Tag - Opera prima

Storie di poveri ebrei: Chiamalo sonno, di Henry Roth (NON Philip!)
1. C’è un cognome diffuso tra Germania e Inghilterra che pare avere un certo legame con la scrittura. Se uno dice Roth, infatti, viene subito in mente Philip, e a ruota anche Joseph. Ma ci sarebbe da citare anche il poeta tedesco Eugen Roth, la drammaturga Friederike Roth, lo sceneggiatore televisivo Martin Roth e quello cinematografico Eric Roth. Ultimo, ma non in ordine di importanza, lo scrittore del quale ci occuperemo questa volta, Henry Roth. Un autore il cui esordio fu particolarmente deludente, per quanto – se non altro – gli venne risparmiata la riscoperta postuma; quando finalmente il pubblico si accorse di lui era ancora in vita, anche se prossimo ai sessant’anni. 2. Come altri scrittori ebrei americani, Henry Roth nacque nel vecchio mondo, più precisamente a Tysemenitz, nel 1906. Non so se la cittadina fosse ridente; doveva essere di sicuro più tranquilla di oggi, perché quando venne al mondo lo scrittore era nell’Impero Austro-Ungarico, mentre ora si trova in Ucraina. In ogni caso la famiglia Roth approdava a New York due anni dopo la nascita di Henry, come tante che lasciavano l’Europa Orientale vuoi per le persecuzioni che colpivano gli israeliti, vuoi per la miseria che li affliggeva. Nel prologo dell’opera prima di Roth, il romanzo Chiamalo sonno, la madre del protagonista, il piccolo David Schearl, dice al marito che è venuto a prenderla a Ellis Island “E questa è la terra dell’oro”. È un’immagine assai diffusa tra gli immigrati negli Stati Uniti tra Otto e Novecento; l’America era la montagna dell’oro per i cinesi, e aveva le strade d’oro per gli italiani (come attesta il titolo del bel romanzo di Evan Hunter, alias Salvatore Lombino). 3. Non so se i Roth trovarono veramente l’oro a New York, dove risiedettero, però una certa agiatezza sì, perché Henry poté frequentare l’università nei primi anni Venti, e dedicarsi alla carriera letteraria, anche grazie all’incontro con la poetessa e docente universitaria Eda Lou Walton (tipica rappresentante dell’intellettualità americana dell’epoca, iscritta al Partito Comunista e interessata alla cultura dei nativi). Roth andò a vivere con Eda nel Greenwich Village, e fu col suo sostegno che scrisse tra il 1930 e il 1934 la sua opera d’esordio, uscita per i tipi dell’editore Robert O. Ballou. Riviste letterarie prestigiose come Commentary e Partisan Review ne parlarono benissimo; venne lodato anche da Lewis Gannett, il critico letterario del New York Herald Tribune; le vendite furono però desolanti. Tale fu il flop che Roth venne colto dal blocco dello scrittore, nonostante avesse firmato un contratto con Doubleday per il suo secondo romanzo (che avrebbe dovuto essere curato nientemeno che da Maxwell Perkins, il mitico editor di Hemingway, Fitzgerald e Wolfe). Henry mollò il suo manoscritto, lasciò la Walton, e si mise con una pianista e compositrice, Muriel Parker. La coppia lasciò New York per trasferirsi a Boston, e questo trasloco segna l’abbandono della scena letteraria da parte dello scrittore; nonostante gli estimatori di Chiamalo sonno continuassero a chiedere che venisse ristampato, nessun editore li accontentò e su Henry Roth calò il sipario. 4. Qual era il problema della sua opera prima? Basta pensare alla data di pubblicazione: 1934, ben dentro la Grande Depressione. Franklin Delano Roosevelt è stato eletto solo da un anno, e il suo New Deal è ancora ai primi passi. Quanto potevano essere interessati i lettori americani alla storia di una famiglia ebraica che tira a campare in uno dei quartieri (allora) più poveri della Grande Mela, il Lower East Side, addirittura in quell’area sfigatissima di Manhattan nota come Alphabet City? Non avevano già abbastanza problemi? Non avevano già abbastanza miseria e insicurezza? Inoltre l’ambiente in cui si muovono i personaggi di Roth, il piccolo David Schearl, suo padre Albert, uomo violento, asociale ed esasperato, e la madre Genya, che vive quasi segregata in casa e non spiccica una parola d’inglese, comunicando con figlio e marito esclusivamente in yiddish, era assolutamente ebraico, e negli Stati Uniti degli anni Trenta di pregiudizi verso il popolo eletto non ne mancavano affatto – come anche verso gli italiani, i polacchi, e tutti gli altri immigrati che avevano affollato (secondo alcuni invaso) le grandi metropoli americane, trasformandone radicalmente la società. Questa pluralità che è anche plurivocalità è ben resa nel romanzo, ma sicuramente non era gradita da tutti i lettori. 