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ESONDARE
di SANDRO MEZZADRA Esondazione, rottura degli argini: queste espressioni, che nel loro significato letterale annunciano distruzione, ben si prestano a catturare quello che abbiamo vissuto nelle quattro memorabili giornate di mobilitazione permanente dal momento in cui la Global Sumud Flotilla è stata bloccata in acque internazionali dalla marina militare di uno Stato genocida. Gioia e rabbia si sono combinate in proporzioni variabili in tutto il Paese, mentre una nuova composizione sociale prendeva le strade, bloccava porti, stazioni, autostrade. Una soglia è stata varcata, mentre l’Italia è tornata a dettare il ritmo della mobilitazione in Europa – da Berlino ad Amsterdam, da Madrid a Lisbona. “Volevamo liberare la Palestina”, si è letto su un cartello a Roma, “la Palestina ha liberato noi”. È certo che in questi giorni una moltitudine di ragazzi e ragazze, di donne e uomini ha visto nel genocidio di Gaza l’immagine riflessa dell’ingiustizia che in modi diversi domina il mondo in cui viviamo – e nella liberazione della Palestina il nuovo orizzonte di una lotta più generale, da articolare in ogni luogo in cui si vive, si lavora e si soffre. È una prima indicazione su come proseguire nei prossimi giorni la mobilitazione: occorre dare una prospettiva di distensione temporale al movimento di questi giorni, e questo è possibile soltanto coniugando la solidarietà con Gaza con un più generale radicamento nel quotidiano dell’iniziativa politica. E però non dimentichiamo che Gaza e la Palestina, pur nel loro potente farsi “globali”, continuano a essere luoghi ben precisi, in cui il genocidio non si ferma e la devastazione supera in intensità quella determinata da qualsiasi fiume sia mai esondato nella storia. Si calcola che, se ogni giorno uscissero da Gaza cento camion, le macerie non verrebbero sgombrate prima del 2050: tale è la violenza dell’urbicidio, della distruzione sistematica non solo delle vite ma anche delle condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita. Chi parla di “pace”, riferendosi al “piano Trump”, ha forse in mente le parole di Tacito: hanno fatto il deserto e lo chiamano pace. Nel momento in cui Hamas accetta lo scambio di ostaggi e prigionieri e pare che si riaprano i negoziati, è bene comunque chiarire che cosa è il “piano Trump”. L’indeterminatezza lo caratterizza a pieno vantaggio di Israele, su punti cruciali come il ritiro dell’esercito e il “disarmo di Hamas”. Le operazioni militari delle IDF possono riprendere in ogni momento (e infatti, subito dopo l’invito di Trump a sospenderle, sono continuati i bombardamenti aerei e di artiglieria e almeno undici palestinesi sono stati uccisi al momento in cui scrivo). Nulla si dice poi, nel piano, sulla Cisgiordania, dove la penetrazione dei coloni ha da tempo spezzato l’unità del territorio spingendo la popolazione palestinese in aree accerchiate che prefigurano veri e propri bantustan secondo la logica dell’apartheid. L’autodeterminazione palestinese viene così efficacemente cancellata dal novero delle possibilità. L’impronta coloniale del “piano Trump” è del resto cristallina, con la riproposizione della logica del “mandato” che istituì nel 1920 il controllo britannico sulla Palestina. Riproposizione, sì, ma anche aggiornamento: il “comitato tecnocratico e apolitico palestinese” a cui si intende assegnare “la gestione quotidiana dei servizi pubblici e delle municipalità per il popolo di Gaza” dovrebbe operare sotto “la vigilanza e la supervisione” di un Board of Peace, presieduto dallo stesso Trump e con il coordinamento esecutivo di Tony Blair. Di quest’ultimo ricordiamo le certificate menzogne per giustificare la guerra in Iraq, ma anche l’attivismo degli ultimi anni come consulente di diversi governi del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti). Ed è proprio il modello del Golfo che il “piano Trump” sembra prospettare per Gaza, una “zona economica speciale” con copiosi investimenti di capitali provenienti da quell’area e non solo. Non mancano gli ostacoli a questo piano (che prevederebbe tra l’altro la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita). Qui mi limito a mettere in