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“Un tempo sconcertante e imprevedibile”. Lectio magistralis a Cuba di Ignacio Ramonet
Tra i momenti più rilevanti del III Incontro Internazionale delle Pubblicazioni Teoriche della Sinistra, tenuto all’Avana, presso l’Università del Partito Comunista di Cuba Ñico Lopez, tra il 15 e il 17 ottobre scorsi, va annoverata senza dubbio la lectio magistralis tenuta da Ignacio Ramonet sul tema della “Informazione, comunicazione e propaganda di fronte alla sfida dell’Intelligenza Artificiale”. Ignacio Ramonet è, senza dubbio, figura di primo piano di quel vasto campo politico e culturale che va sotto il nome di sinistra di alternativa e di trasformazione: scrittore, giornalista, analista internazionale, docente emerito di Teoria della comunicazione a Paris VII, è stato direttore de “Le Monde Diplomatique” e tra i principali ispiratori a livello internazionale del movimento altermondialista. Proprio da qui, dalla proiezione sulla fase internazionale, prende le mosse la sua riflessione, che potremmo schematizzare intorno ai temi salienti da lui trattati. In primo luogo, uno sguardo sull’attualità: viviamo un’epoca, infatti, che al tempo stesso è possibile definire “sconcertante” e “imprevedibile”. È in corso una vera e propria rottura tecnologica che assume le caratteristiche e la portata di una vera e propria “rottura” (Bachelard), dal momento che cambia il paradigma, porta con sé l’affermazione di nuove, potenti, forze egemoniche e impone, di conseguenza, una rinnovata battaglia per la libertà. Il contenuto che si fa vettore di questa “rottura” è dunque proprio l’Intelligenza Artificiale Generativa, in relazione alla quale pare evidente che la materia prima, la risorsa fondamentale principale, oggi, siano i “dati”, che rappresentano infatti i contenuti di apprendimento della stessa intelligenza artificiale. Questa non è priva di una sua connotazione positiva, legata alla capacità di elaborazione e alla possibilità di espandere i contenuti di conoscenza; tuttavia ha più che evidenti impatti negativi sul piano sociale (sperequazione e digital divide), culturale (appropriazione di dati) ed ecologico (estrazione di risorse strategiche e consumo di acqua per il raffreddamento delle macchine), e in particolare sul piano dell’informazione, sotto il profilo della manipolazione (il caso, tra gli altri, dei cosiddetti deep fake) e della polarizzazione (con la diffusione di contenuti fortemente polarizzanti e con una torsione della polarizzazione sociale del tutto funzionale alla conservazione degli assetti dominanti). Oltre novanta milioni, secondo dati Onu, sono i posti di lavoro che rischiano di essere cancellati dall’impiego dell’intelligenza artificiale, al punto che, secondo alcune stime, oltre il 20% del totale dei posti di lavoro, in prospettiva, rischia letteralmente di scomparire, ponendo, al tempo stesso, l’interrogativo angosciante della sparizione del lavoro umano e della sua trasformazione in lavoro puramente esecutivo al servizio del funzionamento e dell’ottimizzazione della macchina, riaffermando e ridislocando,insieme,la dialettica marxiana tra lavoro vivo (l’applicazione produttiva della forza lavoro umana) e lavoro morto (il lavoro incorporato nella macchina) ed evidentemente le questioni della sussunzione (il totale assoggettamento del lavoro, quindi della creatività umana, al capitale) e dell’alienazione (l’estraneazione e la disumanizzazione della persona umana nel processo di produzione e accumulazione capitalistica). Una riflessione, chiaramente, non per alimentare tentazioni luddiste, se non addirittura reazionarie, ma, al contrario, per ispirare nuovo pensiero critico. È nota la grande attenzione che lo stesso Karl Marx ha dedicato alla macchina e allo sviluppo delle moderne tecnologie. Fidel Castro, a propria volta, ha dedicato sempre un’attenzione prioritaria allo sviluppo delle nuove tecnologie, concependo l’innovazione al servizio del progresso, dell’avanzamento della condizione umana. D’altra parte è noto, da Marx in avanti, che la tecnologia nel contesto della società divisa in classi e quindi in regime capitalistico, serve essenzialmente a migliorare e incrementare l’accumulazione e quindi la formazione del profitto; il capitale ha interesse nello sviluppo della tecnologia nella misura in cui questa serve gli scopi dell’accumulazione, con conseguenze catastrofiche sul piano sociale e sul piano umano. L’automatizzazione in regime capitalistico porta con sé direttamente una crescente proletarizzazione e sotto-proletarizzazione, in termini di espulsione del lavoratore dal ciclo produttivo e proletarizzazione dei quadri e dei tecnici inferiori, come mostrano ampiamente i casi della