5. A parte la questione etnica, Chiamalo sonno è a tutti gli effetti un romanzo modernista. Usa lo stream of consciousness joyciano, anche se con moderazione; riproduce fedelmente il parlato degli ebrei, degli italiani, degli irlandesi, il loro inglese scorretto, pronunciato malamente, infarcito di parole straniere; soprattutto è piuttosto esplicito in materia di sesso. Non sarà un caso se quasi all’inizio venga usata una parola yiddish che può indicare l’organo sessuale femminile (knish, capitolo 7) e alla fine appaia quella genuinamente inglese (cunt, capitolo 21). Per quanto David sia un bambino tutt’altro che smaliziato e ancora privo di pulsioni erotiche, le ragazzine e i ragazzini con cui ha a che fare, inclusa la cugina Esther e l’amico polacco Leo, sono già in piena tempesta ormonale e si dànno la caccia in maniera quasi animalesca. Inoltre si capisce ben presto che David non è figlio di quello che formalmente è suo padre, ma di un precedente amante di sua madre Genya, per di più non ebreo (addirittura un organista che suona in chiesa: anatema!). Tutte queste caratteristiche, proprio quelle che oggi ci fanno apprezzare il romanzo, all’epoca devono averne ostacolato la diffusione. 6. Insomma, Roth era arrivato troppo tardi per entrare nell’ondata modernista con Joyce, Hemingway e Fitzgerald, e troppo presto per la riscoperta e canonizzazione di quell’avanguardia, che sarebbe partita solamente negli anni Cinquanta e sarebbe dilagata negli anni Sessanta. Gli anni Trenta erano interessati a scritture accessibili e politicamente impegnate, come Furore di Steinbeck o Fontamara di Silone (che ai tempi fu un bestseller internazionale), o le prime opere di Orwell. Anche Hemingway aveva sterzato in quella direzione, con Per chi suona la campana. 7. A rileggerlo oggi il mondo di Chiamalo sonno è facile da visualizzare, nonostante tutto: è quella New York ebraica rievocata da Sergio Leone in C’era una volta in America. La differenza è che i ragazzini di Roth non diventano gangster come quelli nel film, né li vediamo crescere oltre una certa età; il romanzo si chiude quando David ha ancora otto anni. Nel complesso ci viene offerta la visione del mondo di un bambino che vive le micro-tragedie infantili come fossero la fine del mondo (e a un certo punto rischia di finire la sua esistenza sul serio); il protagonista sconta la sua ingenuità, le sue paure, ma anche gli errori di una madre iperprotettiva e troppo chiusa nello spazio domestico, e di un padre amareggiato e manesco che sospetta la moglie di non averlo sposato per amore, ma per risparmiare lo scandalo a sé e soprattutto a suo padre, uomo bigotto e ipocrita. A David manca anche la ribalda e scanzonata furbizia da strada dei suoi coetanei, che sanno navigare meglio di lui nello spazio metropolitano e caotico di New York (specialmente il polacco Leo, che si muove fulmineamente da una parte all’altra della città coi pattini, antesignano degli skateboarder a venire). Roth riesce perfettamente a filtrare il mondo degli adulti attraverso lo sguardo di un bambino, facendo così emergere gradualmente il passato di Albert e Genya, fino alla scena madre finale. 8. Il romanzo venne riscoperto negli Stati Uniti alla fine degli anni Cinquanta. La situazione era cambiata; gli ebrei si erano fatti strada nel giornalismo, negli affari, nel cinema, nella musica, nelle università, nella scienza, nella cultura; s’erano inseriti nel mainstream. In letteratura brillano le stelle di Saul Bellow, Bernard Malamud, Isaac Bashevis Singer e Norman Mailer; a breve arriveranno l’altro Roth e Joseph Heller. Un editor di una piccola casa editrice, Harold U. Ribalow, convinto che Chiamalo sonno fosse il grande romanzo (ebraico) americano perduto, decide di ripubblicarlo. Va a caccia di Henry Roth e lo ritrova in una fattoria nel Maine. Scopre che in tutti gli anni trascorsi lo scrittore ha fatto il boscaiolo, l’insegnante, ha lavorato in un ospedale psichiatrico, ha allevato anatre, ha dato lezioni di latino e matematica, ha messo insomma una pietra sopra la letteratura; comunque, Harold riesce a convincere Henry ad autorizzare la ristampa del romanzo, che riesce in rilegato nel 1960, e poi quattro anni dopo in economica, e a quel punto è il trionfo: un milione di copie vendute. Finalmente il romanzo sbarca in Italia, tradotto peraltro da Mario Materassi, specialista di letteratura ebraica statunitense, e amico di Roth – non a caso la sua versione, uscita per Lerici nel 1964, è ancora in circolazione per Garzanti. 