Hamid Ismailov / Lungo viaggio verso il nulla
“Ho vissuto più morti sottoterra che vite in superficie” afferma Kirill, moderna
declinazione dell’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, il quale in realtà si
chiama Mbobo ed è di carnagione scura, come un grottesco fratellino di Puškin.
Frutto dell’incontro improbabile fra una bellissima e volubile donna chakassa e
un atleta africano è un essere informe, intriso di sofferenza. Il suo regno è
l’abisso della metropolitana di Mosca, un luogo infero che si identifica con le
sue viscere, il suo sangue, le sue vene. Ogni stazione costituisce il percorso
di una via crucis dolorosa, in un lungo viaggio verso il nulla. L’uomo è
crocifisso nel tempo, mentre il Cristo non rappresenta una speranza di effettiva
salvezza. “La separazione fra uomo e uomo è incolmabile”.
Il figlio del sottosuolo di Hamid Ismailov è un romanzo potente, un labirinto
nel quale la grande letteratura russa riverbera illuminando di nuova luce il
nostro presente. I volti di Bulgakov e Dostoevskij balenano nelle buie gallerie,
nel regno delle forme sotterranee preda di un caos ingovernabile. I lampadari
pendono come stalattiti nell’antro misterioso e oscuro. Lo schema della
metropolitana ricorda una tela di ragno, mentre lo scrittore tenta di intessere
una rete di parole, un muro impenetrabile dietro il quale ripararsi, una
possibilità di salvezza generata dall’infinità del pensiero. La metropolitana,
inoltre, simboleggia il sistema sovietico; una dimensione invisibile ma
perfettamente controllata nelle sue dinamiche. “Un accenno subliminale
all’edificazione di una vita paradisiaca, sia pure nel sottosuolo, comunemente
concepito come inferno”. Il comunismo costruito sottoterra.
Costretto dalla madre a un’esistenza erratica e precaria, come se fuggissero
sempre da qualcosa, come se fossero inseguiti perennemente da un pazzo
pericoloso, Mbobo non ha un posto dove vivere. Non sa esattamente dove stia
andando e cosa stia cercando. Sa solo che non vuole abbandonare Mosca, questo
agglomerato urbano che porta il nome di sua madre e dove è nato. Come Ulisse è
costretto a vagare per i mari, come Dante deve errare da un girone all’altro
dell’inferno. Derive mitologiche, come la descrizione della discesa della dea
mesopotamica Inanna nell’oltretomba, arricchiscono il tessuto testuale. Un
diluvio di ricordi frammentari sommerge il protagonista. I due patrigni, lo Zio
Nazar nella sua casa in via di demolizione, e lo zio Gleb, uno scrittore che
cerca di colmare il vuoto con l’alcol più che con la letteratura, modellano la
sua infanzia. Nell’assenza totale di senso bisogna cercare di sopravvivere, di
resistere. Mbobo è scisso a metà, come nell’immagine dello specchio infranto che
riflette il suo viso atterrito; è mezzo nero e mezzo bianco, mezzo chakasso e
mezzo russo, intessuto di luce e oscurità profonda. I pregiudizi razziali lo
minacciano, un senso di estraneità lo aggredisce.
In questa figura singolare, Ismail delinea i tratti dell’uomo superfluo
contemporaneo, la cui anima è macchiata dal buio. Per comprendere la realtà
attuale scrive un romanzo che è immersione nella storia più recente, nelle
utopie della glasnost e nelle sue conseguenze. Lo smarrimento seguito alla
dissoluzione dell’Unione Sovietica permette a pochi di arricchirsi sulla pelle
degli altri, modellando una società agghiacciante. I risparmi messi da parte con
grandi sacrifici perdono improvvisamente il proprio valore, mentre un’atmosfera
di catastrofe si addensa sul Paese. “Anche le persone erano improvvisamente
cambiate”. Il mondo sotterraneo diviene metafora di una realtà fatta di
casematte e celle di isolamento, di deportazioni e interrogatori. Lo scrittore
uzbeko decifra le coordinate di un intero popolo consegnato al caos e alla
sofferenza, il disgregarsi di un’utopia degenerata nella violenza.
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