evidenza la pretesa di “risolvere” il conflitto israelo-palestinese con una logica puramente di business, attraverso la semplice negazione dell’esistenza di una “questione palestinese” e la proposta per i gazawi – fatta eccezione per i pochi “tecnocrati” – dell’alternativa tra condizione servile ed esilio. Intervistato da Al Jazeera, Norman Finkelstein ha ricordato che fin dai tempi di Jimmy Carter quasi ogni Presidente statunitense ha presentato un piano per “la pace in Medio Oriente”: quello di Trump è il primo che non cita nessuna risoluzione delle Nazioni Unite, nessun accordo internazionale, muovendosi appunto in modo esclusivo sul piano del business – del movimento e della valorizzazione del capitale. Si può vedere in questo un momento della più generale congiuntura di guerra in cui stiamo vivendo, dove la riorganizzazione degli spazi economici è una posta in gioco cruciale. Ma per quel che riguarda il movimento che ha dato vita alle quattro memorabili giornate appena trascorse, i compiti dovrebbero essere piuttosto chiari, anche se tutt’altro che facili da tradurre in pratica: la lotta contro il genocidio, per la Palestina libera, deve approfondirsi e andare al di là delle grandi manifestazioni che restano comunque necessarie. Mentre il cessate il fuoco è un obiettivo che deve essere perseguito con ogni mezzo necessario, sabotare il “piano Trump” e aprire una prospettiva di vera pace significa denunciare e boicottare le mille forme di complicità con la macchina di morte di Israele che esistono in Italia e in Europa. È un appello all’intelligenza collettiva, al lavoro di inchiesta e alla capacità di intervenire in modi efficaci. Pur travolti dall’esondazione del movimento la scorsa settimana, siamo consapevoli della disparità delle forze in campo, tanto a livello interno quanto a livello internazionale; conosciamo le difficoltà che sempre si incontrano quando l’esplosione di un movimento di massa deve essere tradotta in una forza politica capace di durare nel tempo; e sappiamo bene soprattutto che la partita non si gioca certo soltanto sul piano italiano. Ma quel che è successo qui – tra l’altro, due scioperi generali politici in dieci giorni – può certo funzionare come indicazione generale, in Europa come altrove. Se il movimento continuerà a esondare, uscendo dai confini nazionali, anche la disparità delle forze comincerà a essere messa in discussione. L'articolo ESONDARE proviene da EuroNomade.
Quello che unisce
di COLLETTIVO EURONOMADE Lo sciopero generale del 22 settembre e le manifestazioni dei giorni successivi segnano un prima e un poi nel processo “né orizzontale né verticale” attraverso cui in tre anni di opposizione alla guerra e al colonialismo, e ai loro correlati – dal patriarcato alle politiche securitarie, in primo luogo – si è andata strutturando una moltitudine ribelle allo status quo e alle derive neo-reazionarie che si sono manifestate negli ultimi anni. Passo dopo passo, assemblea dopo assemblea, manifestazione dopo manifestazione, l’andamento, inizialmente carsico, di una nuova opposizione sociale ha rotto la crosta della superficie ed è emersa in tutta la sua potenza e autonomia, senza leader, padrini politici o sindacali, senza bisogno di padri saccenti afflitti dalla sindrome del colonnello Buendía che, dall’alto delle loro 32 rivoluzioni perdute, pretendono di spiegare ai palestinesi (e a cascata a studentesse e studenti, ecc.) come si fa ad essere palestinesi.  È probabile che dalle redazioni giornalistiche o dalle sedi politiche la visione di questa marea che ha calpestato le strade e bloccato quasi ovunque strade, porti e stazioni appaia distorta, corrispondente ai propri desiderata e alle proprie pre-cognizioni; è certo che dall’interno delle piazze e dei cortei l’unione inedita tra componente migrante, studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici, ma anche nuclei famigliari, non ha fatto rimpiangere gli assenti. Certo è che quella composizione eterogenea delle piazze ha dettato una linea di opposizione senza sé e senza ma al genocidio e al colonialismo. Alcune considerazioni, in attesa delle prossime scadenze. La parola “genocidio”, che non è “stata sdoganata”, ma si è imposta nella coscienza