9. All’inizio Henry non era affatto entusiasta dell’idea di far riuscire il Chiamalo sonno; però quando scopre di avere finalmente un suo pubblico, e anche numeroso, riesce pian piano a vincere il blocco psicologico che lo aveva azzittito, e inizia a lavorare a un’opera ben più ambiziosa, un romanzo fiume in quattro volumi intitolato Mercy of a Rude Stream, tradotto in Italia come Alla mercé di una brutale corrente. Il primo e il secondo volume uscirono nel 1994 e 1995, quando Roth era ancora in vita; gli altri due postumi, nel 1996 e 1998. La differenza tra l’opera prima e la ben più vasta opera finale viene spiegata così da Materassi: “Chiamalo sonno può essere letto come il veicolo attraverso il quale il giovane Roth, avendo appena rotto con la sua famiglia e la sua tradizione, usò alcuni frammenti della propria infanzia per puntellare le rovine di quella che già sentiva come un’identità dalla quale era sconnesso. Quarantacinque anni dopo, Roth s’imbarca in un altro tentativo di portare retrospettivamente ordine nella confusione della sua vita: Alla mercé di una corrente brutale, che lui ha a lungo chiamato un ‘continuum’, può esser letto come un monumentale sforzo finale da parte dell’autore anziano di fare i conti con le ricorrenti rotture e discontinuità che hanno segnato la sua vita”. In entrambi i casi è innegabile la forte componente autobiografica, il che ci induce a sospettare che il secondo romanzo incompiuto potesse ben essere una sorta di sequel di Chiamalo sonno. 10. Uno degli aspetti più interessanti di quest’ultimo, ma che è pressoché impossibile rendere in traduzione, è quella che ho chiamato plurivocalità; una pluralità di voci al limite del plurilinguismo. Roth aveva infatti un problema: i membri della famiglia Schearl parlano tra di loro in yiddish, ma i potenziali lettori del romanzo per lo più ignorano quella lingua. La soluzione adottata dall’autore è di tradurre i dialoghi in yiddish in un inglese corretto, a tratti letterario; mentre David e gli altri immigrati ebrei, quando si esprimono in inglese, lo fanno come s’è detto nel linguaggio da strada che usavano realmente nella vita quotidiana. Anche i personaggi di altra origine etnica (per esempio gli irlandesi) si esprimono nel loro inglese, con la loro pronuncia caratteristica, con le loro tipiche forme colloquiali. È una strategia che a ben vedere rientra in una tradizione tipicamente americana, lo sforzo, da Mark Twain in poi, di mettere sulla pagina la lingua del popolo, le particolari varietà dell’inglese parlate negli Stati Uniti (lo fa anche Faulkner quando deve far parlare i suoi personaggi di colore, e diventerà una pratica comune dei successivi scrittori che si fanno portavoce delle proprie etnie, dagli ispanici agli afroamericani). 11. In Chiamalo sonno non ci sono veri villain, in ultima analisi non lo è neanche Albert, il padre (assai probabilmente putativo) di David – man mano che emerge il suo passato, la storia di un uomo oppresso da un padre-padrone e tormentato dai dubbi sul proprio matrimonio, la sua figura si fa meno inumana; verso l’epilogo Albert riesce finalmente a manifestare una qualche forma di affettività nei confronti del figlio. Ma ci sono personaggi per i quali Roth manifesta ben poca simpatia: il padre pigro e bacchettone di Genya, che si fa servire e riverire dalle donne della famiglia, e soprattutto il rabbino Yidel, quello cui viene demandata l’istruzione religiosa di David, che per un ebreo è anche un corso di lingua. Il tema del plurilinguismo ritorna puntuale: seguiamo le lezioni di reb Yindel che insegna ai ragazzi di vita ebrei a leggere il testo sacro, riprodotto foneticamente da Roth in caratteri latini; ma al rabbino poco interessa far capire ai suoi alunni cosa David invece è rimasto come folgorato dal testo di Isaia 6: “io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava”. Roth mi sembra voler contrastare l’insegnamento meccanico e scolastico in senso deteriore impartito da Yindel all’entusiasmo ingenuo e fantasioso del bambino, nel quale, proprio per questo momento di illuminazione poetica, si scorgono i segni del futuro talento creativo – perché David è scopertamente un alter ego dello scrittore. L'articolo Storie di poveri ebrei: Chiamalo sonno, di Henry Roth (NON Philip!) proviene da Pulp Magazine.
