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Trump e noi. Resistere ad autoritarismo e regime di guerra
di SANDRO MEZZADRA. Muoversi all’interno delle rovine di un sistema non è agevole. Il fatto è che oggi in rovina non è soltanto il sistema internazionale, l’ordine che si presentava come “basato sulle regole”. Al contrario, si può assumere quella rovina come vertice prospettico per analizzare il disfacimento di una molteplicità di sistemi, che certo non dovevano essere particolarmente in salute. All’ombra del genocidio di Gaza, una regione cruciale per gli equilibri mondiali, il Medio Oriente, sembra aver perso ogni principio di ordine. Staccata dagli Stati Uniti, se non per la camicia di forza della NATO, l’Europa appare consegnata all’irrilevanza sotto il profilo della politica mondiale, irrigidita al suo interno dalla paura del declino e della stagnazione economica e amputata del suo “modello sociale”. L’ambizione europea a essere “forza di pace” si sgretola di fronte all’opzione per il riarmo e per la militarizzazione dell’economia, della politica e della società. Nel tempo di Trump, poi, la stessa democrazia liberale – ancora contrapposta all’“autocrazia” all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina – impallidisce e si svuota di determinazioni materiali. Lo spettacolo della forza sembra essere dominante – si tratti di dazi, sottomarini nucleari, o rambo mascherati a caccia di migranti per le strade di Los Angeles. Anche dall’Alaska, poi, la logica che viene proiettata sul mondo è quella imperiale della politica di potenza come criterio dominante nelle relazioni internazionali. Proprio i dazi, del resto, ci mostrano che la situazione è ben lungi dall’essere stabile – che al contrario l’uso ricattatorio di questo strumento ha l’obiettivo di produrre una serie di shock successivi che puntano a ridefinire le geografie e il regime di accumulazione del capitalismo statunitense e globale. Basti pensare all’“accordo” con l’Unione europea, che ha come corollario l’impegno a investimenti europei, in particolare in campo energetico, che, come ha dimostrato ad esempio Paul Krugman, sono da diversi punti di vista non solo irrealistici, ma impossibili. Quando una clausola di questo genere viene inserita in un “accordo”, è evidente che si prepara il terreno per ulteriori forzature e ricatti. Instabili e provvisori appaiono molti degli accordi sui dazi siglati nelle ultime settimane, senza contare che è continuamente necessario adeguarli al fatto che le importazioni non riguardano solo beni di consumo ma anche le catene di fornitura di componentistica vitale per il residuo settore manifatturiero negli Stati Uniti. È bene resistere alla tentazione di leggere nei dazi e nelle guerre commerciali l’ennesima fine della “globalizzazione” e guardare piuttosto a questa costitutiva instabilità delle politiche dell’amministrazione Trump come allo strumento attraverso cui si mira a scuotere i rapporti commerciali all’interno del mercato mondiale per ritagliare condizioni più favorevoli per il capitale statunitense. È comunque una trasformazione radicale rispetto agli ultimi decenni, in primo luogo perché le politiche di Trump – puntando a drenare risorse da tutto il mondo per affrontare l’insostenibile debito degli Stati Uniti e dunque rallentarne la crisi egemonica – determinano una accentuata nazionalizzazione del capitale statunitense, che corre parallela ai processi di concentrazione accelerati negli anni della pandemia da Covid-19. E se queste stesse politiche determinano un indebolimento del dollaro, minacciando quello che è stato in questi anni il principale strumento di gestione del debito, il Genius Act (la legge sulle criptovalute e sulle stablecoin) ha esattamente la funzione di controbilanciare quell’indebolimento. La politica dei dazi di Trump si innesta all’interno di un quadro mondiale da tempo percorso da tendenze protezionistiche e da accentuata competizione in particolare nel settore delle tecnologie digitali e dei minerali più o meno “critici” necessari per il loro sviluppo. E tuttavia, all’interno di questo quadro quella politica introduce un tasso di nazionalismo “economico” senza precedenti negli ultimi anni, secondo una logica che non può che essere al tempo stesso di nazionalismo politico. Oggettivamente, la combinazione di concentrazione di capitali e territorializzazione (per quanto ovviamente in parte solo retorica, ma questo significa “nazionalizzazione” del capitale statunitense) ripropone un elemento centrale analizzato dai teorici dell’imperialismo all’inizio del Novecento. E mentre il nazionalismo si diffonde ulteriormente, ben al di là degli Stati Uniti, la congiuntura che stiamo vivendo appare destinata a facilitare un’ulteriore proliferazione di guerre e regimi di guerra. La “militarizzazione di Silicon Valley” di cui ha parlato il New York Times qualche giorno fa (4 agosto), ovvero la torsione in chiave bellica dello sviluppo di tecnologie digitali, piattaforme e Intelligenza artificiale, è al tempo stesso un sintomo e un acceleratore di questa tendenza. Si tratta di un primo tentativo di analisi, necessariamente provvisorio e consapevole del fatto che la