Valerio Renzi / Le radici secche della destra
Valerio Renzi è il curatore di uno dei più interessanti e approfonditi
osservatori on line sulla galassia neofascista, la newsletter S’è destra
https://sedestra.substack.com/ la cui lettura consigliamo vivamente a chiunque
voglia essere informato sulle sempre più inquietanti derive postfasciste
nazionali e internazionali. Del suo brillante libro del 2021, Fascismo
mainstream, anche questo pubblicato da Fandango, ci siamo già occupati a suo
tempo su Carmilla
https://www.carmillaonline.com/2022/02/28/dacci-oggi-il-nostro-fascismo-quotidiano/,
un testo che ci metteva in guardia contro l’ormai evanescente e quasi
ectoplasmatico concetto di democrazia, che in Italia e nel mondo occidentale ha
ormai sostituito la democrazia vera, e le ogni giorno più fosche prospettive
totalitarie nella conclamata crisi del modello neoliberista, anticipando – punto
per punto, come regolarmente è avvenuto pochi mesi dopo l’uscita del volume –
l’avvento al potere nel nostro paese di quel fascismo mainstream da decenni
ormai sdoganato, infiltrato nelle istituzioni e reso tollerabile e persino
attraente alle masse con la complicità del suo principale alleato e fomentatore,
una sinistra insulsa e imbelle. Oggi, a disgrazia ormai avvenuta e consolidata,
il volume appena uscito analizza le strategie attraverso le quali gli esponenti
di un governo non più di centro-destra ma di destra tout court, sostenuto da un
parlamento in cui hanno la maggioranza relativa, stiano cercando di stabilire un
canone posticcio della cultura nazionale, una sintesi raffazzonata che, nella
confusione generale, conceda sempre più spazio ai nomi, ai pretesi valori e ai
riferimenti storici della loro parte politica in una sorta di “revisionismo
permanente”. L’obbiettivo della guerra culturale per l’egemonia reazionaria di
questo governo sarebbe il comminare un rifiorito MinCulPop alla Repubblica nata
dalla Resistenza.
Il titolo Le radici profonde, si riferisce ovviamente al travisato e abusato
classico fantasy Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, assunto
impropriamente al ruolo di livre de chevet della destra neofascista italiana
fino dagli anni ’70 (quando altrove era stato, nel caso, apprezzato dagli
hippies e dalla controcultura underground statunitense e citato in canzoni di
gruppi rock come Led Zeppelin, Black Sabbath, Huriah Heep e Rush: un immaginario
tutt’altro che destrorso…). In particolare, la citazione è un verso della poesia
che uno dei protagonisti dell’epopea tolkieniana, Bilbo Baggins, dedica ad
Aragorn, re spodestato che tornerà sul trono alla fine della storia: “Le radici
profonde non gelano. Dalle ceneri rinascerà un fuoco” – implicita la distorsione
revanchista nell’interpretazione degli “esuli in patria” ultradestri in cui le
radici sono ovviamente quelle del fascismo e/o della presunta tradizione
(termine che mi rifiuto di scrivere con la T maiuscola come fanno sempre loro…)
– una sorta di mitologica e presunta philosophia perennis teorizzata da
pensatori in linea con la moda esoterica del primo Novecento, come René Guénon,
Frithjof Schuon e Ananda Coomaraswamy, o da poligrafi mestatori come Julius
Evola.
Di fatto, accenna Renzi, su internet il motto viene spesso attribuito
addirittura a Mussolini (il povero Tolkien si sarà rivoltato nella tomba…).
Insomma è il simbolo di quelle prospettive antimoderne agitate dagli ex Nipoti
della Lupa travestiti da Hobbit: dai Campi Hobbit, festival neofascisti
organizzati dall’ala rautiana del Fronte della Gioventù nel 1977 e nel 1981 (e
bieca scopiazzatura in nero di Woodstock o del Festival del Proletariato
Giovanile al Parco Lambro); alla Compagnia dell’Anello e agli altri penosi
gruppi di “rock identitario” o “musica alternativa” (anche qui si scopiazza –
male – il rock serio e lo si inverte di segno…); fino alle ostentate
predilezioni bibliofile della Premier, sempre pronta ad accorrere al suono del
Corno di Boromir capitombolando per Colle Oppio ad onta di Atreju, nome usurpato
stavolta non a Tolkien ma all’altrettanto incolpevole Michael Ende di un altro
classico fantasy, La storia infinita.