Senza eredi: rileggere Aldo Busi
Era il 1984 quando Aldo Busi, pubblicando Seminario sulla gioventù per Adelphi, esordì con l’autorità già di un classico, autorità evidente già dall’incipit. > Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? > Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce > col tempo a un risolino di stupore, stupore di essercela tanto presa per così > poco, e anch’io ho creduto fatale quanto poi si è rivelato letale solo per la > noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere > ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente > lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in > passato. Busi è, semplicemente, il più grande scrittore italiano vivente, sia pure ormai inattivo. Busi è stato molto famoso, anche per i motivi sbagliati, fra gli anni Ottanta e il Duemila. Poi ha taciuto per un po’ e quando è tornato a pubblicare si può ammettere che non fosse più ai livelli del secolo scorso, oltre che ad aver, credo, perso il suo pubblico, un pubblico che del resto lui non considerava più all’altezza dell’impegno che ci metteva. Ora è molto vecchio, non ha più un editore e forse un giorno ci sarà un lungo romanzo postumo. Intanto, però, del periodo d’oro, ci restano una ventina buona di opere importanti e pure divertenti da leggere: romanzi picareschi on the road che possono passare per memoir e autofiction (il Seminario, Vita standard di un venditore provvisorio di collant…); romanzi-romanzi con personaggi, plot e tutto (La delfina bizantina, Suicidi dovuti, Vendita galline km 2…); reportage di viaggio (Altri abusi, Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) – La camicia di Hanta, …); e infine i cosiddetti manuali del saper vivere (del perfetto gentilomo, gentildonna, padre, madre, single…), carichi di sano buonsenso piccolo-borghese, pur essendo il più lontani possibile dalla borghesia italiana reale, anche quando descrive l’etichetta dell’aggancio nei vecchi cinema a luci rosse. Il fatto che sia i lettori più giovani che gli altrettanto giovani aspiranti scrittori non l’abbiano mai letto, e se va bene sappiano a malapena che esiste, dipende, secondo me, da due fattori. Il primo è la scelta, suicida in termini di immagine ma coerente con la sua idea di letteratura di diventare un personaggio televisivo praticamente a tempo pieno. Personalità decisamente flamboyant e polemica, Busi divenne una presenza fissa al Maurizio Costanzo Show e in seguito nei programmi di Maria De Filippi, specie Amici; arrivò al punto di partecipare all’Isola dei Famosi (eliminato quasi subito). L’altro è il tempismo storico. Busi viene immediatamente riconosciuto come uno scrittore importante dalla critica seria ma questo proprio quando quella stessa critica seria sta morendo. Cioè, arriva subito dopo quella “chiusura del Canone” che fa sì che gli scrittori contemporanei, anche i più popolari e/o stimati non possano sperare di essere considerati vera letteratura come i grandi del passato, quelli col busto di marmo al Pincio, celebrati dall’accademia, dal giornalismo culturale e dalla chiacchiera social. Busi è stato l’ultimo candidato possibile e quello che più di tutti avrebbe avuto bisogno di una critica autorevole ma flessibile (come è esistita fino agli anni Settanta inoltrati) ma, per colpa anche del suo presenzialismo spettacolare non ce l’ha fatta anche se avrebbe avuto e avrebbe ancora tutti i parametri per entrare nello stesso club di Moravia, Morante, Pasolini, Calvino, Pavese, Pirandello, Svevo etc. – e sarebbe stato pure più divertente. Torniamo al Seminario, generalmente considerato il suo romanzo migliore da chi poi non ne ha letto nessun’altro. Io personalmente preferisco i suoi romanzi più romanzeschi e ‘tradizionali’, sia pure di una tradizione che non è passata indenne dal Novecento, ma non c’è dubbio che il Seminario (continuamente riscritto in successive edizioni) sia un trionfo, scritto in un linguaggio di straordinaria ricchezza anche lessicale ma privo di qualsiasi oscurità, fatto di frasi lunghissime, gonfie di coordinate e subordinate che terminano sempre con una sorpresa concettuale alla fine. Le prime 50 pagine raccontano l’infanzia di Barbino Celo, un trasparente autoritratto, a Montichiari, vicino a Brescia, negli anni Cinquanta, un mondo ancora contadino e di una durezza inconcepibile, e dove i primi accenni di modernità e mutazione antropologica sembrano solo peggiorare le cose, un mondo oscuro di violenza e follia in cui ci si poteva chiedere “cos’era l’amore, quel suono che in dialetto non