Un esordio sconfessato: Il vento dal nulla, di James G. Ballard
J.B. Ballard, Vento dal nulla, Urania 621 Mondadori 1973
Se fossimo pignoli, questa puntata della rubrica dovrebbe trattare altri scritti
di quello che gli appassionati chiamano Shanghai Jim (dalla città ove nacque nel
1930), o il Visionario di Shepperton (dal sobborgo londinese nel quale
risiedette per la maggior parte della sua vita): parliamo ovviamente di James
Graham Ballard, che nelle edizioni inglesi e americane della sua narrativa
appare regolarmente come J.G. Ballard (da quelle parti gli scrittori hanno il
sacrosanto diritto di scegliere quali dei loro nomi far apparire e quali no, e
quali tenere solo come iniziali). Se fossimo pignoli, dicevo, in questo pezzo
dovrei parlare di “Tredici verso Centauro”, oppure di “Prima Belladonna”, perché
questi due racconti uscirono nel 1956 su due diverse riviste pulp britanniche,
New Worlds Science Fiction e Science Fantasy, entrambe dirette da John Carnell
(che passa alla storia come lo scopritore dello scrittore che in seguito avrebbe
rivoluzionato la fantascienza britannica, e non solo quella). Tra i due
racconti, però, sarebbe un po’ difficile dire quale sia l’opera prima, in quanto
uscirono entrambi nel numero di dicembre delle due riviste; mi toglierò pertanto
d’imbarazzo dedicandomi al primo romanzo pubblicato da Ballard, Il vento dal
nulla, che esce prima in due puntate su New Worlds Science Fiction, nel 1961, e
poi in paperback per i tipi di Berkley Medallion nel 1962.
A tutti gli effetti la carriera di Ballard come scrittore professionista inizia
con la pubblicazione del suo primo romanzo. Quando escono i suoi primi racconti,
si guadagna da vivere come redattore di una rivista scientifica, Chemistry and
Industry, un lavoro che aveva rimediato (dopo aver provato svariati mestieri)
con l’aiuto del padre, di professione per l’appunto chimico. La letteratura,
fino al 1962, è più un hobby che un mestiere, nonostante Carnell ammirasse il
talento del giovane scrittore e fosse ben disposto a pubblicare tutto quel che
gli sottoponeva.
James è ben consapevole che, se continua a scrivere solo racconti, non riuscirà
mai a mantenere moglie e tre figli, e dovrà continuare a dedicare la maggior
parte del suo tempo agli articoli dei chimici; si lancia così, in un paio di
settimane di ferie, nella frenetica scrittura di un romanzo di fantascienza, per
l’appunto Il vento dal nulla, che gli consentirà di mollare Chemistry and
Industry e dedicarsi alla letteratura full time.
Successivamente, Ballard fu tutt’altro che orgoglioso della sua opera prima.
Affermò ripetutamente che l’aveva scritta solamente per fare il salto dal
dilettantismo al professionismo, e praticamente lo ripudiò, tanto che l’ultima
edizione di lingua inglese risale al lontano 1976. Gli è andata poco meglio da
noi: l’ultima volta che è stato ristampato fu in un omnibus, il Millemondiestate
di Urania del 1981. A tutti gli effetti si tratta di un romanzo rimosso,
sconfessato, che ormai è di non facilissima reperibilità – un pezzo da
collezionisti. Ma cos’ha di tanto terribile?
Basterebbe un confronto con il romanzo successivo, Il mondo sommerso (anche
questo uscito nel 1962, noto in Italia anche come Deserto d’acqua), per capire
dov’è il problema. Entrambe le storie sono incentrate su un disastro su scala
planetaria; nell’opera prima, un vento che comincia a soffiare e aumenta di
intensità di otto chilometri orari ogni ventiquattr’ore, raggiungendo al culmine
della sua furia oltre settecento chilometri orari e spianando inesorabilmente
tutte le opere dell’uomo, oltre a spazzare via il terreno coltivabile e interi
laghi e mari; nell’opera seconda, un aumento delle temperature su scala globale
che porta allo scioglimento dei ghiacci polari e trasforma Londra in una palude
tropicale. Non ci vuole molto a capire che Il mondo sommerso può essere letto
oggi come una premonizione del riscaldamento climatico che ci affligge, anche se
all’epoca il fenomeno era ancora di là da venire. Ma a parte l’attualità del
secondo romanzo, il problema è che nel primo Ballard ha intrecciato l’elemento
fantascientifico (il vento apocalittico) con una trama d’azione che – a
rileggere oggi – pare presa di peso da un film di James Bond, con tanto di un
supervillain, Hardoon, che sembra una versione alternativa di Goldfinger.