Come ben spiega Renzi il fantasy e nella fattispecie Tolkien si presta
facilmente, con non eccessive forzature, a rendere pop “la solita solfa evoliana
da cui non riusciranno mai davvero ad affrancarsi”. Il pastiche culturale della
destra – in linea con il pastiche pseudo-filosofico-esoterico del loro guru
Evola – usa l’epica tolkieniana mescolando in chiave postmoderna rune e asce
bipenni, cristianesimo celtico e paganesimo neonazista: “L’operazione Tolkien ha
così due facce: da una parte quella dell’appropriazione di un materiale
culturale non proprio, dall’altra quella di traghettare verso il futuro il
vecchio armamentario ideologico proveniente dal dopoguerra”. L’esempio più
eclatante di questo pastiche che dovrebbe essere l’humus a cui attingono le
“radici profonde” è rappresentato dall’inno del Fronte della Gioventù, oggi
ereditato da fratelli (e sorelle) d’Italia, Il domani ci appartiene, canzone
tratta dal film Cabaret dove viene intonata (non in tedesco ma in inglese,
Tomorrow Belongs to Me) da un giovanissimo membro della Hitler Jugend: un finto
lied nazista in realtà scritto per un film americano da due compositori, John
Kander e Fred Ebb, ebrei e antifascisti.
Ricostituita intorno al tradizionalismo integrale di Evola, a base di
improbabili rivolte contro il mondo moderno e di fantini che cavalcano tigri in
mezzo alle rovine, più nazista che fascista ed elitariamente iniziatica, la
cultura della destra radicale, sclerotizzata intorno al culto di pochi scrittori
e intellettuali, sempre gli stessi e sempre affrontati in toni agiografici e mai
analitici – i collaborazionisti francesi, Pierre Drieu La Rochelle, Robert
Brasillach, Louis-Ferdinand Céline, Lucien Rebatet; i
rivoluzionario-conservatori tedeschi, Ernst Jünger, Oswald Spengler, Ernst von
Salomon; il dannunziano giapponese Yukio Mishima; i simpatizzanti delle Guardie
di Ferro rumene, Mircea Eliade, Emil Cioran e il loro guru Corneliu Zelea
Codreanu; un unico statunitense, Ezra Pound; qualche tradizionalista,
soprattutto il pupillo di Evola, Adriano Romualdi; pochi fascisti o
para-fascisti (più Marinetti che Gentile, D’Annunzio o Malaparte); non molto
altro… – viene poi svecchiata in parte, si tratta soprattutto di cosmesi, dalla
nouvelle droite francese di Alain de Benoist, negli anni ’70-’80, con la lettura
distorta e strumentale di Antonio Gramsci (emendata da ogni riferimento alla
lotta di classe) e il concetto di “metapolitica” che rimpiazza l’egemonia
culturale gramsciana e si insinua nelle aree lasciate sguarnite dal predominio
della sinistra (il fantasy è una di queste). Tangentopoli compie il miracolo di
proiettare Allenza Nazionale – orfana del crollo del partito neofascista
storico, il MSI, e traumatizzata dalla svolta “badogliana” di Gianfranco Fini a
Fiuggi ma in compenso quasi estranea, per forza di cose, ai processi per
corruzione in corso – nello spazio politico dove Berlusconi la raccoglie e la
sdogana, pur imponendo ai vari gerarchetti il programma economico-sociale
neoliberale del cesarismo e del populismo che gli è proprio. Dagli anni ’90
inizia il Kampfzeit revisionista che, con il sostegno di giornalisti e
intellettuali di estrazione liberale complici e alleati nell’offensiva feroce
contro l’egualitarismo e le conquiste sociali del boom economico, porta
all’equiparazione di fascismo (sempre più rivalutato, con la dignità dei
“ragazzi di Salò”) e comunismo (sempre più vilipeso e sporcato, con la memoria
della Resistenza), alla propria autoassoluzione da ogni connivenza nella
