di un corpaccione malandato che faceva opposizione e resistenza fisica ai vari comitati d’affari che la borghesia di volta in volta metteva su, con il sostegno Usa, per tenere insieme il Paese. > I movimenti potevano rifluire temporaneamente e il corpaccione mescolarsi alle > formule di governo, ma le distinzioni di fondo rimanevano e una certa idea di > “sinistra” restava in piedi, checché insinuassero certi estremisti che la > vedevano morta. Lo scioglimento del Pci, sulla scia del crollo del campo socialista e Est, cambia i termini del problema. Non possiamo neppure immaginare cosa avrebbe scritto Luigi del personale politico del Pd attuale sui campi larghe e stretti, ma più interessante è che il verdetto di morte del Pci (sotto il nome ormai di Pds) Pintor lo formula proprio nel momento di massimo fulgore post-Bolognina, durante la segreteria (1994-1998) e ancor più il governo (1998-1999 e 1999-2000) di Massimo d’Alema – eh già, di quel leader maximo che oggi spicca come un gigante in confronto ai piddini prostrati a Biden e von der Leyen. Ne scriveva il 2 giugno 2001: «Evidentemente Massimo D’Alema non ha alcuna intenzione di farsi da parte e neppure di ridimensionare se stesso. Pochi (o nessuno) peccano di modestia nel mondo politico di oggi, dove il leaderismo e l’aspirazione al primato prevalgono su ogni altra considerazione. Forse, nel suo caso, dipende anche dal carattere, da quel senso di superiorità che ha sempre ostentato senza mai spiegarne il fondamento biografico». Un cameo validissimo anche per le sue più recenti comparsate in Tv. Compresa la sua olimpica allergia all’autocritica per gli errori commessi in un periodo «difficile ma non sfavorevole», in cui ha insanamente coinvolto l’Italia nelle guerre balcaniche con il bombardamento di Belgrado del 1999 e con i rapporti amichevoli e subalterni con Condoleezza Rice in epoca successiva, da ministro degli Esteri del secondo governo Prodi. D‘Alema – sempre secondo Pintor – aveva leso «l’immagine stessa della sinistra, deprivata di ogni sensibilità sociale e divenuta ancella di tutto ciò che ha sempre combattuto nella sua lunga storia, degenerando fino all’elogio della guerra: che non è stata una necessità subita ma una occasione coltivata». E di ciò il Presidente non aveva mostrato allora «alcun turbamento» e, a dire il vero, non lo mostra neppure oggi, nelle pensose e brillanti interviste che rilascia irridendo giustamente alla miseria della politica corrente. E Pintor profetizza con assoluta puntualità: «Se i diessini superstiti prenderanno questa strada non avranno futuro e anche l’Ulivo ne patirà le conseguenze». > Riprendendo il tema, alla vigilia della morte, nel suo ultimo editoriale > dell’aprile 2003, Pintor afferma seccamente che «la sinistra italiana che > conosciamo è morta», sia essa quercia o margherita o ulivo, per subalternità > irreversibile «non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e > alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno». Il passaggio dall’altra parte si è compiuto nell’89, nel decennio successivo perdendo anche «la faccia e una fisionomia politica credibile». E neppure «facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala internazionale una potenza adeguata». Con la seconda guerra del Golfo era tramontata l’illusione del movimento come seconda potenza mondiale e la politica abituale si era impadronita del movimento di Genova, soffocandolo con ben maggiore efficacia della repressione targata Berlusconi-Fini-De Gennaro.  Il mondo si è diviso in due parti per il sentire, ma non per l’agire, rispetto a cui i movimenti sono impotenti. E comunque questa spaccatura non segue più le linee divisive di un tempo: «Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine». E, alla fine della vita, Luigi Pintor suggerisce di sostituire a una bandiera una «pratica di vita», non un’organizzazione formale bensì una «formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza», – una moltitudine, ­vorremmo dire con termine che l’autore non usava – di “compagne e compagni” non gelosi di stretto riconoscimento ma «senza confini», propensi in tempi più lunghi di domani a «reinventare la vita» di cui il neoliberalismo ci priva giorno dopo giorno. Apocalittico? Pessimista? Disfattista? No, presa d’atto di una chiusura di ciclo. Però i movimenti sono sopravvissuti e si sono ripresi, dopo un letargo più che decennale, senza una dialettica con il sistema dei partiti (dissolto nell’astensionismo oggi maggioritario e nella perdita di progettualità),dunque oggettivamente indeboliti (e qui il pessimismo di Pintor ci aveva colto), ma definitivamente liberati dalla nostalgia di quella forma, incerti ed espansivi, in parte autonomi dei vincoli destinali della geopolitica. Una pagina bianca, chissà. La copertina è di Livio Senigalliesi/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Stile e lezioni di Pintor proviene da DINAMOpress.
