ESONDARE
di SANDRO MEZZADRA
Esondazione, rottura degli argini: queste espressioni, che nel loro significato
letterale annunciano distruzione, ben si prestano a catturare quello che abbiamo
vissuto nelle quattro memorabili giornate di mobilitazione permanente dal
momento in cui la Global Sumud Flotilla è stata bloccata in acque internazionali
dalla marina militare di uno Stato genocida. Gioia e rabbia si sono combinate in
proporzioni variabili in tutto il Paese, mentre una nuova composizione sociale
prendeva le strade, bloccava porti, stazioni, autostrade. Una soglia è stata
varcata, mentre l’Italia è tornata a dettare il ritmo della mobilitazione in
Europa – da Berlino ad Amsterdam, da Madrid a Lisbona.
“Volevamo liberare la Palestina”, si è letto su un cartello a Roma, “la
Palestina ha liberato noi”. È certo che in questi giorni una moltitudine di
ragazzi e ragazze, di donne e uomini ha visto nel genocidio di Gaza l’immagine
riflessa dell’ingiustizia che in modi diversi domina il mondo in cui viviamo – e
nella liberazione della Palestina il nuovo orizzonte di una lotta più generale,
da articolare in ogni luogo in cui si vive, si lavora e si soffre. È una prima
indicazione su come proseguire nei prossimi giorni la mobilitazione: occorre
dare una prospettiva di distensione temporale al movimento di questi giorni, e
questo è possibile soltanto coniugando la solidarietà con Gaza con un più
generale radicamento nel quotidiano dell’iniziativa politica.
E però non dimentichiamo che Gaza e la Palestina, pur nel loro potente farsi
“globali”, continuano a essere luoghi ben precisi, in cui il genocidio non si
ferma e la devastazione supera in intensità quella determinata da qualsiasi
fiume sia mai esondato nella storia. Si calcola che, se ogni giorno uscissero da
Gaza cento camion, le macerie non verrebbero sgombrate prima del 2050: tale è la
violenza dell’urbicidio, della distruzione sistematica non solo delle vite ma
anche delle condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita. Chi
parla di “pace”, riferendosi al “piano Trump”, ha forse in mente le parole di
Tacito: hanno fatto il deserto e lo chiamano pace.
Nel momento in cui Hamas accetta lo scambio di ostaggi e prigionieri e pare che
si riaprano i negoziati, è bene comunque chiarire che cosa è il “piano Trump”.
L’indeterminatezza lo caratterizza a pieno vantaggio di Israele, su punti
cruciali come il ritiro dell’esercito e il “disarmo di Hamas”. Le operazioni
militari delle IDF possono riprendere in ogni momento (e infatti, subito dopo
l’invito di Trump a sospenderle, sono continuati i bombardamenti aerei e di
artiglieria e almeno undici palestinesi sono stati uccisi al momento in cui
scrivo). Nulla si dice poi, nel piano, sulla Cisgiordania, dove la penetrazione
dei coloni ha da tempo spezzato l’unità del territorio spingendo la popolazione
palestinese in aree accerchiate che prefigurano veri e propri bantustan secondo
la logica dell’apartheid. L’autodeterminazione palestinese viene così
efficacemente cancellata dal novero delle possibilità.
L’impronta coloniale del “piano Trump” è del resto cristallina, con la
riproposizione della logica del “mandato” che istituì nel 1920 il controllo
britannico sulla Palestina. Riproposizione, sì, ma anche aggiornamento: il
“comitato tecnocratico e apolitico palestinese” a cui si intende assegnare “la
gestione quotidiana dei servizi pubblici e delle municipalità per il popolo di
Gaza” dovrebbe operare sotto “la vigilanza e la supervisione” di un Board of
Peace, presieduto dallo stesso Trump e con il coordinamento esecutivo di Tony
Blair. Di quest’ultimo ricordiamo le certificate menzogne per giustificare la
guerra in Iraq, ma anche l’attivismo degli ultimi anni come consulente di
diversi governi del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti). Ed è proprio il
modello del Golfo che il “piano Trump” sembra prospettare per Gaza, una “zona
economica speciale” con copiosi investimenti di capitali provenienti da
quell’area e non solo.
Non mancano gli ostacoli a questo piano (che prevederebbe tra l’altro la
normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita). Qui mi limito a
mettere in evidenza la pretesa di “risolvere” il conflitto israelo-palestinese
con una logica puramente di business, attraverso la semplice negazione
dell’esistenza di una “questione palestinese” e la proposta per i gazawi – fatta
eccezione per i pochi “tecnocrati” – dell’alternativa tra condizione servile ed
esilio. Intervistato da Al Jazeera, Norman Finkelstein ha ricordato che fin dai
tempi di Jimmy Carter quasi ogni Presidente statunitense ha presentato un piano
per “la pace in Medio Oriente”: quello di Trump è il primo che non cita nessuna
risoluzione delle Nazioni Unite, nessun accordo internazionale, muovendosi
appunto in modo esclusivo sul piano del business – del movimento e della
valorizzazione del capitale.
Si può vedere in questo un momento della più generale congiuntura di guerra in
cui stiamo vivendo, dove la riorganizzazione degli spazi economici è una posta
in gioco cruciale. Ma per quel che riguarda il movimento che ha dato vita alle
quattro memorabili giornate appena trascorse, i compiti dovrebbero essere
piuttosto chiari, anche se tutt’altro che facili da tradurre in pratica: la
lotta contro il genocidio, per la Palestina libera, deve approfondirsi e andare
al di là delle grandi manifestazioni che restano comunque necessarie. Mentre il
cessate il fuoco è un obiettivo che deve essere perseguito con ogni mezzo
necessario, sabotare il “piano Trump” e aprire una prospettiva di vera pace
significa denunciare e boicottare le mille forme di complicità con la macchina
di morte di Israele che esistono in Italia e in Europa. È un appello
all’intelligenza collettiva, al lavoro di inchiesta e alla capacità di
intervenire in modi efficaci.
Pur travolti dall’esondazione del movimento la scorsa settimana, siamo
consapevoli della disparità delle forze in campo, tanto a livello interno quanto
a livello internazionale; conosciamo le difficoltà che sempre si incontrano
quando l’esplosione di un movimento di massa deve essere tradotta in una forza
politica capace di durare nel tempo; e sappiamo bene soprattutto che la partita
non si gioca certo soltanto sul piano italiano. Ma quel che è successo qui – tra
l’altro, due scioperi generali politici in dieci giorni – può certo funzionare
come indicazione generale, in Europa come altrove. Se il movimento continuerà a
esondare, uscendo dai confini nazionali, anche la disparità delle forze
comincerà a essere messa in discussione.
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