“strategia della tensione” e al parallelo martirologio (stessa lagna di quello
per i fucilati di Salò) come principali vittime degli “anni di piombo”: si alza
così progressivamente la posta in gioco, fino all’istituzione ufficiale del
Giorno del Ricordo, celebrazione che strumentalizza le vittime delle cosiddette
foibe per controbilanciare il Giorno della Memoria degli ebrei e il Giorno della
Liberazione degli antifascisti. Anche i fasci hanno avuto il loro contentino e
possono circolare impunemente per le città italiane con il braccio alzato nel
saluto romano – il 10 febbraio e magari il 22 ottobre e, se continua così,
sempre, tutte le volte che vorranno. Ma la vittoria del 2022, secondo Renzi,
rivela anche dei punti “metapoliticamente” deboli: “ha mostrato con chiarezza
tre cose: la mancanza di un personale di area in grado di dare un segno alle
politiche culturali; la difficoltà della destra a relazionarsi con la cultura di
massa e con i valori che essa esprime; l’incapacità di esprimere un profilo
culturale valoriale autonomo, limitando la propria ambizione a escludere dai
finanziamenti e gli spazi culturali tutto quello che è percepito come
contemporaneo o sperimentale”.
Ormai da anni, la crisi del populismo berlusconiano e l’emersione dei successivi
governi tecnici e delle larghe intese con i loro nuovi miti di (pretesa)
austerità, competenza, rigore, parsimonia, ha portato la destra a millantare un
valico ulteriore, incarnarnando il massimo rafforzamento dell’ordine costituito:
non più la logica neoliberale della libido, del desiderio e del piacere
(l’aspetto superficialmente “simpatico” del berlusconismo), ma il divieto, la
negazione, l’imposizione del limite, l’impedimento. Non più “nani e ballerine”
ma un’idea di normalizzazione e pulizia drastica: contro gli immigrati, le donne
troppo indipendenti, le diversità, i centri sociali, le manifestazioni di
protesta. Il presupposto di quello che i nazisti definivano Gleichschaltung, la
“messa al passo”, l’allineamento, l’uniformazione. La libertà della maggioranza
contro le minoranze, dei “bempensanti” contro i “liberi pensatori”: una Civitas
Dei opposta a una Civitas diaboli fatta di periferie sociali e geografiche in
cui il panico morale va alimentato inventandosi demoni popolari da reprimere e
bravi cittadini arrabbiati da proteggere.
Chissà che l’ultima barricata contro l’indottrinamento di questa visione
prescrittiva e normativa imposta dal governo – confermata anche dalla
presentazione del testo unico per la scuola di Valditara, che recupera il latino
e la scuola classista presessantottina ed esalta identità nazionale,
patriottismo e colonialismo – non sia forse il mondo queer e meticcio,
autenticamente pop, cioè volgare, cioè popolare, del Festival di Sanremo –
nazionalpopolare non secondo Gramsci ma secondo Pippo Baudo – estrema e
improbabile sacca di resistenza di un inconsapevole marxismo culturale in cui
ingovernabili lumpen intellettuali, minoranza rumorosa, sanno ancora spendere
qualche timida parola contro la guerra o per il salvataggio dei migranti in
mare, parole certo banali ma comprensibili e più sensate dei proclami
istituzionali, che possano arrivare ai ragazzi attraverso l’ecosistema digitale.
Ribellione, disobbedienza, sabotaggio, in veste camp magari. Sarà forse Elodie –
borgatara, proletaria, meticcia, queer, erotica, esotica – la nuova eroina della
lotta, ancora tutta da combattere, contro la gabbia opprimente del postfascismo?
Certo più lei di Elly Schlein.
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