esisteva e che si poteva dire solo nella lingua dei signori e delle preghiere come O Gesù d’amore acceso?”, e dove anche la protezione della madre amata e pronta a qualsiasi sacrificio per il figlio si pagava con una quasi totale mancanza di affetto visibile, un tratto in comune di tante madri del tempo. Barbino si veste già da donna e scandalizza/diverte i paesani e intanto impara che a parte la madre non può contare su nessuno e che deve imparare da solo a negoziare la sua libertà in un mondo in cui contavano solo i rapporti di potere e quelli di impotenza. Busi è probabilmente l’ultimo scrittore italiano importante autenticamente proletario, nemmeno operaio ma proprio contadino, e se non ha mai provato il minimo interesse per la letteratura ‘working class’, anche solo per l’uso di un termine inglese inutile dove ce n’è uno italiano perfettamente comprensibile, le sue esperienze personali di autentica povertà, contadina prima e urbano-cosmopolita poi, gli concedono un repertorio di esperienze oggi rarissimo nelle arti, dove di solito la povertà, se c’è, è quella della ‘classe disagiata’ post-accademica. E dire che quando Busi si occupa del lavoro, soprattutto in Vita standard di un venditore provvisorio di collant, lo fa con una precisione e una ricchezza rare: Celestino Lometto è forse il miglior ritratto di imprenditore della letteratura italiana, al tempo stesso individuo, idealtipo e caricatura – se non c’è dubbio che il personaggio a cui Aldo Busi sia più attaccato è Aldo Busi altrettanto indubbio è che i suoi altri personaggi sono regolarmente a tutto tondo, anche quando sembrano, e lo sembrano spesso, dei Muppets umani. Inoltre, Busi è letteralmente ossessionato dai soldi (il suo ‘manuale del perfetto scrittore’, Nudo di madre, del 1997, non parla praticamente d’altro), e nei suoi romanzi sappiamo SEMPRE da dove vengono o non vengono i soldi dei personaggi, come in Balzac o Thackeray. Il resto del Seminario, tolto un capitolo dove un Barbino adolescente lavora in un bar elegante del centro di Milano e diventa, clamorosamente, accompagnatore del futuro Premio Nobel e Senatore a vita ‘Genio Scopale’, si svolge in una location curiosamente esotica, la Parigi del 1969-70. Qui Barbino cerca di studiare e soprattutto sopravvivere, nel senso letterale di mangiare tutti i giorni e dormire su un letto, e in quello più filosofico di conservare una sua identità e dignità personali, prima nelle grinfie di omosessuali alto-borghesi estremamente sgradevoli, come Comare Volpe e Vecchio Strabico, e poi di un trio di amiche ancor più alto-borghesi ma eleganti comme il faut, Arlette, Suzanne e Genevieve, che saranno, dopo vari set, pieces, litigi e rivelazioni la chiave all’obbiettivo finale, di cui il romanzo stesso è testimonianza: la realizzazione che > in me non esiste questa necessità di sentirmi vivo solo perché voglio > abbattere qualcuno: il mio desiderio di potere è molto più lungimirante: è > costruirmi una buona mira con esercizi massacranti e non dover mai sparare > neppure un colpo. Il potere di arrivare a questo massacro lo si deve pagare > col proprio sangue per renderlo credibile all’esterno, dove si vuole arrivare > a esercitare questo potere. Busi è uno scrittore politico e, per usare un termine molto calunniato, ‘impegnato’ ma in forma sempre rigorosamente individuale, lontana tanto dall’autocelebrazione meritocratica-familiare dei bravi borghesi quanto dal ‘socialismo’ degli aspiranti burocrati laureati – “verso i trent’anni, paventavo molto la presenza in me del mostriciattolo moralistico rinunciatario per mancanza di mezzi e orgoglioso per ipocrisia, velleitarismo, idealismi da frustrato”. Il punto, alla fine, è che “il pensiero è il luogo della politica, o demagogia, l’arte è il luogo dove questa idra viene distrutta. L’arte del romanzo, poi, se arte è, non conferma il Potere, lo elimina”. Ma il punto fondamentale, il motivo di quella che a me pare un’eclisse nella reputazione di Aldo Busi, non è solo perché, in un certo senso, Busi è un po’ TROPPO e le nostre capacità digestive si sono atrofizzate, secondo me è un altro. Mettiamola così: Aldo Busi è stato forse l’ultimo vero scrittore italiano a credere solo ed esclusivamente nella scrittura e nel romanzo in particolare, al punto di vantarsi del fatto che dai suoi libri non sia mai stato tratto un film, cioè che i suoi romanzi siano dichiaratamente anti-cinematografici: > la letteratura in me è sempre primaria, occupa il proscenio della mia vita e > non ha mai avuto bisogno della stampella del bel film (…) L’opera d’arte, di > scrittura, immette in una verità che è soltanto tua, sulla quale tu sei il > padrone unico, ed è questa la differenza. Busi è quasi sprezzante verso le altre arti. Per esempio la musica: > La Letteratura richiede come base lo spartito dell’intero mondo, la musica > solo la letteratura di se stessa; la Letteratura contribuisce all’evoluzione > reale (per quanto insignificante) del genere umano, la musica contribuisce > all’evoluzione di se stessa in chi se ne occupa, docente o discente che sia. Figuriamoci le arti propriamente collettive: la vera arte, cioè la Letteratura, la parola scritta, è assolutamente individuale: “uno Scrittore non è nessuno ed è da solo; qualunque altro artigiano si sente Qualcuno ed è già una banda all’opera”. Se deve fare un’eccezione sospetto sia per le arti corporee, come la danza, e difatti nel Seminario Busi ci racconta di quando fu ballerino alle Folies Bergeres… Insomma, un po’ la dedizione assoluta alla scrittura e alle possibilità della lingua italiana rispetto al “doppiese” dell’anglo-americano tradotto, un po’ il rifiuto dell’atteggiamento pensoso ma accomodante del ruolo di letterato di consumo, un po’ il rifiuto netto (o almeno il detournament) della Traumaliteratur, e in generale il rifiuto delle scorciatoie di mercato hanno assicurato a Busi se non l’oblio la penombra ancora in vita. Ma per chiunque aspiri a diventare uno scrittore italiano non riesco a immaginare modello migliore. L'articolo Senza eredi: rileggere Aldo Busi proviene da Pulp Magazine.
Un esordio sconfessato: Il vento dal nulla, di James G. Ballard
J.B. Ballard, Vento dal nulla, Urania 621 Mondadori 1973 Se fossimo pignoli, questa puntata della rubrica dovrebbe trattare altri scritti di quello che gli appassionati chiamano Shanghai Jim (dalla città ove nacque nel 1930), o il Visionario di Shepperton (dal sobborgo londinese nel quale risiedette per la maggior parte della sua vita): parliamo ovviamente di James Graham Ballard, che nelle edizioni inglesi e americane della sua narrativa appare regolarmente come J.G. Ballard (da quelle parti gli scrittori hanno il sacrosanto diritto di scegliere quali dei loro nomi far apparire e quali no, e quali tenere solo come iniziali). Se fossimo pignoli, dicevo, in questo pezzo dovrei parlare di “Tredici verso Centauro”, oppure di “Prima Belladonna”, perché questi due racconti uscirono nel 1956 su due diverse riviste pulp britanniche, New Worlds Science Fiction e Science Fantasy, entrambe dirette da John Carnell (che passa alla storia come lo scopritore dello scrittore che in seguito avrebbe rivoluzionato la fantascienza britannica, e non solo quella). Tra i due racconti, però, sarebbe un po’ difficile dire quale sia l’opera prima, in quanto uscirono entrambi nel numero di dicembre delle due riviste; mi toglierò pertanto d’imbarazzo dedicandomi al primo romanzo pubblicato da Ballard, Il vento dal nulla, che esce prima in due puntate su New Worlds Science Fiction, nel 1961, e poi in paperback per i tipi di Berkley Medallion nel 1962. A tutti gli effetti la carriera di Ballard come scrittore professionista inizia con la pubblicazione del suo primo romanzo. Quando escono i suoi primi racconti, si guadagna da vivere come redattore di una rivista scientifica, Chemistry and Industry, un lavoro che aveva rimediato (dopo aver provato svariati mestieri) con l’aiuto del padre, di professione per l’appunto chimico. La letteratura, fino al 1962, è più un hobby che un mestiere, nonostante Carnell ammirasse il talento del giovane scrittore e fosse ben disposto a pubblicare tutto quel che gli sottoponeva. James è ben consapevole che, se continua a scrivere solo racconti, non riuscirà mai a mantenere moglie e tre figli, e dovrà continuare a dedicare la maggior parte del suo tempo agli articoli dei chimici; si lancia così, in un paio di settimane di ferie, nella frenetica scrittura di un romanzo di fantascienza, per l’appunto Il vento dal nulla, che gli consentirà di mollare Chemistry and Industry e dedicarsi alla letteratura full time. Successivamente, Ballard fu tutt’altro che orgoglioso della sua opera prima. Affermò ripetutamente che l’aveva scritta solamente per fare il salto dal dilettantismo al professionismo, e praticamente lo ripudiò, tanto che l’ultima edizione di lingua inglese risale al lontano 1976. Gli è andata poco meglio da noi: l’ultima volta che è stato ristampato fu in un omnibus, il Millemondiestate di Urania del 1981. A tutti gli effetti si tratta di un romanzo rimosso, sconfessato,  che ormai è di non