Donald Trump e l’egemonia culturale a Gerusalemme
La figura di Donald Trump è il simbolo dell’espansionismo israeliano a
Gerusalemme, attraverso azioni culturali che rafforzano l’egemonia statunitense
nella vita quotidiana della città.
E’ il 26 febbraio 2025 quando sugli account del neoeletto presidente Donald
Trump appare un video generato dall’intelligenza artificiale ritraente una
versione distopica della Striscia di Gaza, con resort fronte mare in pieno stile
statunitense, bambini divertiti dai palloncini a forma di Trump e statue dorate
del presidente americano. Soprassedendo sul clamore che il video ha suscitato
nel dibattito pubblico internazionale -al contrario delle migliaia di video di
Gaza (reali!) che da mesi circolano sui social- vale la pena soffermarsi sul
ruolo giocato dal capo della Casa Bianca nelle mire espansionistiche di Israele
oltre i propri confini. A ben vedere, agli occhi della classe politica e della
società civile dello Stato ebraico – anche quella meno irredentista – Donald
Trump gode di una sorta di status di “garante delle occupazioni” fin dal suo
primo mandato, durante il quale gli sono state perfino intitolate delle colonie
nelle alture del Golan.
Oltre che nella Striscia di Gaza e nel sud-ovest della Siria, la figura di Trump
è entrata di diritto anche nello storico contenzioso fra l’Autorità Nazionale
Palestinese e Israele per il possesso di Gerusalemme, grazie ad azioni inedite
come lo spostamento dell’ambasciata americana nella città santa e la
designazione di Gerusalemme come capitale di Israele nel celebre “Peace for
prosperity plan” del 2020. Nonostante ciò, l’importanza del leader repubblicano
nel contesto di Gerusalemme non può essere ridotta alle sole azioni politiche e
diplomatiche, che sono simultaneamente causa ed effetto dell’egemonia culturale
che il tycoon statunitense impartisce sulla città.
Stuart Hall definisce tale egemonia come lo sfruttamento delle pratiche
culturali – film, sport, celebrazioni nazionali e musei – per costruire un
consenso spontaneo nell’elettorato. Alcuni casi di egemonia culturale nella
rappresentazione di Trump a Gerusalemme sono Piazza Donald Trump, la Stazione
Donald Trump, il Beitar Jerusalem e il Mikdash Educational Center, attraverso i
quali l’immagine del magnate newyorkese esce dai palazzi del potere e popola le
strade e la quotidianità di Gerusalemme.
Il primo caso è Piazza Donald Trump, creata il 3 luglio 2019nel quadrante
sud-est di Gerusalemme, vicino alla “nuova” ambasciata americana. In
quell’occasione, l’allora sindaco Nir Barkat rilasciò la seguente dichiarazione:
“Il presidente Trump ha deciso di riconoscere Gerusalemme come capitale del
popolo ebraico, di schierarsi dalla parte della verità e di fare la cosa
giusta”. Nonostante non sia mai stato ufficialmente adottato, il nome della
piazza viene informalmente utilizzato, richiamando l’analoga piazza di Tel Aviv.
Il secondo caso è la Stazione Donald Trump, un progetto della città di
Gerusalemme annunciato nel 2019 dal Ministro dei Trasporti Yisrael Katz come
ringraziamento per “aver riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele”.
La mitizzazione di Donald Trump però, non trova la propria raison d’etre
solamente in progetti istituzionali, ma anche la stessa società civile
israeliana dimostra da sempre una certa affezione per il presidente
statunitense. Il caso più eclatante è la squadra di calcio del Beitar
Gerusalemme, da sempre oggetto di controversie in tema di islamofobia (è l’unica
squadra israeliana a non aver mai ingaggiato calciatori arabi). Eli Tabib,
all’epoca proprietario del club, decise nel 2018 di cambiare il nome della
squadra da Beitar Gerusalemme a “Beitar Trump Gerusalemme” per “onorare il
presidente americano per il suo affetto e sostegno”, come dichiarato in un
comunicato diffuso sulle pagine social ufficiali della squadra. Ancora oggi è
facile imbattersi in articoli di merchandising online che accostano il nome di
Donald Trump e quello de “la familia”, storico gruppo di supporter
gerosolimitani vicini al sionismo revisionista e all’estrema destra israeliana.
L’ultimo caso è il Mikdash Educational Center, un’organizzazione educativa e
religiosa no-profit che nel 2018 ha coniato una moneta da collezione
raffigurante il volto di Donald Trump e quello del re Ciro II di Persia (detto
il Grande). Il paragone fra i due, già promosso da altre figure chiave
dell’espansionismo israeliano come Benjamin Netanyahu, richiama la costruzione
del Secondo Tempio di Gerusalemme, legittimando il controllo dello Stato ebraico
sulla città attraverso la connessione biblica con la sedicente terra d’Israele.
Da questi elementi appare dunque chiaro come le speculazioni geopolitiche non
possano esaurire il discorso sulle occupazioni israeliane. L’espansionismo di
Tel Aviv – iniziato all’indomani della Guerra dei sei giorni e mai
affievolitosi, nemmeno durante la stagione di Oslo – non è solo frutto delle
scelte politiche della Knesset, ma rappresenta anche un sentimento radicato nel
tessuto sociale israeliano ed espresso attraverso l’istruzione, lo sport e altre
manifestazioni culturali.
La presenza capillare della figura di Donald Trump nella quotidianità di
Gerusalemme rappresenta un esempio interessante, elevando la portata coloniale
delle politiche estere israeliane e statunitensi. Se l’intitolazione di piazze,
stazioni, squadre sportive e monete da collezione può sembrare parte del
progetto di Hasbara (diplomazia pubblica), promosso da Israele per presentarsi
al mondo come partner statunitense, appare chiaro come la società israeliana
stessa subisca il fascino di Washington in una sorta di “mimesi” bhabhiana,
ovvero il fenomeno per cui i colonizzati tendono a replicare le pratiche dei
colonizzatori.
Per dare un senso al non plus ultra della violenza raggiunto negli ultimi mesi a
Gaza e nei territori occupati della Cisgiordania (e Gerusalemme Est), bisogna
confrontarsi anche con la forza egemonica che Donald Trump esercita sulla
società israeliana: se è vero che nel video pubblicato dal presidente
repubblicano a “Trump Gaza” sono presenti gadget, statue e palloncini a forma di
Trump, vale la pena ricordare che a pochi chilometri da quel luogo martoriato
esiste già una “Trump Jerusalem” le cui piazze e squadre sportive portano il
nome del presidente degli Stati Uniti, quasi a riaffermare il fatto che
l’americanizzazione della Striscia di Gaza deve prima passare per
l’americanizzazione di Israele.
Redazione Italia