collettiva, è l’esito di una guerra all’omertà (per dirla con Demetrio Stratos) che è stata combattuta in tutti i luoghi in cui è ancora possibile praticare il discorso pubblico, e infine vinta. A chi ironizza su una “sinistra che si fa guidare da Francesca Albanese”, si può rispondere (avendone tempo e voglia) che il diritto internazionale umanitario è oggi, nel regime di policrisi che attraversiamo, una chiave di lettura del reale ben più utile dei facilitatori lacaniani e delle loro schematizzazioni da bignami. E che – dal momento che non basta avere ragione: bisogna che la ragione te la diano – le norme e i linguaggi che si addensano nel diritto internazionale sono stati imposti dal basso: ciò che un tempo si sarebbe detta egemonia. In secondo luogo, la molteplicità dei foulard delle ragazze musulmane all’interno delle manifestazioni del 22 settembre, con quanto di allegro e gioioso può esserci nella policromia di una piazza che si oppone eticamente al crimine dei crimini praticato in diretta televisiva, è la migliore risposta all’infamia di chi ha gettato liquame su Hind Rajab sostenendo che se la bambina palestinese fosse sopravissuta sarebbe stata rinchiusa in un burqa. E ancora: le manifestazioni del 22 si sono incrociate, con un reciproco rilancio in avanti, con la pratica di disobbedienza civile della Global Sumud Flotilla. Una pratica, quella della Flotilla, che coniuga l’attivismo politico con la vigenza del diritto internazionale e dei diritti umani – il diritto di navigare in sicurezza in acque internazionali – che i governi degli stati nei fatti negano quotidianamente, salvo poi brandire diritto legalità e sicurezza ad ogni pretestuosa occasione, in maniera puramente strumentale. Ma come ci ricorda l’appello di Luca Casarini e don Ciotti, “le acque del nostro Mediterraneo non possono essere zona franca per eserciti armati fino ai denti che agiscono indisturbati in aperta violazione di ogni legge”. All’interno di questo movimento, senza cercare né riconoscere altra leadership se non quella che viene dall’interno delle piazze e delle strade, bisogna moltiplicare le istituzioni della democrazia reale, gli incontri, gli spazi per far circolare parole d’ordine e conoscenze – sempre ricordando che il sapere non è fatto per conoscere, ma per prendere posizione: contro la guerra, contro il genocidio, contro la necroeconomia del genocidio, contro il colonialismo. E per elaborare quella critica complessiva al regime di guerra globale, all’autoritarismo e al nazionalismo, che la crisi mondiale rende sempre più urgente, e che finora i movimenti sono riusciti solo ad evocare, più che ad articolare collettivamente. Le manifestazioni che stanno segnando questa fine di settembre indicano la possibilità – e l’espressione – della riscoperta di quello che unisce. Il paese si blocca non per vertenze strettamente interne e territoriali ma perché unito alla popolazione di Gaza, seguendo le onde di un Mediterraneo solcato dalla Flotilla, un mare che ancora una volta unisce invece che dividere. Il blocco delle armi da parte dei portuali ci ricorda poi ancora una volta come l’economia di guerra ci tenga in costellazione, dalle Università e i Politecnici con i loro accordi con Leonardo, all’import export delle munizioni passando per il piano di distruzione di Gaza per rimpiazzarla con un nuovo snodo centrale della logistica. Ancora una volta sono la solidarietà dal basso, la mobilitazione della società civile e l’organizzazione politica di movimento a prendere lo slancio e a rispondere alla violenza, in questo caso genocidaria, di un governo criminale, il cui capo si presenta all’ONU impunito – nonostante i mandati di arresto, forte del fatto che Israele e USA non hanno mai ratificato lo Statuto di Roma, e quindi non sono obbligati a cooperare con la Corte Penale Internazionale. Noi crediamo che questo movimento sia guidato dalla speranza, intesa non come quella passione triste che consiste nell’attesa passiva degli eventi, ma in quella che si concretizza nella pratica attiva per cambiare il mondo: da ogni fiume a ogni mare, per una vita degna di essere vissuta. Foto di copertina di Maryuri González Acosta. L'articolo Quello che unisce proviene da EuroNomade.