facilissima reperibilità – un pezzo da collezionisti. Ma cos’ha di tanto terribile? Basterebbe un confronto con il romanzo successivo, Il mondo sommerso (anche questo uscito nel 1962, noto in Italia anche come Deserto d’acqua), per capire dov’è il problema. Entrambe le storie sono incentrate su un disastro su scala planetaria; nell’opera prima, un vento che comincia a soffiare e aumenta di intensità di otto chilometri orari ogni ventiquattr’ore, raggiungendo al culmine della sua furia oltre settecento chilometri orari e spianando inesorabilmente tutte le opere dell’uomo, oltre a spazzare via il terreno coltivabile e interi laghi e mari; nell’opera seconda, un aumento delle temperature su scala globale che porta allo scioglimento dei ghiacci polari e trasforma Londra in una palude tropicale. Non ci vuole molto a capire che Il mondo sommerso può essere letto oggi come una premonizione del riscaldamento climatico che ci affligge, anche se all’epoca il fenomeno era ancora di là da venire. Ma a parte l’attualità del secondo romanzo, il problema è che nel primo Ballard ha intrecciato l’elemento fantascientifico (il vento apocalittico) con una trama d’azione che – a rileggere oggi – pare presa di peso da un film di James Bond, con tanto di un supervillain, Hardoon, che sembra una versione alternativa di Goldfinger. Nell’opera seconda, invece, i riferimenti sono più elevati, tra Jung e T.S. Eliot, e la pittura surrealista. Il vento dal nulla segue le peripezie di due personaggi, l’inglese Maitland, medico, e l’americano Lanyon, comandante di un sottomarino dell’US Navy; ai due ne succedono di tutti i colori (nel caso di Lanyon anche l’incontro con un gruppo di malavitosi liguri di buon cuore), scampando alla catastrofe per ritrovarsi entrambi nella piramide di cemento armato che Hardoon, un miliardario decisamente megalomane, si è fatto costruire per diventare l’unico uomo che sfida il vento sterminatore, mentre tutti gli altri si nascondono terrorizzati sotto terra. Ci sono sparatorie, scazzottate, pericoli sventati all’ultimo minuto: il tutto piuttosto sforzato e non sempre connesso logicamente. Maitland e Lanyon finiscono nella piramide di Hardoon piuttosto gratuitamente, e il disastro finale, cioè il crollo della suddetta piramide, giunge più per gratificare i lettori con la punizione del cattivo, che per una qualche consequenzialità (non si capisce come mai uno ricco come Hardoon si sia messo in mano a ingegneri così incompetenti: mica è italiano!). Inoltre, la frase che chiude il libro annunciando che il vento sta cominciando finalmente a esaurirsi provvede un lieto fine decisamente forzato. I due protagonisti, come s’è detto, hanno qualcosa di James Bond, pur non essendo agenti segreti: entrambi uomini d’azione tutti d’un pezzo, senza grande spessore psicologico. Solo nel caso di Maitland si accenna a un matrimonio fallito con una bella donna del jet set (che muore spazzata via dal vento, quasi consegnandosi volontariamente ad esso); accenno a ben altre complessità psicologiche e psicanalitiche che incontreremo nelle altre opere di Ballard. Lanyon, invece, conquista la bella giornalista Patricia Olsen della NBC, nella più pura tradizione fleminghiana (c’è persino un brutalone grande e grosso dall’omicidio facile, Kroll, al servizio di Hardoon, che è equivalente al personaggio di Oddjob in Goldfinger). Insomma, Ballard, che conosciamo come uno dei più originali scrittori inglesi del secondo dopoguerra, qui ci serve una serie di stereotipi che tradiscono la fretta con cui venne buttato giù questo romanzo. Però alla fine Ballard era già Ballard, e segni della sua maniera matura spuntano qua e là anche in questo prodotto artigianale. Quando descrive le stazioni della metropolitana londinese usate come rifugio, non si può non pensare alla Seconda guerra mondiale terminata solo sedici anni prima, ma anche a come gli inglesi internati a Shanghai dai giapponesi si ammucchiavano nel campo di prigionia di Lunghua, che compare ne L’impero del sole, e poi ancora ne La gentilezza delle donne. Elettrodomestici e macchinari accatastati dai malavitosi liguri nel sotterraneo di un convento diroccato anticipano lo sfolgorante spettacolo delle merci nell’Impero del sole, tutto quello (auto di lusso, frigoriferi, ecc.) che i giapponesi hanno saccheggiato dalle dimore degli occidentali e accatastato in uno stadio. E sarà un caso se uno dei banditi brandisce una pistola Mauser, che era l’arma d’ordinanza delle guardie nipponiche a Lunghua? Erano tracce di un passato traumatico che sarebbero