E fu così che decisero di rimanere sole! Da Anna Banti a Carrie Bradshaw
> Donna indipendente valeva a quei tempi come termine scientifico: nome di
> bacillo, di nuovo metallo, di nuova cometa, roba insomma aggressiva,
> pericolosa. Anche si legava a richiami esotici, nordici, sempre in linea
> generale e in astratto; perché venendo alla pratica e nei casi concreti, un
> apprezzamento sbrigativo bastava, in Italia, a illuminare il fenomeno. “Quella
> matta della Sofia” si usava dire, per esempio, e le parole erano accompagnate
> da un crollar di testa.[1]
Così in “Sofia o la donna indipendente”, un racconto del 1937/’38, Anna Banti
(1895-1985) mette in scena Sofia e due sue amiche che trascorrono l’estate del
1910 in una spiaggia della Versilia, guardate a vista dagli altri bagnanti e
forestieri e considerate matte per la loro pretesa di bastare a se stesse e
vivere in “mancanza di marito”.
Il racconto è inserito nella raccolta intitolata Il coraggio delle donne, uscito
nel 1940 (l’anno in cui l’Italia entra in guerra accanto alla Germania) e adesso
riedito da Mondadori con la curatela e la postfazione di Daniela Brogi. Altre
storie fanno parte della raccolta, storie che grazie alla mirabile e
sensibilissima scrittura di Banti, entrano nell’animo di chi legge per restarvi
a lungo. Come è per es. per “Vocazioni indistinte”, il cui arco narrativo segue
le vicende di una ragazza che non si riconosce nessun talento, è una virtuosa
pianista cioè padroneggia un’arte che forse la metterebbe in grado di condurre
una vita dignitosa e autonoma, ma non ne porta nessun vanto e ancora meno
consapevolezza. Il tratto di Banti, la sottigliezza e delicatezza con la quale
racconta le trasformazioni dell’animo della ragazza e la sua perpetua
insicurezza, e le contingenze familiari che la costringeranno a fare un
matrimonio che sarà la sua rovina, sono pagine che restano dentro e che
raccontano le difficoltà di una donna artista, musicista o scrittrice che sia.
Ma torniamo a Sofia che si muove su un versante opposto e non rischia un
matrimonio tragico. Qui la penna di Banti mantiene un tono vagamente ironico,
costeggiando senza cadervi l’amaro del contrasto tra quel temporaneo matriarcato
estivo e l’arretratezza e misoginia della società che lo circonda; e ha, oltre
alla piacevolezza di lettura, il merito di richiamare l’attenzione su una
questione che non ha ancora finito di sprigionare il suo veleno.
Perché ancora siamo lì, a pensare che una donna senza un uomo non ha ragion
d’essere e se capita è perché deve esserle successo qualcosa.
Che le cose stiano in questo modo, che il patriarcato sia ancora qualcosa che
impregna di sé inconscio, immaginario e strutture sociali, malgrado il lavorio
di oltre un secolo e l’evoluzione degli spazi delle donne nel mondo
(occidentale) contemporaneo, lo dimostra l’ultima puntata della serie TV And
just like that che curiosamente, ma guarda un po’, va a insistere proprio su
quel tasto. Perché, come scrive Federica Fabbiani sull’ultimo numero di
Leggendaria:
> Nell’ultima stagione Carrie Bradshaw è una figura profondamente in crisi,
> spesso insoddisfatta, sbagliata, incapace di realizzare l’ideale che pure
> rappresenta. E’ una donna che si emancipa, sì, ma inciampando. Che racconta il
> sesso ma fatica a viverlo con libertà vera. In questa contraddizione
> permanente, Carrie diventa un testo culturale stratificato, un prisma
> attraverso cui osservare non solo le ambivalenze del femminismo mainstream e
> le derive del neoliberismo, ma anche la nostalgia, l’invecchiamento e la paura
> di restare fuori dal discorso dominante.[2]
Già perché il vero problema è l’irrilevanza sociale che colpisce chi ha superato
la stagione dell’ancillarità verso il maschio. Carrie va a pranzo in un
ristorante e per la prima volta, dopo le diverse stagioni della serie e della
precedente Sex and the City, che mettevano in scena tanti pranzi, tante
colazioni e aperitivi in buona compagnia, siede da sola guardando il menù. Non
aspetta nessuna e nessuno e questo basta per ritrovarsi davanti a un pupazzo
messole lì dalla cameriera intenzionata a consolarla del fatto di essere sola.
Scena iconica quella del pranzo con un commensale di stoffa, che dimostra che
ancora, ai nostri giorni, tutto è meglio della solitudine, anche un uomo
fasullo, un umo finto, di pezza. E che soprattutto senza un uomo devi per forza
sentirti una fallita.