Trump e noi. Resistere ad autoritarismo e regime di guerra
di SANDRO MEZZADRA. Muoversi all’interno delle rovine di un sistema non è agevole. Il fatto è che oggi in rovina non è soltanto il sistema internazionale, l’ordine che si presentava come “basato sulle regole”. Al contrario, si può assumere quella rovina come vertice prospettico per analizzare il disfacimento di una molteplicità di sistemi, che certo non dovevano essere particolarmente in salute. All’ombra del genocidio di Gaza, una regione cruciale per gli equilibri mondiali, il Medio Oriente, sembra aver perso ogni principio di ordine. Staccata dagli Stati Uniti, se non per la camicia di forza della NATO, l’Europa appare consegnata all’irrilevanza sotto il profilo della politica mondiale, irrigidita al suo interno dalla paura del declino e della stagnazione economica e amputata del suo “modello sociale”. L’ambizione europea a essere “forza di pace” si sgretola di fronte all’opzione per il riarmo e per la militarizzazione dell’economia, della politica e della società. Nel tempo di Trump, poi, la stessa democrazia liberale – ancora contrapposta all’“autocrazia” all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina – impallidisce e si svuota di determinazioni materiali. Lo spettacolo della forza sembra essere dominante – si tratti di dazi, sottomarini nucleari, o rambo mascherati a caccia di migranti per le strade di Los Angeles. Anche dall’Alaska, poi, la logica che viene proiettata sul mondo è quella imperiale della politica di potenza come criterio dominante nelle relazioni internazionali. Proprio i dazi, del resto, ci mostrano che la situazione è ben lungi dall’essere stabile – che al contrario l’uso ricattatorio di questo strumento ha l’obiettivo di produrre una serie di shock successivi che puntano a ridefinire le geografie e il regime di accumulazione del capitalismo statunitense e globale. Basti pensare all’“accordo” con l’Unione europea, che ha come corollario l’impegno a investimenti europei, in particolare in campo energetico, che, come ha dimostrato ad esempio Paul Krugman, sono da diversi punti di vista non solo irrealistici, ma impossibili. Quando una clausola di questo genere viene inserita in un “accordo”, è evidente che si prepara il terreno per ulteriori forzature e ricatti. Instabili e provvisori appaiono molti degli accordi sui dazi siglati nelle ultime settimane, senza contare che è continuamente necessario adeguarli al fatto che le importazioni non riguardano solo beni di consumo ma anche le catene di fornitura di componentistica vitale per il residuo settore manifatturiero negli Stati Uniti. È bene resistere alla tentazione di leggere nei dazi e nelle guerre commerciali l’ennesima fine della “globalizzazione” e guardare piuttosto a questa costitutiva instabilità delle politiche dell’amministrazione Trump come allo strumento attraverso cui si mira a scuotere i rapporti commerciali all’interno del mercato mondiale per ritagliare condizioni più favorevoli per il capitale statunitense. È comunque una trasformazione radicale rispetto agli ultimi decenni, in primo luogo perché le politiche di Trump – puntando a drenare risorse da tutto il mondo per affrontare l’insostenibile debito degli Stati Uniti e dunque rallentarne la crisi egemonica – determinano una accentuata nazionalizzazione del capitale statunitense, che corre parallela ai processi di concentrazione accelerati negli anni della pandemia da Covid-19. E se queste stesse politiche determinano un indebolimento del dollaro, minacciando quello che è stato in questi anni il principale strumento di gestione del debito, il Genius Act (la legge sulle criptovalute e sulle stablecoin) ha esattamente la funzione di