‘La lunga marcia’ e ‘L’uomo in fuga’ al cinema. Attualità dello Stephen King più politico
In un’America distopica, il Maggiore governa il paese col pugno di ferro. Le
squadre, il suo braccio armato, fanno sparire i dissidenti che osano esprimersi
a voce troppo alta. La forma di intrattenimento più popolare negli Stati Uniti
controllati dal Maggiore è una marcia che ogni anno vede cento ragazzi camminare
dal confine con il Canada fino a dove i loro corpi riescono a portarli. Non sono
previste pause di alcun tipo fino alla fine della competizione. Chi si ferma
riceve un avvertimento. Chi scende sotto la velocità stabilita dal regolamento
riceve un avvertimento. Chi commette un’infrazione riceve un avvertimento. Dopo
il terzo avvertimento si viene fucilati sul posto dai soldati che seguono i
marciatori a bordo dei mezzi corazzati. La partecipazione è facoltativa, il
vincitore riceverà tutto quel che desidera per il resto della propria vita. Il
premio alletta molti dei ragazzi che partecipano sperando di vincere in qualità
di ultimo sopravvissuto. Altri partecipano per ragioni tutte loro. Ciò di cui
nessuno si rende conto è della trappola spaventosa in cui si sta andando a
cacciare con le proprie mani.
In un’altra America non meno distopica e governata da un regime altrettanto
autoritario, Ben Richards è un disoccupato senza un soldo la cui moglie si
prostituisce per guadagnare qualche soldo per tentare di curare la figlia
malata. Per tentare di cambiare il destino della piccola, Ben si reca alla
Federazione Giochi, un ente che produce competizioni trasmesse in TV in cui i
poveri come lui partecipano a programmi in cui mettono a rischio la propria
salute per soldi. Lui non punta ai giochi pericolosi ma fattibili come il
Macinadollari. Lui punta alla gara più estrema, quella da cui nessuno finora è
uscito vivo. L’uomo in fuga, una caccia all’uomo che frutta al fuggitivo un
pozzo di soldi a patto di sopravvivere trenta giorni di fila braccato
dall’America intera: dai poliziotti ai cittadini comuni, o peggio ancora dai
Cacciatori, una squadra specializzata alla guida dello spietato Evan McCone.
L’uomo in fuga non serve solo a intrattenere, aiuta il governo a liberarsi di
potenziali sovversivi pericolosi. Ma Ben Richards, con il suo acume e con la sua
rabbia dirompente, potrebbe dimostrarsi più pericoloso del previsto.
La lunga marcia, la prima opera scritta (anche se non la prima pubblicata) da
Stephen King e L’uomo in fuga fanno parte dei Bachman Books, una serie di libri
che il Re scrisse, insieme a Ossessione, Uscita per l’inferno e L’occhio del
male, sotto lo pseudonimo di Richard Bachman un po’ per gioco e un po’ per
sfida, in sintesi per rendersi conto di quanto il suo nome pesasse realmente nel
determinare il successo dei suoi libri e quanto esso fosse dovuto alla loro
qualità. Di tutta la sterminata produzione di King, i libri scritti come Bachman
sono forse i più politici e fra di essi La lunga marcia e L’uomo in fuga si
distinguono per una critica particolarmente dura, diretta e rabbiosa. Proprio in
questi mesi è prevista l’uscita nelle sale cinematografiche di due pellicole
tratte da queste due opere. Ora, il rapporto fra i libri di King e i loro
adattamenti per il grande schermo è come minimo complicato, nella maggior parte
dei casi ci troviamo di fronte a risultati mediocri a voler essere generosi,
eccezion fatta per opere come Shining (1980) di Kubrick, e in tal senso sono
ancora i due libri sopra citati a distinguersi. Se l’idea di portare nelle sale
cinematografiche La lunga marcia ha infatti parecchi anni e altrettante false
partenze sulle spalle, L’uomo in fuga ha generato un adattamento, conosciuto in
Italia con il titolo L’implacabile (1987), su cui sarebbe forse meglio
soprassedere, un film sci fi d’azione con Schwarzenegger che è pure divertente
ma che con il libro di King non ha nulla a che vedere. Al di là del
comprensibile hype da parte dei fan del re, fomentato almeno nel caso di La
lunga marcia da un paio di trailer che promettono i fochi d’artificio, è
interessante come proprio oggi questi due libri così attuali siano finalmente
diventati due film e, soprattutto, è interessante capire cosa li rende così
inquietantemente contemporanei.
Il primo aspetto difficile da non notare è che le due opere sono due modi
completamente diversi di raccontare fondamentalmente la stessa storia. La
narrazione è la medesima: in un’America controllata da un regime autoritario il
protagonista sceglie liberamente di partecipare a un gioco che illude di poter
cambiare la propria vita ma che, nella realtà dei fatti, è un tritacarne da cui
non è possibile uscire vivi. Quindi, gli elementi fondamentali sono tre: il
regime autoritario, il ruolo e le modalità dell’intrattenimento e la chiave di
volta, la libera scelta.