Nell’opera seconda, invece, i riferimenti sono più elevati, tra Jung e T.S.
Eliot, e la pittura surrealista.
Il vento dal nulla segue le peripezie di due personaggi, l’inglese Maitland,
medico, e l’americano Lanyon, comandante di un sottomarino dell’US Navy; ai due
ne succedono di tutti i colori (nel caso di Lanyon anche l’incontro con un
gruppo di malavitosi liguri di buon cuore), scampando alla catastrofe per
ritrovarsi entrambi nella piramide di cemento armato che Hardoon, un miliardario
decisamente megalomane, si è fatto costruire per diventare l’unico uomo che
sfida il vento sterminatore, mentre tutti gli altri si nascondono terrorizzati
sotto terra.
Ci sono sparatorie, scazzottate, pericoli sventati all’ultimo minuto: il tutto
piuttosto sforzato e non sempre connesso logicamente. Maitland e Lanyon
finiscono nella piramide di Hardoon piuttosto gratuitamente, e il disastro
finale, cioè il crollo della suddetta piramide, giunge più per gratificare i
lettori con la punizione del cattivo, che per una qualche consequenzialità (non
si capisce come mai uno ricco come Hardoon si sia messo in mano a ingegneri così
incompetenti: mica è italiano!). Inoltre, la frase che chiude il libro
annunciando che il vento sta cominciando finalmente a esaurirsi provvede un
lieto fine decisamente forzato.
I due protagonisti, come s’è detto, hanno qualcosa di James Bond, pur non
essendo agenti segreti: entrambi uomini d’azione tutti d’un pezzo, senza grande
spessore psicologico. Solo nel caso di Maitland si accenna a un matrimonio
fallito con una bella donna del jet set (che muore spazzata via dal vento, quasi
consegnandosi volontariamente ad esso); accenno a ben altre complessità
psicologiche e psicanalitiche che incontreremo nelle altre opere di Ballard.
Lanyon, invece, conquista la bella giornalista Patricia Olsen della NBC, nella
più pura tradizione fleminghiana (c’è persino un brutalone grande e grosso
dall’omicidio facile, Kroll, al servizio di Hardoon, che è equivalente al
personaggio di Oddjob in Goldfinger). Insomma, Ballard, che conosciamo come uno
dei più originali scrittori inglesi del secondo dopoguerra, qui ci serve una
serie di stereotipi che tradiscono la fretta con cui venne buttato giù questo
romanzo.
Però alla fine Ballard era già Ballard, e segni della sua maniera matura
spuntano qua e là anche in questo prodotto artigianale. Quando descrive le
stazioni della metropolitana londinese usate come rifugio, non si può non
pensare alla Seconda guerra mondiale terminata solo sedici anni prima, ma anche
a come gli inglesi internati a Shanghai dai giapponesi si ammucchiavano nel
campo di prigionia di Lunghua, che compare ne L’impero del sole, e poi ancora ne
La gentilezza delle donne. Elettrodomestici e macchinari accatastati dai
malavitosi liguri nel sotterraneo di un convento diroccato anticipano lo
sfolgorante spettacolo delle merci nell’Impero del sole, tutto quello (auto di
lusso, frigoriferi, ecc.) che i giapponesi hanno saccheggiato dalle dimore degli
occidentali e accatastato in uno stadio. E sarà un caso se uno dei banditi
brandisce una pistola Mauser, che era l’arma d’ordinanza delle guardie
nipponiche a Lunghua? Erano tracce di un passato traumatico che sarebbero
riemerse completamente solo negli anni Ottanta, ma quei contenuti latenti già
baluginavano nel mondo catastrofico immaginato da Shanghai Jim.