Luigi Pintor: discontinuità della memoria generazionale
Dal primo giorno in cui ci siamo proposti di ricordare i cento anni dalla nascita di Luigi Pintor, io e altri compagni di lunghissima data, di quelli che la loro vita professionale e politica (e umana, aggiungerei) l’hanno trascorsa al fianco di Luigi, mi assedia una domanda: ne vale la pena? Ovviamente sì, mi sono risposto dopo il convegno di Cagliari, in settembre, e dopo il corso di formazione per giornalisti, in novembre a Roma. La partecipazione, l’interesse, i ragionamenti e sì, i ricordi, sono stati tali, e così calorosi da convincermi che di una “piazza Pintor”, come abbiamo battezzato l’incontro sardo e si chiamerà il prossimo, il 5 dicembre, alla Nuvola dell’Eur, a Roma, c’è proprio bisogno, almeno tra la gente della nostra età, o poco meno. Però un dubbio mi è rimasto e riguarda la faglia generazionale, tra noi sessantottini e i più giovani. In fondo, dalla morte di Luigi sono passati più di vent’anni, giusto una generazione. E poi, si sa, una faglia, o frattura, c’è sempre, e necessariamente, tra i vecchi e i giovani, come diceva Pirandello. Per esemplificare: quando andai in un liceo a raccontare un mio romanzo ambientato nel ’68 e chiesi: questo numero vi dice qualcosa?, un ragazzo alzò la mano e rispose: sì, nel 1968 è nata mia madre. E fui molto colpito quando, in viaggio a Berlino, andammo alla commemorazione di Rosa Luxemburg, migliaia di persone intorno alla sua tomba inventata perché il corpo di Rosa, assassinata dai gruppi di ex-militari nazionalisti che poi sarebbero diventati nazisti, non fu mai ritrovato. E c’erano moltissime ragazze e moltissimi ragazzi, quel giorno, nonostante il fallimento del regime comunista, anche in Germania. > Che cosa spingeva quelle ragazze e quei ragazzi a portare fiori e a mettere > bandiere rosse a un monumento abusivo, in tutti i sensi? E cosa aveva spinto noi, sessantottini, a coltivare, studiare, pezzi del comunismo, da Marx a Lenin, da Gramsci a Rosa Luxemburg, appunto, e moltissimo eccetera? Eppure eravamo noi, allora, i “nuovi”, molto eccentrici e deragliati dal marxismo-leninismo, libertari in tutto, al punto che uno di noi, studente ribelle, si diede fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, per protestare contro i carri armati sovietici alla maniera dei bonzi vietnamiti che si opponevano all’invasione statunitense? Mi è capitato di vedere occhi smarriti o inespressivi di ragazze e ragazzi che sentivano nominare Pintor. Chi sarà mai? Non c’è niente di male, certo, ma in questo periodo non si può dire che siano indifferenti, le ragazze e i ragazzi. Le gigantesche manifestazioni femministe e quelle per la Palestina, la tenace opposizione alla distruzione della natura, tra le altre cose, mostrano che al di là della faglia generazionale c’è vita, e vivace. E su quale scia storica e culturale, esattamente o confusamente o in quale miscela, si addensano le intenzioni, lo spirito, il rifiuto della resa al mondo così com’è, spinge a manifestare, cercare nuovi simboli universali, come la bandiera palestinese, riunirsi, inventare nuovi linguaggi, creare occupazioni di scuole e la miriade di azioni che costituiscono la nebulosa della ribellione? Allora, a che serve la memoria di Pintor? Se riuscissimo, noi veterani, a far leggere loro qualcuno degli editoriali di Luigi, a cominciare dall’ultimo, che apre un orizzonte oltre il comunismo novecentesco, penso che avremmo compiuto il nostro dovere. Quando cominciammo a muoverci, alla fine dei Sessanta, nutrivamo quasi un culto della Resistenza e il 25 aprile divenne davvero, venticinque anni dopo la fine della guerra, un rito civile, un modo di dirsi che se l’hanno fatto loro lo possiamo fare anche noi. Una mattina mi son svegliato. La copertina è di Livio Senigalliesi/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Luigi Pintor: discontinuità della memoria generazionale proviene da DINAMOpress.