Rust Belt, della proletarizzazione dei ceti medi e degli effetti della disoccupazione di massa nelle cinture industriali storiche degli Stati Uniti. La questione dunque non è semplicemente la tecnologia in quanto tale (chi potrebbe essere contrario al progresso tecnologico ai fini del miglioramento delle condizioni materiali di esistenza?) ma specificamente l’appropriazione capitalistica della tecnologia che la rende un prodotto umano al servizio dell’accumulazione e delle logiche del capitale. L’intelligenza artificiale ha un effetto gigantesco nella modifica e nella creazione non solo di nuove forme economiche ma anche di nuovi immaginari culturali; la “guerra cognitiva” è oggi uno strumento fondamentale dei poteri dominanti, al punto che si è giunti a parlare di “guerra ibrida” e di guerra di quarta o di quinta generazione, dove il controllo dei media, la manipolazione dell’informazione, la scomparsa dei fatti, la costruzione della narrazione e il condizionamento degli immaginari diventano potenti strumenti di guerra. Si veda, su tutti, il caso della Hasbara israeliana («costruzione di immagine» e, pertanto, propaganda) contro le mobilitazioni di massa, in tutto il mondo, per la fine del genocidio del popolo palestinese, una contrapposizione, quest’ultima, che è un esempio di conflittualità aperta sul canovaccio della “guerra cognitiva”. Israele, com’è noto, impiega infatti migliaia di agenti attivi nella promozione della propria propaganda in tutto il mondo. In questo campo, le reti sociali sono ormai sempre più una “trincea comunicazionale” della destra. Il motore di ricerca di Google propone automaticamente la modalità di ricerca “Intelligenza artificiale” e fornisce in molti casi, come primo risultato della ricerca ordinaria, un testo sul modello dei chatbot di Chat Gpt. Come conseguenza immediata, in una settimana di implementazione di questa nuova modalità di ricerca di Google, Wikipedia ha già perso, si calcola, circa il 30% delle consultazioni. Siamo dunque già nella nuova era della I.A. E la sinistra? La sinistra deve conoscere questi nuovi fenomeni e dare fiducia alle speranze di cambiamento che muovono tanti attivisti e volontari, tanti e tante giovani in tutto il mondo: utilizzare consapevolmente le reti sociali e creare proprie reti sociali; creare competenze e formare quadri politici in grado di interagire con le dinamiche proprie dell’I.A.; aggiornare la teoria e generare una prassi che sia adeguata e appropriata, all’altezza delle sfide poste dal tempo presente, a partire dall’ancoraggio, fondamentale e attuale, al marxismo. Gianmarco Pisa
“Il Venezuela è il grande laboratorio politico della nostra epoca” – intervista esclusiva a Ignacio Ramonet
Ignacio Ramonet, giornalista e saggista, analista internazionale, è stato a lungo direttore di Le Monde diplomatique. Nel suo libro La era del conspiracionismo ha analizzato i meccanismi del “trumpismo” che oggi vediamo estendersi ad altre latitudini, dall’America latina all’Europa. Con lui abbiamo parlato della crisi politica dell’Unione europea, e delle rinnovate tensioni fra gli Usa e i paesi socialisti latinoamericani. Viviamo un momento di profonde e drammatiche trasformazioni che investono tutti i piani di un modello – il capitalismo dominante – in crisi sistemica, ma con la chiara intenzione di far vivere a tutta l’umanità la sua agonia. Dal suo punto di vista, quello di un raffinato analista politico di lunga data, come interpreta questa crisi? Non siamo di fronte a una crisi puntuale del capitalismo, ma a una sua crisi di civiltà. Il sistema, nella sua versione neoliberista e finanziarizzata, ha raggiunto un punto in cui non riesce più a riprodursi senza distruggere le sue stesse fondamenta: il lavoro, la natura, i legami sociali e persino l’idea di comunità politica. Il capitale trasforma il collasso in strategia, fa della precarietà la norma e gestisce la catastrofe come se fosse uno stato naturale delle cose. La sua agonia è lunga e violenta e intende trascinare con sé l’intera umanità. Ciò che si annuncia non è solo l’esaurimento di un modello economico, ma la fine di una razionalità storica: quella che identificava il progresso con l’accumulazione infinita. E quali contromisure individua in quello che per molti è l’emergere di un mondo multicentrico e multipolare, dal quale, tuttavia, non emerge una chiara visione prospettica come invece accadeva nel secolo scorso, quando una buona parte del mondo credeva nella speranza del comunismo? Il mondo multipolare è già un dato di fatto, ma non è ancora un orizzonte. Multipolarità significa diversificazione dei centri di potere, indebolimento dell’egemonia assoluta degli Stati Uniti, emergenza di attori come Cina, India o Russia. Ma