riemerse completamente solo negli anni Ottanta, ma quei contenuti latenti già baluginavano nel mondo catastrofico immaginato da Shanghai Jim. Inoltre, il fallimento del piano di Hardoon, il crollo della piramide, non è solo un finale coi botti, ma anche l’occasione per dare sfogo al pessimismo swiftiano di Ballard, che tornerà nei romanzi e nei racconti successivi, la sua sfiducia in un’umanità mossa da pulsioni irrazionali e da smanie di onnipotenza che si scontrano con le forze cosmiche dell’universo, a loro del tutto indifferenti. C’è dietro la tradizione apocalittica inglese, che risale al Diario dell’anno della peste di Defoe, passando per la fantascienza filosofica di Herbert George Wells; c’è dietro anche Darwin, implicitamente citato in una battuta di un personaggio secondario, che riflette su tutti quelli che non sopravviveranno alla catastrofe: “Lo so che suona spregevole, ma l’adattabilità è la sola vera forma di qualificazione biologica per la sopravvivenza. Al momento è in corso una forma di selezione naturale piuttosto severa, e francamente io voglio essere selezionato”. L’eroismo tardoromantico (e piuttosto frusto) di Hardoon non ha futuro; davanti a una trasformazione planetaria bisogna adattarsi – e questa è la morale di Il mondo sommerso, dove il protagonista alla fine in qualche modo accetta la regressione temporale che riporta la Terra al triassico, anche se questo ovviamente comporta la sua morte. E già in questo romanzo scritto a tirar via, ma da un praticante non privo di talento, emerge il gusto di Ballard per il paesaggio urbano (ma anche naturale). Sappiamo bene come lo scrittore fosse un grande appassionato di arte contemporanea, estimatore dei surrealisti e di De Chirico, amico dell’artista pop inglese Paolozzi, frequentatore di gallerie d’arte e mostre; quando fece i soldi con i diritti dell’adattamento de L’impero del sole, diretto da Spielberg, Ballard ne investì una parte per farsi fare una copia di una tela perduta di Delvaux, che poi mise in bella mostra sul caminetto del salotto. E le descrizioni della Londra obliterata dal vento apocalittico fanno presagire le visioni surreali della metropoli sommersa nel romanzo successivo, o la foresta pluviale cristallizzata in Foresta di cristallo. Pochi romanzieri nel secondo novecento hanno la forza visuale di Ballard, che ha costruito alcuni dei suoi racconti come trascrizioni transmediali di tele di Ernst, Magritte o Dalì; in quest’opera prima non del tutto riuscita c’è già la potenza dell’immagine, anche se l’autore deve ancora imparare a imbrigliarla. E poi, a rileggere Il vento dal nulla c’è una strana sensazione di retrofuturo: Maitland per andare in America deve imbarcarsi su un Boeing 707, l’acme delle telecomunicazioni è la televisione, Tokyo viene descritta come una città di carta e bambù (infatti viene spazzata via ben prima di Londra o New York), e quanto alla Grande Mela il momento topico è quando arriva la notizia che è venuto giù l’Empire State Building. Si tocca con mano come l’anticipazione consentita alle scritture fantascientifiche sia sempre limitata, in un certo senso è una visione in uno specchio oscuro, per enigmi. Però trovi una cosa che, quando lo lessi per la prima volta, mi pareva un po’ tirata per i capelli: il miliardario folle che si fa costruire la piramide come Cheope (puntualmente citato nel romanzo). Oggi quella mi sembra una profezia quasi soprannaturale. Il rifugio del tycoon viene inizialmente chiamato Hardoon Tower; come non pensare alla Trump Tower di là da venire? E l’idea che uno straricco si faccia costruire un monumento da faraoni non mi pare tanto lontana dai razzoni di Elon Musk e dalla proliferazione di torri e torrioni hi-tech (pensate allo Shard di Londra) che abbiamo visto dall’esplodere del turbocapitalismo in poi. Ma si sa: l’occhio sociologico di Ballard vedeva lontano. Non dimentichiamo che nel suo ultimo romanzo, Regno a venire, c’è tutta la psicosi sovranista e regressiva che in Inghilterra ha portato alla Brexit (e prossimamente, chissà, al governo di Farage, personaggio assolutamente ballardiano dell’ultima maniera), e da noi all’attuale governo. Insomma, anche in questo romanzo scritto in fretta, in questo James Bond alle prese con l’apocalisse, in quest’opera d’apprendistato, ci vedi i semi della futura grandezza del Visionario di Shepperton. Che, ahinoi, ci manca tanto, in quest’epoca di pazzi dove abbondano gli idioti dell’orrore… L'articolo Un esordio sconfessato: Il vento dal nulla, di James G. Ballard proviene da Pulp Magazine.