Luigi Pintor: il 5 dicembre l’evento per celebrare i cento anni dalla sua nascita
Un incontro con testimoni, amiche e amici, compagne e compagni e rappresentanti del mondo politico per ricordarne la figura e soprattutto l’attualità. Questo è l’obiettivo dell’iniziativa “Piazza Pintor”, l’appuntamento dedicato alla vita di Luigi Pintor che si terrà venerdì 5 dicembre alle 16.30 presso La Nuvola di Fuksas all’Eur (Roma), all’interno dell’Area Biblioteche della Fiera della piccola e media editoria “Più libri, più liberi”. Luigi Pintor è stato uno dei rappresentanti più significativi del Novecento per aver preso parte alla Resistenza, dato vita ad un quotidiano unico nel panorama dell’editoria, indipendente dai partiti e dai poteri economici e rappresentato una voce fuori dal coro della politica. Ma anche per aver scritto alcuni mirabili romanzi, “Parole al vento”, “Servabo”, “La Signora Kirchgessner”, “Il Nespolo”, di recente raccolti in un unico volume da Bollati Boringhieri. Quella del 5 dicembre sarà la terza delle iniziative promosse dal Collettivo Pintor. La prima, il 20 settembre scorso, si è svolta a Cagliari, grazie al sostegno della Fondazione di Sardegna, Agorà di Legacoop e il manifesto, Con la presenza, tra gli altri, di Luciana Castellina (cofondatrice del manifesto), che sarà presente anche a Roma. La seconda è stato un corso di formazione per giornalisti professionisti fortemente voluto dal Presidente dell’Ordine dei giornalisti di Roma e del Lazio, Guido D’Ubaldo, con la partecipazione, tra gli altri, di Paolo Serventi Longhi, già segretario nazionale della Federazione della Stampa. L’iniziativa, promossa dal Collettivo Pintor e realizzata da DinamoPress, è resa possibile grazie al contributo dell’Assessorato alla cultura di Roma Capitale, di Zètema e dell’ospitalità dell’Istituzione Biblioteche di Roma. LEGGI IL COMUNICATO STAMPA E PARTECIPA ALL’EVENTO FACEBOOK La copertina è a cura di DinamoPress SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Luigi Pintor: il 5 dicembre l’evento per celebrare i cento anni dalla sua nascita proviene da DINAMOpress.
Le invenzioni di Pintor
Un giornale è un giornale è un giornale è un giornale diceva Luigi Pintor parafrasando Gertrude Stein. Torneremo sulle ragioni di questa frase molto cara al fondatore del “manifesto”. Ora vorrei tentare di “leggere” quella forma atipica, forse eretica (secondo una diffusa convinzione) di giornale che fin dalla sua nascita ha dichiarato la propria carta di identità con la testatina “quotidiano comunista” con alcuni brevi esempi, a cominciare dai titoli. > Io non c’ero quando il manifesto quotidiano è nato, era il 28 aprile 1971. > Sono arrivata sette anni dopo, alla fine del 1978 passando per altre impervie > strade della comunicazione e in particolare per Radio città futura. Dico “impervia” non perché non sia stata una esperienza importante ma perché è stata, anche quella, una strada accidentata e perfino pericolosa, come forse ricorderà qualcuno, a causa dell’assalto di un gruppuscolo dei Nar con molotov e pistole alla nostra sede di San Lorenzo. Ma questa è un’altra storia. Dal 1978 e per un lungo periodo il mio contributo al manifesto è stato quello di lavorare agli allegati: “Antigone”, innanzitutto, la rivista voluta da Rossana Rossanda dopo il 7 aprile e il teorema Calogero, che aveva bollato come terrorismo tutto ciò che si muoveva alla sinistra del Pci. E poi “Nautilus”, in collaborazione con Psichiatria Democratica, e ancora “Fuori Luogo”, con la rimpianta Grazia Zuffa e Franco Corleone sulle dipendenze. Non è finita, il “manifesto” ha anche dato vita a una rivista mensile e a un settimanale, “Extra”, sempre alla ricerca di luoghi della discussione e dell’approfondimento che un quotidiano, perdipiù esile (in molti sensi) non avrebbe potuto proporre. Insomma, di allegato in allegato, arriviamo al 1994 quando il giornale decide di darsi una nuova veste grafica passando da giornale “lenzuolo” (o broadsheet come dicono quelli che ci capiscono) a tabloid. Quella profonda trasformazione non solo grafica non venne accolta inizialmente con favore dall’intero collettivo: il tabloid, sostenevano alcuni, avrebbe perso l’eleganza, la raffinatezza che gli aveva impresso uno dei più prestigiosi grafici del tempo, Giuseppe Trevisani che lo aveva disegnato nel ‘71. Il