Partiamo dall’ambientazione. A metterli insieme tutti e due, i world building
dei due libri per quanto accennati ci restituiscono una fotografia sinistramente
precisa del nostro presente, contando che sono stati pubblicati fra il 1979 e il
1982. Il regime autoritario del Maggiore, in La lunga marcia, è poco più che
accennato ma le poche parole con cui è tratteggiato sono di una sintesi efficace
che fornisce tutte le informazioni necessarie. C’è la figura carismatica, c’è la
repressione del consenso strisciante ma presene, c’è un consenso generalizzato
derivante dal culto della personalità. L’uomo in fuga racconta fa forbice fra le
classi sociali, con le sue differenze sempre più chiare, accentuate e
apertamente giustificate con una borghesia che non fa nemmeno finta di non
disprezzarli, i poveri. L’ambientazione qui è più delineata, dickensiana ma in
pieno bad trip di quelli pesanti con la gente comune che è tornata ad avere la
sussistenza economica e la sopravvivenza tout court come problemi principali
dagli esiti niente affatto garantiti.
Quanto all’intrattenimento, entrambi i libri raccontano di una nazione che segue
assiduamente un gioco al massacro nel senso letterale, basato su una morte
violenta in qualche modo catartica e attesa da un pubblico acclamante. Qui si
vede la maggior complessità della struttura di L’uomo in fuga: il libro è
dinamico, pieno di eventi e di rovesciamenti di fronte rapidi e improvvisi,
giocato su una tensione costruita a strappi, a scatti di adrenalina che si
alternano a seppur brevi momenti dove il protagonista riesce a riprendere fiato.
Il parallelismo con i gladiatori è più scoperto, il ruolo dei media è più
invadente e la sete di sangue della folla più urlata per quanto ci sia dello
spazio per alleati che aiutano Ben Richards soprattutto come atto di resistenza
dettata da un barlume di coscienza di classe, non a caso il consiglio che riceve
da uno degli antagonisti è: stai con la tua gente. La lunga marcia, nella sua
costruzione maggiormente lineare, costruisce la narrazione su una trappola che
all’inizio del romanzo si chiude sui protagonisti e non li lascia più uscire, un
meccanismo di tortura lento e inarrestabile da cui le vie d’uscita semplicemente
non esistono. Si può solo camminare e morire, anzi, camminare e poi morire. Il
ruolo dei media è meno invadente perché il Maggiore è un dittatore vecchio
stampo, di quelli che ancora andavano di moda all’epoca per esempio in Sud
America, con il loro amore per le piazze e per le parate. Il pubblico qui non
guarda il gioco davanti alla TV (anzi, alla tri-vu) come ne L’uomo in fuga, qui
le famiglie si sistemano a bordo strada cercando un punto di osservazione
ottimale. In entrambi i casi, l’intrattenimento basato sulla sofferenza fisica e
sulla morte svolge la fondamentale funzione di collante della società, uno sfogo
per persone a cui è stata portata via la possibilità di una vita dignitosa.
L’ultimo, drammatico elemento che rende La lunga marcia e L’uomo in fuga è la
scelta, o l’illusione della stessa. Nessuno costringe i partecipanti ai giochi a
iscriversi. Lo decidono loro, di loro spontanea volontà. O almeno credono.
Certo, l’atto di espressione del consenso è deliberato, non estorto, ma nel
migliore dei casi sono guidati da una pulsione di morte indotta dal mondo in cui
vivono, quando non è direttamente il bisogno a guidare la loro mano alla
compilazione dei documenti necessari. Se le motivazioni di Ben Richards sono
chiare, ha bisogno dei soldi per le cure di sua figlia, Ray Garraty non lo sa
nemmeno perché si è iscritto alla marcia, forse c’è un motivo correlato al fatto
che Squadre hanno portato via suo padre, col vizio del bere e di parlare di
politica, lasciandolo solo con una madre traumatizzata e spaventata dalla
propria ombra. Altri marciatori lo fanno per quella microscopica possibilità di
garantire un futuro alle loro famiglie, altri sono semplicemente consapevoli di
star compiendo un suicidio. Tutti, in questi due romanzi, scelgono di giocare
una partita le cui possibilità di vittoria sono assurdamente basse, ma sono
accecati dal premio, dall’incapacità di capire le implicazioni del loro gesto o
da una voglia di morire che sa di resa allo stato delle cose. Una scelta libera
sul piano formale, un po’ meno nella sostanza.
Voler indicare col ditino i parallelismi con l’epoca in cui viviamo sarebbe
didascalico, gli elementi sono lì da vedere, l’ironia amara che sta dietro al
tempismo che vede La lunga marcia e L’uomo in fuga de film proprio adesso è che
forse non esiste un momento storico che queste due opere sono più adatte a
rappresentare.
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Stephen King più politico proviene da Pulp Magazine.