controbilanciare quell’indebolimento. La politica dei dazi di Trump si innesta all’interno di un quadro mondiale da tempo percorso da tendenze protezionistiche e da accentuata competizione in particolare nel settore delle tecnologie digitali e dei minerali più o meno “critici” necessari per il loro sviluppo. E tuttavia, all’interno di questo quadro quella politica introduce un tasso di nazionalismo “economico” senza precedenti negli ultimi anni, secondo una logica che non può che essere al tempo stesso di nazionalismo politico. Oggettivamente, la combinazione di concentrazione di capitali e territorializzazione (per quanto ovviamente in parte solo retorica, ma questo significa “nazionalizzazione” del capitale statunitense) ripropone un elemento centrale analizzato dai teorici dell’imperialismo all’inizio del Novecento. E mentre il nazionalismo si diffonde ulteriormente, ben al di là degli Stati Uniti, la congiuntura che stiamo vivendo appare destinata a facilitare un’ulteriore proliferazione di guerre e regimi di guerra. La “militarizzazione di Silicon Valley” di cui ha parlato il New York Times qualche giorno fa (4 agosto), ovvero la torsione in chiave bellica dello sviluppo di tecnologie digitali, piattaforme e Intelligenza artificiale, è al tempo stesso un sintomo e un acceleratore di questa tendenza. Si tratta di un primo tentativo di analisi, necessariamente provvisorio e consapevole del fatto che la situazione è in costante mutamento. Quello che molti cominciano a chiamare il Trump shock, in analogia con il Volcker shock del 1979 (il violento rialzo dei tassi di interesse da parte del Presidente della Federal Reserve che per molti versi diede avvio all’epoca neoliberale), è in ogni caso destinato a ridisegnare violentemente le geografie e le logiche del capitalismo mondiale, e in particolare i rapporti tra capitale e lavoro. Mi sembra quindi necessario, sulla base di questi primi elementi di analisi, insistere su alcuni dei limiti fondamentali che la politica di Trump incontra e indicare alcune delle sfide politiche più rilevanti di fronte a cui ci troviamo nella nuova congiuntura. Sotto il profilo dei rapporti globali, è evidente che il limite fondamentale è rappresentato dalla Cina, non solo per la forza economica (e in prospettiva politica) di quest’ultima ma anche per la persistente interdipendenza tra l’economia statunitense e quella cinese. Se si prendono i due Paesi che Trump ha sanzionato con dazi “politici” – il Brasile (per l’incriminazione di Bolsonaro) e l’India (per l’acquisto di petrolio russo) – si può immaginare un asse con la Cina (certo più facile con il Brasile che con l’India) nella cornice dei BRICS e di una organizzazione internazionale come la SCO (“Shanghai Cooperation Organization”). Non si tratta qui di riproporre un’immagine edulcorata del “Sud globale” come “polo” o “blocco” alternativo all’Occidente, ma piuttosto di richiamare un quadro realistico dei cambiamenti profondi che si sono ormai determinati nella distribuzione della ricchezza e del potere a livello mondiale. E da questo punto di vista, per riprendere un punto menzionato in precedenza, i processi e i progetti di de-dollarizzazione sono senz’altro cruciali. Anche all’interno degli Stati Uniti, del resto, la politica di Trump sta già incontrando dei limiti. Come sul piano internazionale lo spettacolo dei dazi (si pensi al “Liberation day”) ha contribuito a ingigantire l’impressione della forza statunitense, anche sul piano interno lo spettacolo della forza (le deportazioni, l’ICE, Alligator Alcatraz, la guardia nazionale a Los Angeles e Washington) ha prodotto un analogo effetto. Ma la resistenza è cresciuta in queste settimane, e resta da capire come saprà