tabloid, di un altro grande grafico italiano, Piergiorgio Maoloni, evocava, dicevano alcuni, i quotidiani popolari e scandalistici inglesi tutti forma urlata e niente contenuto. Mentre il “manifesto”, fino ad allora, aveva prediletto, anche nella titolazione, uno stile discorsivo, un racconto pacato, un sommarione. Soprattutto il titolo di apertura diceva, in due, tre, perfino quattro righe, di cosa quel giorno il quotidiano aveva scritto, quali le priorità. > Il giornale lenzuolo si componeva all’inizio di sole quattro pagine ma quelle > quattro pagine mostravano che il panorama delle notizie non è “dato” una volta > per tutte e che si tratta sempre di scelte che corrispondono a criteri e > convinzioni ben definiti. Chi ancora crede che i giornali si limitino a riferire i fatti? Il manifesto ribaltava le sacre gerarchie dell’informazione “ufficiale” (o mainstream come dicono quelli che ci capiscono) e sceglieva di stare dalla parte di quelli che sui giornali di solito ci finivano solo se commettevano qualche reato. Una formula, quella del “manifesto” delle origini, ripresa dal “Foglio”, quotidiano fondato da Giuliano Ferrara nel ’96, anche se il direttore non lo ha mai ammesso. Del resto, la “Settimana enigmistica” lo scrive come elemento di successo di vantare innumerevoli tentativi di imitazione. Ma bisognava essere sufficientemente sicuri di sé per fare in modo che uno con la carta di identità di Ferrara potesse riconoscere questa ovvietà e evidentemente lui non lo è stato. Per tornare al 1994, il “manifesto” diventa tabloid. Il che significa banalmente che non si poteva continuare a fare i titoli/sommarione perché avrebbero riempito l’intera pagina. Occorreva inventare una forma più stringata ma non meno densa per reggere quella che definimmo “la copertina”: poche parole, più che altro suggestioni ma sempre dall’altra parte, quella “del torto”. Nasce così quella forma spregiudicata, ironica senza mai essere sprezzante, di titolazione basata sul “détournement”, cioè sul deviare o cambiare di senso per sovvertire il significato originale. Il “manifesto” diventa a volte “situazionista” alla maniera di Guy Debord, sferzante, allusivo. Altre volte sembra quasi richiamare Emile Zola e il suo J’accuse. Niente di nuovo, dunque? Il situazionismo è della metà degli anni ’50, Zola e la sua difesa di Dreyfus addirittura del 1898. > Invece, nel panorama dell’editoria il “manifesto” crea una discontinuità > mettendo assieme l’Uomo morde cane di Umberto Eco con la denuncia verso i > poteri, ma sempre con stile. Due esempi, quello politico è del 23 novembre 1994 a pagina intera c’è una grande targa stradale in marmo, come quelle di Roma e di tante città. La scritta è: “Via S. Berlusconi. E sotto: Presidente del consiglio 1994-1994”. La copertina si riferisce alle inchieste di Milano e Roma sull’allora presidente del consiglio. E poi le due indelebili nella memoria di molte e molti: 25 aprile 1994: una manifestazione indetta il 7 aprile da una prima pagina interamente scritta da Pintor. È il Si potrebbe che portò a Milano centinaia di migliaia di persone. Altrettanto dirompente la copertina per il giorno della Liberazione, il 25 aprile: una doppia copertina a “incartare” letteralmente la giornata. Il titolo: Che Liberazione. Chi altri avrebbe potuto fare una simile sgrammaticatura? E perché due copertine? Ecco, nella risposta a queste domande sta un po’ il cuore di quel vascello corsaro in grado di fare sortite nei territori nemici restando sempre sul pelo dell’onda, qualche volta cavalcandola, qualche volta rischiando di essere sommerso. Eppure, quella aporia chiamata “manifesto” la cui possibilità di soluzione era di per sé impossibile poiché nasceva dalla contraddizione, ha lasciato qualche traccia indelebile. Per esempio, c’era sempre qualcuno che ti chiedeva, elogiando i titoli: chi è che li fa? Senza capire che per sua natura e per scelta si trattava di un “fatto” collettivo, la cui paternità e maternità risiedeva nell’insieme delle persone che ci lavoravano e che in fine di giornata si riunivano (e chiunque poteva dire la sua) e cominciavano a tirar fuori parole in libertà e attraverso approssimazioni successive (brainstorming come dicono quelli che ci capiscono) si arrivava a comporre la musica. Oggi quella forma la si trova molto di frequente su molti