questo non equivale a un’emancipazione. Nel XX secolo, anche in mezzo a guerre e contraddizioni, la speranza comunista offriva una narrazione di futuro, una bussola collettiva. Oggi il multipolarismo appare più come un negoziato tra potenze che come un progetto per l’umanità. Detto questo, ai margini, nei movimenti sociali del Sud del mondo, nelle resistenze femministe, indigene ed ecologiste, si insinua un’altra logica: quella di una vita che non si misura in base al profitto, ma alla cura. È qui che risiede, ancora in nuce, una prospettiva di speranza. Parliamo della crisi dell’Europa, a partire da quella del sistema politico francese, ora immerso in una nuova e probabile caduta del governo. Qual è la sua analisi delle forze in gioco e delle possibili soluzioni? La Francia incarna, in modo particolarmente evidente, la crisi politica europea. La V Repubblica, progettata per garantire stabilità, è diventata un regime bloccato, incapace di produrre legittimità. Macron governa con arroganza tecnocratica, ma anche con un vuoto di progetto: non parla alla società, ma ai mercati e a Bruxelles. Questa disconnessione spiega la rabbia sociale, la frammentazione della sinistra e l’ascesa dell’estrema destra. L’Europa vive in Francia il suo specchio rotto: istituzioni che non rappresentano più, popoli che non si sentono ascoltati, società che cercano soluzioni nella protesta o nel voto di protesta. La vera soluzione richiederebbe una rifondazione democratica dal basso, ma quell’orizzonte non riesce ancora a organizzarsi politicamente. La Francia è il motore del riarmo europeo, il paese che porta avanti il maggior numero di progetti finanziati dal Fondo Europeo di Difesa (FED), e l’Italia di Giorgia Meloni sta seguendo la stessa strada, la Germania si sta riarmando, e i paesi baltici non sono da meno. L’Unione Europea può essere solo quella del complesso militare-industriale, eternamente subalterna agli Stati Uniti? E quali conseguenze può avere nel quadro dei conflitti attuali? Il riarmo europeo è il sintomo più evidente della subordinazione del continente agli interessi strategici degli Stati Uniti. Francia, Germania, Italia o i paesi baltici non si stanno riarmando per difendere un proprio progetto, ma per rafforzare il complesso militare-industriale sotto la tutela della NATO. L’Europa investe in armi ciò che nega alla coesione sociale, all’istruzione o alla transizione ecologica. Questo squilibrio rivela una scelta storica: essere un campo di scontro e non un attore di pace. Con ciò, l’Europa non solo si militarizza, ma diventa anche irrilevante come progetto di civiltà. Abdicando a una politica estera autonoma, rinuncia alla sua possibilità di offrire al mondo un’altra razionalità che non sia quella della guerra. La crisi delle democrazie occidentali sta mostrando due fenomeni in crescita: il disincanto dell’elettorato (soprattutto di sinistra) e l’aumento dei partiti xenofobi e di estrema destra, apparentemente i meno inclini a usare le “maniere forti” a livello geopolitico. Come si è arrivati a questo cortocircuito e come si esce da una trappola del genere? Il cortocircuito delle democrazie occidentali ha radici profonde. Per decenni, la socialdemocrazia e buona parte della sinistra hanno accettato il neoliberismo come quadro inevitabile. In quel momento si è consumato il tradimento: milioni di lavoratori, di giovani, di settori popolari si sono sentiti privati di una reale rappresentanza. L’estrema destra si è quindi insediata come l’unico discorso di rottura, offrendo identità chiuse, sovranità fittizie e sicurezze illusorie. È una narrazione povera ed escludente, ma si collega al dolore sociale di coloro che hanno visto i loro diritti spazzati via. La via d’uscita non può consistere nell’imitare questa narrazione, ma nel ricostruire un orizzonte di emancipazione: ridistribuzione radicale della ricchezza, democrazia partecipativa, internazionalismo, giustizia sociale ed ecologica. In altre parole, restituire alla politica la capacità di dare un nome al futuro. Mentre si sfilaccia la possibilità di un’alternativa anticapitalista, o di una democrazia avanzata (quello che è stato chiamato “il rinascimento latinoamericano” dopo la vittoria di Chávez alle presidenziali in Venezuela), si intravede la minaccia di una nuova internazionale fascista, con varie modulazioni. Il “modello” europeo si sta imponendo anche in America Latina? Il ciclo progressista latinoamericano, che alcuni hanno chiamato “rinascimento” dopo la vittoria di Chávez nel 1998, ha aperto un orizzonte inaspettato in mezzo al dominio neoliberista: la possibilità di una democrazia avanzata, popolare, inclusiva, con sovranità e giustizia sociale. Tuttavia, questo slancio iniziale ha