collegarsi ai processi di impoverimento di massa annunciati dalla “Big Beautiful Bill” in materia fiscale e di spesa. Difficilmente la re-industrializzazione del Paese, che Trump immagina comunque collegata a un attacco radicale alle pratiche di libertà innervate all’interno dei territori metropolitani, potrà offrire la prospettiva di un futuro per cui valga la pena vivere e lottare. È anzi la rappresentazione più evidente della miseria che caratterizza oggi l’“orizzonte di aspettativa” di nazionalismo e autoritarismo – non certo solo nella terra di Trump. Non è forse così importante, almeno qui, definire la peculiarità di questa forma di nazionalismo e di autoritarismo, intervenendo nel vivace dibattito internazionale attorno a categorie come fascismo e neoliberalismo. Certo, l’orizzonte “promissorio” di quest’ultimo appare definitivamente esaurito (con poche eccezioni, come ad esempio l’Argentina di Milei). Dinamiche di “fascistizzazione” sono comunque in atto in molte parti del mondo, e si combinano in vari modi (da analizzare nei diversi contesti) con la persistenza di politiche neoliberali. I processi di concentrazione del capitale su base nazionale che si sono descritti a proposito degli Stati Uniti – e che si irradiano secondo una geometria variabile – costituiscono la base materiale di queste forme di ibridazione. E diffondono nel pianeta una “violenza atmosferica”, per riprendere un’immagine di Fanon, presaga di guerra. Lottare contro autoritarismo e nazionalismo non può che essere oggi anche per noi una priorità. E questa lotta non può che essere contro la guerra, contro la proliferazione di regimi di guerra che dell’autoritarismo e del nazionalismo costituiscono la cifra d’insieme. Trump mostra bene come il regime di guerra si indirizzi contro i movimenti femministi, nella prospettiva di un violento riallineamento patriarcale dei rapporti tra i generi; contro i movimenti ecologisti, considerato che le energie fossili sono al centro della macchina militare statunitense che i Paesi europei sono chiamati ad alimentare; contro i migranti, sfruttati o deportati nei modi più violenti; contro i poveri, espulsi dai centri urbani. Si potrebbe continuare: ed è evidente come tutto questo abbia precise corrispondenze in Italia, in un Paese governato da un Trump in sedicesimo. Qui, come negli Stati Uniti, su ciascuno di questi terreni (e su molti altri), ci sono resistenze e lotte di fondamentale importanza. Ma la mobilitazione contro la guerra – e per fermare il genocidio a Gaza – può e deve essere un’occasione di convergenza, per moltiplicare la forza di queste resistenze e di queste lotte e per intervenire su una congiuntura mondiale che è già asfissiante per tutte e tutti noi. Si tratta di organizzare questa mobilitazione, con il necessario senso di urgenza. L'articolo Trump e noi. Resistere ad autoritarismo e regime di guerra proviene da EuroNomade.
Teiko, numero Zero
Presentiamo Teiko, una rivista nata nell’orbita dei seminari di EuroNomade. Il numero Zero è consultabile qui. «Una bussola per orientarsi nel caos sistemico del presente: questa è l’ambizione di Teiko, che fin dal nome (un sostantivo giapponese traducibile con resistenza, uguale sia al femminile che al maschile) dichiara la propria intenzione di pensare nuove militanze. Connettere voci e prospettive, dall’Italia ma guardando fin dall’inizio al mondo; costruire una cartografia del dominio e delle lotte e interpretarla politicamente; rilanciare lo sguardo dell’operaismo rivoluzionario coniugandolo e contaminandolo con altre tradizioni: sono queste alcune delle linee di ricerca che Teiko, con cadenza semestrale, cercherà di seguire.» L'articolo Teiko, numero Zero proviene da EuroNomade.