media, segno che l’irriverenza, l’ironia senza sarcasmo, ha “bucato”. Peccato però che se non è accompagnata da una intenzionalità forte resta solo un gioco di parole. Intenzionalità come la intendeva Husserl ovvero «l’attitudine costitutiva del pensiero ad avere sempre un contenuto, a essere essenzialmente rivolto a un oggetto, senza il quale il pensiero stesso non sussisterebbe». > Oltre alla titolazione, Luigi Pintor è stato in grado di introdurre, nel > lessico giornalistico, alcune suggestioni linguistiche che hanno fatto scuola. A cominciare da quella mutuata dalla poetessa Gertrude Stein su «un giornale è un giornale è un giornale è un giornale» come «una rosa è una rosa, è una rosa è una rosa». Una tautologia ma al tempo stesso un indirizzo volto, tra l’altro, a dire che ogni regola, per essere violata, ha bisogno di essere confermata. E anche, come scriveva Umberto Eco, una voluta ridondanza per generare tensione e con essa catturare l’attenzione. Pintor ne scriveva in una carteggio tra lui e Rossana, quando si trattava di definire cosa sarebbe stato il quotidiano a cui volevano dare vita, a proposito della necessità o meno di un direttore. Un po’ come il direttore d’orchestra di cui parla Karl Marx nel Capitale, in cui a prevalere non è il concetto di proprietà (il direttore d’orchestra non è il proprietario degli strumenti ovvero dei mezzi di produzione) ma colui che coordina e dirige verso un obiettivo comune, la creazione di un prodotto finale. Forse non tutte e tutti sanno che Pintor amava la musica ed era un bravissimo pianista per questo la metafora del direttore d’orchestra non è casuale. > Una seconda frase “topos” riguarda la natura di un quotidiano: «Che a > mezzogiorno – diceva Pintor – è buono solo per incartare il pesce». E aggiungeva «ogni numero dura poche ore, scivola come acqua fresca, non lascia tracce, e quindi deve proporsi al massimo di esercitare una “suggestione”». Cadono le liturgie attorno a una professione che, nel bene e nel male, è stata oggetto di centinaia di film e di romanzi e che nell’immaginario collettivo ha un alto valore simbolico. Non che nella realtà non ci siano e non ci siano stati giornalisti e giornaliste che hanno saputo comunicare al di là dell’effimero, del contingente. Ma è la forma giornale che Pintor voleva relativizzare senza però sminuirla. E questo ha cercato di essere il “manifesto”, una suggestione, una comunicazione orizzontale e al tempo stesso uno scandalo voluto non per stupire con gli effetti speciali ma per dare concretezza alle idee che, senza infingimenti, dichiarava: essere, insomma, dalla parte del torto, come recitava una fortunata campagna pubblicitaria ideata con il contributo fondamentale dell’agenzia Fca di Sandro Baldoni. La campagna ebbe un certo successo come l’ebbe la più delicata ma altrettanto situazionista “La rivoluzione non russa” con l’immagine di un paffuto neonato. C’è un terza metafora cara a Pintor, quella del calabrone. Secondo le leggi della fisica, diceva Pintor, il calabrone con il suo grosso corpo e le ali piccole e corte non dovrebbe poter volare eppure vola. Lo diceva innanzitutto per sottolineare l’anomalia “manifesto” ma anche per dire della determinazione che può rendere possibile ciò che è ritenuto impossibile. In realtà gli studi della fisica hanno dimostrato che i calabroni possono tranquillamente volare perché il battito delle ali molto veloce e il particolare movimento creano la spinta necessaria. Tutto questo oggi può apparire fuori tempo massimo, giornali nati da una spinta così determinata non ne esistono forse più e i calabroni pare siano in via di estinzione, così come le rose di Gertrude Stein sono appassite ed è ormai proibito incartare il pesce con il giornale. Eppure, le ragioni per continuare a credere che l’informazione possa ancora oggi nutrirsi di libertà e autodeterminazione sono ancora più necessarie che in passato. E forse ancora più che in passato, ci sarebbe bisogno di titoli come quello del primo numero della rivista del “manifesto”, era il 1969, Praga è sola che costò la radiazione dal Pci a Pintor, Rossanda, Magri, Castellina. Ma oggi la Palestina è sola. In copertina il murales che ritrae Luigi Pintor a Orgosolo, dove è nato SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le invenzioni di Pintor proviene da DINAMOpress.