Ora la zitellaggine è un tema di lungo corso raccontatoci da Valeria Palumbo in
“Piuttosto m’affogherei”(Enciclopedia delle donne); in quel testo Palumbo
esplicita il suo ragionamento sulle singles dall’antichità ai giorni nostri,
spinta da una duplice fascinazione:
Le zitelle, però, mi erano rimaste nel cuore. E non solo perché avevo deciso di
appartenere alla loro schiera (non sempre con la leggerezza e l’ironia in cui
avevo sperato, ma con tenacia). Ma anche perché, occupandomi, da storica e da
giornalista, del tema della libertà delle donne, mi ero accorta ben presto che
la libertà dall’obbligo di sposarsi era stata una delle grandi conquiste
dell’umanità. Non solo delle donne.[3]
Questione questa della libertà delle donne che era sentita anche dall’altra
parte dell’Atlantico, e ne testimonia una scrittrice come Louise Mary Alcott che
esalta, parlo di un articolo del 1868, il nubilato, affermando come la libertà
fosse, per molte donne, un marito migliore. Ma siamo negli Stati Uniti e
comunque, nei decenni a venire, si susseguiranno le scrittrici che
rappresenteranno i guasti di una vita matrimoniale scelta a dispetto delle
proprie inclinazioni.
Fino a arrivare al racconto di Anna Banti che mette in scena la novità dei primi
anni del XX secolo, gli anni del governo Giolitti, che virando a sinistra
guardava ai socialisti per un appoggio esterno e che per questo riformava il
lavoro di donne e bambini introducendo nuovi limiti di orario (max 12 ore) e di
età (non al di sotto dei 12 anni). In quegli anni di apertura a nuove libertà e
stili di vita, la novità sottolineata dal racconto di Banti si chiama “la donna
indipendente”, una figura che spesso ricopre il ruolo di maestra elementare (che
ricordiamo è stato un volano fondamentale per l’emancipazione) e che costituisce
una sorta di anello di congiunzione tra il ruolo sottomesso delle donne lungo
tutto l’arco dell’ottocento e il risveglio dei primi due decenni del Novecento,
un periodo di innovazioni sociali e culturali anche per le donne. Progressi che
saranno poi soffocati dall’avvento del fascismo che auspicherà il rientro delle
donne nel focolare domestico attraverso il dimezzamento dei loro salari, il
divieto di ingresso nei pubblici uffici e l’istituzione nel 1927 dell’imposta
sul celibato; e spingerà sul pedale dell’incremento demografico per cui le donne
saranno chiamate a fare molti figli per dare soldati alla patria.
La figura della donna indipendente riemergerà in Italia soltanto alla fine della
II guerra mondiale, e ne testimonia per esempio il romanzo “Prima e dopo” che
Alba de Cespedes pubblica nel 1955. In quelle pagine de Cespedes rivolge lo
sguardo soprattutto alle dinamiche interne dell’animo di Irene, la protagonista,
una giovane donna che nel dopoguerra rifiuta l’agiatezza borghese e un destino
che non lascia spazio alla autorealizzazione, preferendo inseguire invece il
sogno di una vita indipendente.
Nadia Terranova nella prefazione al romanzo ben descrive la situazione di Irene
e i costi emotivi che questa comporta:
> la sua condizione reale è la solitudine, quella che paghiamo quando scegliamo
> di stare al mondo nel modo che più ci somiglia e meno somiglia alle
> aspettative altrui. La paghiamo tutti, ma soprattutto tutte: alle donne è
> sempre toccato il prezzo più alto, e Alba de Cespedes l’ha sempre raccontato,
> altrove come traguardo, qui come punto di partenza.[4]
Come nota giustamente Daniela Brogi, Sofia, Amina, Felicina, Ofelia, Giulia,
ossia le personagge attorno alle quale Anna Banti costruisce i racconti de Il
coraggio delle donne, non sono “caratteri” e quei testi non sono “ritratti di
costume”. Sono spazi di resistenza, tanto più significativi dal momento che
Banti attraverso loro scrive una “storia culturale delle donne in quanto
categoria soggetta, in senso sistemico, a una “cattiveria sociale” che abita in
ogni dettaglio e in ogni momento della vita”[5].
Una storia culturale da cui, Carrie Bradshaw ce lo conferma, non siamo ancora
fuori e che ci riguarda direttamente.
[1] Anna Banti, Il coraggio delle donne, a cura di Daniela Brogi, Mondadori,
2025, p. 69.
[2] Federica Fabbiani, “Essere, oggi, Carrie Bradshaw”, in Leggendaria,
Fantastiche. La violenza trasfigurata, n. 173, agosto-settembre 2025, pp. 55-56.
[3] Valeria Palumbo, Piuttosto m’affogherei, Enciclopedia delle donne, 2018, pp.
342-343.
[4] Nadia Terranova, “Prefazione”, in Alba de Céspedes, Prima e dopo, Cliquot
edizioni, 2023.
[5] Daniela Brogi, “Una genealogia di donne coraggiose”, in Anna Banti, Il
coraggio delle donne, Mondadori 2025, p. 177-197.
L'articolo E fu così che decisero di rimanere sole! Da Anna Banti a Carrie
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