Netanyahu il leone
Di Collettivo EuroNomade L’operazione “Rising Lion”: è un nome perfetto per quello che sta succedendo, e descrive bene l’intero senso della strategia di Netanyahu: sentitosi smascherato davanti al mondo, si solleva da questa verità, ormai sotto gli occhi di tutt-, alzando il livello del conflitto, da vero sovranista, come il leone è il re della savana. La tensione con l’Iran è cosa di lunga data, certo, ma l’attacco missilistico israeliano è partito nel momento in cui la solidarietà globale per la Palestina ha messo all’angolo Netanyahu e la sua politica genocidaria.  È la denuncia della sua violenza che l’ha fatto tremare, è alla potenza della solidarietà che sta rispondendo, è al terrore della verità che sta emergendo da Gaza che deve ribattere, e sceglie di farlo distogliendo l’attenzione, alzando il livello del conflitto, e optando ancora una volta per la violenza – la solita vecchia via di uscita. È tutta una questione di reputazione, la sua e quella dello stato israeliano, e per queste rappresentazioni è disposto a giocarsi il tutto per tutto. Una mossa da leone stanco, ma ancora pericolosissimo, che scarica tutta l’aggressività di cui è in grado, con una zampata che cerca di imporre nuovamente dominio e autorità, giustificandosi a posteriori su potenziali attacchi nucleari iraniani, sovvertendo l’ordine della narrazione, facendo gaslighting, come i peggiori narcisisti.  A farne le spese è, come sempre, la popolazione civile, su entrambi i fronti della guerra. L’aggressione dell’Iran viene raccontata come un attacco preventivo e come un’azione di difesa, una narrazione, questa, che ricorda molti altri conflitti che hanno segnato la storia contemporanea dai primi anni duemila. Come ci ricorda il collettivo Roja, non è questione di prendere le parti dello stato della repubblica islamica, quanto piuttosto essere sempre a fianco delle lotte popolari e  femministe che si danno nel territorio iraniano. Un’indicazione analoga viene dal PJAK: contro ogni uso strumentale di “Jin, Jiyan, Azadi”, quelle parole sono il rinnovato fulcro di una fase rivoluzionaria che, rompendo la logica del regime di guerra, rifiuti tanto gli attacchi israeliani quanto il governo iraniano, mettendo al centro l’autogoverno, la solidarietà e la lotta delle donne. Questo vuol dire riconoscere che, davanti alle pratiche mortifere degli stati, la parte da sostenere e con la quale allearsi è sempre e comunque quella dei movimenti contro la guerra e per la libertà, fuori dalla narrazione dell’esportazione della democrazia occidentale, dalla logica dei blocchi e dalla altrettanto ideologica narrazione del “campismo”. Sullo sfondo, il disegno di un nuovo ordine regionale, a partire dal controllo dell’area su cui dovrebbe passare l’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC) attraverso l’imposizione di un regime di guerra permanente, con Trump che definisce l’attacco israeliano all’Iran come “eccellente”, avvertendo che l’offensiva continuerà, e che le risorse militari israeliane, di fabbricazione statunitense, sono ben più potenti di quelle a disposizione dell’esercito iraniano, fornendo così a Netanyahu una sponda nel distogliere l’attenzione da Gaza per ri-focalizzarla sugli accordi sul nucleare. Ancora una volta, però, non dice una parola su quanto sta succedendo in Palestina, mentre, nel frattempo, Putin si propone come mediatore. In Europa, Macron si dice pronto a difendere Israele, e nulla ha detto dell’eurodeputata Rima Hassan de La France Insoumise, catturata in acque internazionali da Israele mentre era a bordo con Greta Thunberg e Thiago Avila (tra gli altri), né tantomeno si è pronunciato su i tre membri dell’equipaggio, Pascal Maurieras e Yanis Mhamdi (Francia) e Marco van Rennes (Paesi Bassi), ancora detenuti nelle carceri israeliane, Sempre in  Francia, però, sabato 14 giugno, è stata una giornata di mobilitazione contro la guerra e contro il genocidio a Gaza, indetta da La France Insoumise e da CGT, CFDT, Solidaires, UNSA e FSU. Da queste altezze, fondate sulla morte, sulla miseria e sulla violenza, non possiamo che augurarci che cada. Non succederà presto, in questo regime di guerra, non sarà facile, e chissà dopo quanti morti, dopo quanta distruzione, ma prima o poi accadrà. Immagine creata con ChatGPT. L'articolo Netanyahu il leone proviene da EuroNomade.