Inoltre, il fallimento del piano di Hardoon, il crollo della piramide, non è
solo un finale coi botti, ma anche l’occasione per dare sfogo al pessimismo
swiftiano di Ballard, che tornerà nei romanzi e nei racconti successivi, la sua
sfiducia in un’umanità mossa da pulsioni irrazionali e da smanie di onnipotenza
che si scontrano con le forze cosmiche dell’universo, a loro del tutto
indifferenti. C’è dietro la tradizione apocalittica inglese, che risale al
Diario dell’anno della peste di Defoe, passando per la fantascienza filosofica
di Herbert George Wells; c’è dietro anche Darwin, implicitamente citato in una
battuta di un personaggio secondario, che riflette su tutti quelli che non
sopravviveranno alla catastrofe: “Lo so che suona spregevole, ma l’adattabilità
è la sola vera forma di qualificazione biologica per la sopravvivenza. Al
momento è in corso una forma di selezione naturale piuttosto severa, e
francamente io voglio essere selezionato”. L’eroismo tardoromantico (e piuttosto
frusto) di Hardoon non ha futuro; davanti a una trasformazione planetaria
bisogna adattarsi – e questa è la morale di Il mondo sommerso, dove il
protagonista alla fine in qualche modo accetta la regressione temporale che
riporta la Terra al triassico, anche se questo ovviamente comporta la sua morte.
E già in questo romanzo scritto a tirar via, ma da un praticante non privo di
talento, emerge il gusto di Ballard per il paesaggio urbano (ma anche naturale).
Sappiamo bene come lo scrittore fosse un grande appassionato di arte
contemporanea, estimatore dei surrealisti e di De Chirico, amico dell’artista
pop inglese Paolozzi, frequentatore di gallerie d’arte e mostre; quando fece i
soldi con i diritti dell’adattamento de L’impero del sole, diretto da Spielberg,
Ballard ne investì una parte per farsi fare una copia di una tela perduta di
Delvaux, che poi mise in bella mostra sul caminetto del salotto. E le
descrizioni della Londra obliterata dal vento apocalittico fanno presagire le
visioni surreali della metropoli sommersa nel romanzo successivo, o la foresta
pluviale cristallizzata in Foresta di cristallo. Pochi romanzieri nel secondo
novecento hanno la forza visuale di Ballard, che ha costruito alcuni dei suoi
racconti come trascrizioni transmediali di tele di Ernst, Magritte o Dalì; in
quest’opera prima non del tutto riuscita c’è già la potenza dell’immagine, anche
se l’autore deve ancora imparare a imbrigliarla.
E poi, a rileggere Il vento dal nulla c’è una strana sensazione di retrofuturo:
Maitland per andare in America deve imbarcarsi su un Boeing 707, l’acme delle
telecomunicazioni è la televisione, Tokyo viene descritta come una città di
carta e bambù (infatti viene spazzata via ben prima di Londra o New York), e
quanto alla Grande Mela il momento topico è quando arriva la notizia che è
venuto giù l’Empire State Building. Si tocca con mano come l’anticipazione
consentita alle scritture fantascientifiche sia sempre limitata, in un certo
senso è una visione in uno specchio oscuro, per enigmi. Però trovi una cosa che,
quando lo lessi per la prima volta, mi pareva un po’ tirata per i capelli: il
miliardario folle che si fa costruire la piramide come Cheope (puntualmente
citato nel romanzo). Oggi quella mi sembra una profezia quasi soprannaturale. Il
rifugio del tycoon viene inizialmente chiamato Hardoon Tower; come non pensare
alla Trump Tower di là da venire? E l’idea che uno straricco si faccia costruire
un monumento da faraoni non mi pare tanto lontana dai razzoni di Elon Musk e
dalla proliferazione di torri e torrioni hi-tech (pensate allo Shard di Londra)
che abbiamo visto dall’esplodere del turbocapitalismo in poi. Ma si sa: l’occhio
sociologico di Ballard vedeva lontano. Non dimentichiamo che nel suo ultimo
romanzo, Regno a venire, c’è tutta la psicosi sovranista e regressiva che in
Inghilterra ha portato alla Brexit (e prossimamente, chissà, al governo di
Farage, personaggio assolutamente ballardiano dell’ultima maniera), e da noi
all’attuale governo.
Insomma, anche in questo romanzo scritto in fretta, in questo James Bond alle
prese con l’apocalisse, in quest’opera d’apprendistato, ci vedi i semi della
futura grandezza del Visionario di Shepperton. Che, ahinoi, ci manca tanto, in
quest’epoca di pazzi dove abbondano gli idioti dell’orrore…
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