trovato rapidamente limiti e resistenze: sabotaggio economico, colpi di stato soft, guerra mediatica e anche le contraddizioni interne dei processi stessi. In questo vuoto riemerge un pericolo che credevamo debellato: un’internazionale fascista con molteplici volti – religiosi, neoliberisti, militaristi – che opera in rete e con una forte ispirazione europea. L’America Latina, che tante volte è stata laboratorio di emancipazione, corre il rischio di esserlo anche di nuove forme di autoritarismo. La battaglia attuale è quella di impedire che questa razionalità escludente si imponga come norma e di recuperare l’audacia di immaginare un progetto storico proprio. Che analisi fa del “laboratorio Venezuela” alla luce dei nuovi attacchi imperialisti alla rivoluzione bolivariana, ma anche dal punto di vista delle forze di trasformazione? Come si inserisce questo “esperimento” nella storia del marxismo? Il Venezuela continua a essere il grande laboratorio politico della nostra epoca. Lì si sta cercando di fare qualcosa che il sistema globale non tollera: combinare democrazia partecipativa, sovranità nazionale e ridistribuzione sociale sotto un orizzonte socialista. Per questo le aggressioni non si fermano: blocco, sanzioni, asfissia economica, campagne di delegittimazione. Ma anche lì si sono viste le forme più creative di resistenza popolare: le comuni, l’autogestione, l’idea di un potere dal basso. Nella storia del marxismo, l’esperienza bolivariana rappresenta un tentativo di attualizzazione: non ripetere dogmi, ma innestare la tradizione emancipatrice nelle realtà latinoamericane, con Bolívar, con Chávez, con i popoli indigeni e con la memoria insorgente del continente. È un processo incompiuto e pieno di tensioni, ma è anche la prova che il marxismo non è morto: muta, si reincarna, cerca nuove sintesi. Gli apparati ideologici di controllo sono sempre più sofisticati. Alla guerra di IV e V generazione, si accompagna la guerra cognitiva, come vediamo con il genocidio in Palestina – il genocidio più teletrasmesso e al tempo stesso il più nascosto – ma anche con l’aggressione al Venezuela. Eppure, vediamo anche che, con l’arrivo di Trump, l’attacco ai settori popolari e alle visioni che li hanno voluti rappresentare nel secolo scorso (il socialismo e il comunismo) è diretto e frontale. Come dobbiamo interpretare tutto questo? Viviamo in un’epoca in cui la dominazione non si esercita più solo con armi ed eserciti, ma con narrazioni e dispositivi di controllo mentale. La guerra di quarta e quinta generazione, la cosiddetta “guerra cognitiva”, consiste nel modellare le percezioni, fabbricare consensi, naturalizzare le ingiustizie. La Palestina è il caso più brutale: un genocidio trasmesso in diretta e, al tempo stesso, nascosto sotto strati di manipolazione mediatica. Lo stesso accade con il Venezuela e con ogni processo che sfida l’ordine imperiale. Il trumpismo e fenomeni simili in altre latitudini non fanno che mettere a nudo questa logica: l’attacco frontale ai settori popolari e alle memorie di emancipazione (il socialismo, il comunismo, le lotte operaie, femministe o anticoloniali). L’obiettivo è estirpare l’idea stessa di alternativa. Il nostro compito è esattamente il contrario: preservare la memoria, sostenere le resistenze e mantenere viva l’immaginazione politica di un altro mondo possibile. A 100 anni dalla nascita di Fanon, di Malcolm X e di Lumumba, il Sud del mondo, la Palestina e l’Africa in particolare (penso soprattutto al Sahel) hanno ancora bisogno del loro messaggio? Ha ragione il socialismo bolivariano a puntare sulla possibilità di costruire oggi l’uomo e la donna nuovi senza distruggere ciò che lo impedisce? O bisogna tornare al machete? A un secolo dalla nascita di Franz Fanon, Malcolm X e Lumumba, il loro messaggio è ancora essenziale. Fanon ci ha insegnato che la colonizzazione non occupa solo territori, ma anche coscienze, e che la liberazione deve essere materiale e psicologica allo stesso tempo. Malcolm ha incarnato la dignità radicale contro il razzismo strutturale. Lumumba ha simboleggiato la sovranità africana in un mondo diviso in blocchi. Oggi, in Palestina, in Africa e nel Sud del mondo, queste lezioni sono vitali: senza emancipazione culturale, non c’è emancipazione politica. Il socialismo bolivariano, parlando dell'”uomo e della donna nuovi”, riprende questa tradizione: quella di trasformare l’essere umano nel processo stesso della lotta, non dopo. Non si tratta di “tornare al machete” come pura violenza, ma di riconoscere che nessun progetto emancipatorio può fiorire senza smantellare i dispositivi di oppressione che lo soffocano. La sfida rimane la stessa: liberare l’essere umano nella sua totalità.   Geraldina Colotti