Luigi Pintor, cento anni in un giorno
Ha senso chiamare a parlare, in un giorno di fine settembre, chi ha conosciuto Luigi Pintor, e anche chi non lo ha conosciuto, in occasione dei cento anni dalla sua nascita?  È lecito chiederselo e perciò vale la pena trovare risposte adeguate all’uomo Luigi Pintor e al secolo che ha attraversato, a volte in buona compagnia, a volte meno, e in piccola parte vissuti assieme, al “manifesto”, il “quotidiano comunista”. Cercare qualche risposta è lo scopo principale dell’incontro che si terrà a Cagliari il 20 settembre prossimo, dal titolo “Piazza Pintor”, organizzato dal Collettivo Pintor, in collaborazione con Il Manifesto e grazie al sostegno della Fondazione Sardegna e alla cooperativa Agorà Legacoop.  Come fosse la targa di una via cittadina, nella locandina c’è la data di nascita, 1925, e quella della sua imprevista scomparsa, il 2003. Ma c’è anche una riga che spiega, per chi non lo sa, chi era Luigi Pintor: «Giornalista, scrittore, comunista, sardo». La targa è anche un auspicio: che al «più grande giornalista italiano», come lo aveva definito Enrico Berlinguer, la città che lo ha visto nascere dedichi una strada, un luogo, una memoria indelebile. Così come hanno fatto a Orgosolo i cittadini che lo hanno immortalato nel murale che compare sulla locandina che chiama, chi lo ha conosciuto e chi no, a un incontro costruito sui ricordi ma anche su una visionaria idea di futuro. Così come è stata la biografia di Pintor. È stato giornalista nel senso migliore di questa accezione, ormai caduta in prescrizione, perché ha saputo costruire dal nulla, assieme a un piccolo gruppo di suoi pari, un oggetto scandaloso e perciò straordinario: un giornale fuori dai partiti e dai potentati economici, frutto della sapienza e della irriverenza verso ogni dottrina. Un’eresia, senza però la pretesa di dar vita a una nuova religione. Da quel 1971 (e dalla radiazione dal Pci), per trent’anni ogni mattina Luigi, Rossana, Valentino e un pugno di giovani per la maggior parte senza bussola, hanno potuto navigare in direzione ostinata e contraria a volte arrancando ma sempre imponendo un punto di vista originale e dissacrante. Con quel «pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà» di cui Pintor è stato uno dei più degni interpreti. Ed è stato scrittore di libriccini piccoli ma densi e sapienti e commoventi e laceranti che hanno sbaragliato la metrica e l’ortografia regalando quattro petali di un fiore desinato a non appassire mai. Chi li ha letti li ha anche letti di nuovo e forse continuerà a farlo fino a che quella sua intima storia raccontata con pudore, quasi con timidezza, non tracimerà restituendoci l’immagine migliore e più disperata di un paese assediato. È la storia di un mondo che non c’è più del quale Pintor è stato testimone distaccato e al tempo stesso protagonista. Ed è la sarditudine indelebile con il suo accento che non ha mai perso le vocali e il suo stupore condito con oassione e orgoglio per questo mare troppo azzurro per essere vero e queste erbe troppo verdi per essere nate su terreni aridi. Ed ecco, infine, perché è stato comunista sempre, con o senza il Partito. Comunista nello sguardo sulle persone, sugli eventi che hanno segnato il Novecento, sui processi, sulle sconfitte. Sulla volontà di ricominciare senza perdere un briciolo della capacità di interpretare il presente per immaginare il futuro. Perfino nel suo ultimo editoriale, Senza confini, riesce a non farsi travolgere dalle devastazioni culturali e politiche pur capendone la carica dirompente. Io vorrei che  tutti lo leggessero (è stato scritto nel 2003, pochi mesi prima della morte). Anzi, forse, se fosse stato letto e capito allora, l’orrore del presente avrebbe potuto essere meno devastante. Qualche riga, e chi vuole può andare a leggerlo o a rileggerlo sul sito della Fondazione Pintor: «Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C’è un’umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all’altra parte. Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine. Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere un’opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione del mondo e dell’esistenza quotidiana. Non una bandiera e un’idealità ma una pratica di vita». L’immagine di copertina è tratta dal manifesto dell’iniziativa SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Luigi Pintor, cento anni in un giorno proviene da DINAMOpress.