situazione è in costante mutamento. Quello che molti cominciano a chiamare il Trump shock, in analogia con il Volcker shock del 1979 (il violento rialzo dei tassi di interesse da parte del Presidente della Federal Reserve che per molti versi diede avvio all’epoca neoliberale), è in ogni caso destinato a ridisegnare violentemente le geografie e le logiche del capitalismo mondiale, e in particolare i rapporti tra capitale e lavoro. Mi sembra quindi necessario, sulla base di questi primi elementi di analisi, insistere su alcuni dei limiti fondamentali che la politica di Trump incontra e indicare alcune delle sfide politiche più rilevanti di fronte a cui ci troviamo nella nuova congiuntura. Sotto il profilo dei rapporti globali, è evidente che il limite fondamentale è rappresentato dalla Cina, non solo per la forza economica (e in prospettiva politica) di quest’ultima ma anche per la persistente interdipendenza tra l’economia statunitense e quella cinese. Se si prendono i due Paesi che Trump ha sanzionato con dazi “politici” – il Brasile (per l’incriminazione di Bolsonaro) e l’India (per l’acquisto di petrolio russo) – si può immaginare un asse con la Cina (certo più facile con il Brasile che con l’India) nella cornice dei BRICS e di una organizzazione internazionale come la SCO (“Shanghai Cooperation Organization”). Non si tratta qui di riproporre un’immagine edulcorata del “Sud globale” come “polo” o “blocco” alternativo all’Occidente, ma piuttosto di richiamare un quadro realistico dei cambiamenti profondi che si sono ormai determinati nella distribuzione della ricchezza e del potere a livello mondiale. E da questo punto di vista, per riprendere un punto menzionato in precedenza, i processi e i progetti di de-dollarizzazione sono senz’altro cruciali. Anche all’interno degli Stati Uniti, del resto, la politica di Trump sta già incontrando dei limiti. Come sul piano internazionale lo spettacolo dei dazi (si pensi al “Liberation day”) ha contribuito a ingigantire l’impressione della forza statunitense, anche sul piano interno lo spettacolo della forza (le deportazioni, l’ICE, Alligator Alcatraz, la guardia nazionale a Los Angeles e Washington) ha prodotto un analogo effetto. Ma la resistenza è cresciuta in queste settimane, e resta da capire come saprà collegarsi ai processi di impoverimento di massa annunciati dalla “Big Beautiful Bill” in materia fiscale e di spesa. Difficilmente la re-industrializzazione del Paese, che Trump immagina comunque collegata a un attacco radicale alle pratiche di libertà innervate all’interno dei territori metropolitani, potrà offrire la prospettiva di un futuro per cui valga la pena vivere e lottare. È anzi la rappresentazione più evidente della miseria che caratterizza oggi l’“orizzonte di aspettativa” di nazionalismo e autoritarismo – non certo solo nella terra di Trump. Non è forse così importante, almeno qui, definire la peculiarità di questa forma di nazionalismo e di autoritarismo, intervenendo nel vivace dibattito internazionale attorno a categorie come fascismo e neoliberalismo. Certo, l’orizzonte “promissorio” di quest’ultimo appare definitivamente esaurito (con poche eccezioni, come ad esempio l’Argentina di Milei). Dinamiche di “fascistizzazione” sono comunque in atto in molte parti del mondo, e si combinano in vari modi (da analizzare nei diversi contesti) con la persistenza di politiche neoliberali. I processi di concentrazione del capitale su base nazionale che si sono descritti a proposito degli Stati Uniti – e che si irradiano secondo una geometria variabile – costituiscono la base materiale di queste forme di ibridazione. E diffondono nel pianeta una “violenza atmosferica”, per riprendere un’immagine di Fanon, presaga di guerra. Lottare contro autoritarismo e nazionalismo non può che essere oggi anche per noi una priorità. E questa lotta non può che essere contro la guerra, contro la proliferazione di regimi di guerra che dell’autoritarismo e del nazionalismo costituiscono la cifra d’insieme. Trump mostra bene come il regime di guerra si indirizzi contro i movimenti femministi, nella prospettiva di un violento riallineamento patriarcale dei rapporti tra i generi; contro i movimenti ecologisti, considerato che le energie fossili sono al centro della macchina militare statunitense che i Paesi europei sono chiamati ad alimentare; contro i migranti, sfruttati o deportati nei modi più violenti; contro i poveri, espulsi dai centri urbani. Si potrebbe continuare: ed è evidente come tutto questo abbia precise corrispondenze in Italia, in un Paese governato da un Trump in sedicesimo. Qui, come negli Stati Uniti, su ciascuno di questi terreni (e su molti altri), ci sono resistenze e lotte di fondamentale importanza. Ma la mobilitazione contro la guerra – e per fermare il genocidio a Gaza – può e deve essere un’occasione di convergenza, per moltiplicare la forza di queste resistenze e di queste lotte e per intervenire su una congiuntura mondiale che è già asfissiante per tutte e tutti noi. Si tratta di organizzare questa mobilitazione, con il necessario senso di urgenza. L'articolo Trump e noi. Resistere ad autoritarismo e regime di guerra proviene da EuroNomade.
Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio
di GIROLAMO DE MICHELE. A proposito di: Francesca Albanese, FROM ECONOMY OF OCCUPATION TO ECONOMY OF GENOCIDE. Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967 [scaricabile qui ] Where’s your Daddy? è un videogioco nel quale un bambino cerca di uccidersi in casa recuperando uno fra le decine di oggetti potenzialmente letali – il flaccone di candeggina, una posata da infilare nella presa elettrica –, e un padre cerca di impedirglielo. Citando un bravo comico, una specie intelligente capace di concepire un prodotto del genere merita l’estinzione. Ma c’è di peggio: un programmatore ha scelto questo nome per un sistema di intelligenza artificiale che insegna ai droni israeliani a individuare ed eliminare esseri umani che, dopo il bombardamento di un luogo abitato, escono dal rifugio per cercare i superstiti. Where’s your Daddy? interviene in seconda battuta dopo Gospel, un sistema di intelligenza artificiale che stima il numero di vittime collaterali nel colpire un target in cui è ritenuto essere un potenziale obiettivo: un militare riceve l’informazione, e dà l’ok al drone, sapendo quante vittime civili saranno colpite. Con le parole di uno di questi [qui]: > Niente succede per caso. Quando una bimba di tre anni viene uccisa in una casa > a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che la sua morte non è un > dramma – che è un prezzo accettabile da pagare per poter colpire un obiettivo. > Non siamo Hamas. Non lanciamo razzi a caso. Tutto è intenzionale. Sappiamo > esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa. Lo sviluppo di sistema di intelligenza artificiale in israele è reso possibile dalla partnership con Palantir Technologies [proprio così, Palantír: leggere Tolkien da piccolo non necessariamente farà di te un essere umano capace di distinguere il bene dal male], azienda statunitense specializzata nell’analisi dei Big Data; e dall’accesso alle proprie tecnologie cloud e di intelligenza artificiale concesso al governo israeliano da Microsoft, Alphabet [cioè Google] e Amazon. Come per Shylock, il sangue umano vale nella misura in cui può essere trasfigurato in una merce messa a valore; e infatti crescono i profitti di queste aziende, e crescono gli investitori dei propri capitali in questo settore: Blackrock è il secondo maggiore investitore istituzionale in Palantir (8,6%), Microsoft (7,8%), Amazon (6,6%), Alphabet (6,6%) e IBM (8,6%), e il terzo maggiore in Lockheed Martin (7,2%) e Caterpillar (7,5%). Blackrock ricorda qualcosa? È la società di investimenti dalla quale proviene Friedrich Merz, il cancelliere tedesco che ha di recente dichiarato che “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi tutti”. Credo possa bastare per dare un’idea del contenuto dell’ultimo rapporto redatto da Francesca Albanese in qualità di Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, From economy of occupation to economy of genocide: quanto ho sintetizzato proviene dai paragrafi 41, 42, 75, solo tre dei 99 complessivi. Di questo Rapporto, scaricabile qui, ne ha fatto un’ottima sintesi Chris Hedges, già Premio Pulitzer, per molti anni inviato del New York Times sugli scenari di guerra, in particolare in Medio Oriente, che sulla sua newsletter segue da tempo il genocidio in corso a Gaza, e ha dato alle stampe un libro, Un genocidio annunciato, al tempo stesso imprescindibile e già superato dalla tragicità degli eventi. Francesca Albanese ha costruito un database che cataloga oltre 1000 aziende o entità economiche che, a diverso titolo, collaborano all’attuazione del genocidio in corso a Gaza; nel rapporto ne sono nominate 48, fra cui Palantir Technologies Inc., Lockheed Martin, Alphabet Inc., Amazon, International Business Machine Corporation (IBM), Caterpillar Inc., Microsoft Corporation e Massachusetts Institue of Technology (MIT), insieme a banche e società finanziarie come Blackrock e Vanguard. Ma anche l’italiana Leonardo, Hyundai, Volvo, HP, Booking Holding Inc., Airbnb Inc., Allianz, Axa, Paribas, Barclay, BNP. Un esempio del ruolo di banche e assicurazioni nel par. 74: > In quanto principale fonte di finanziamento del bilancio dello Stato > israeliano, i titoli del Tesoro hanno svolto un ruolo cruciale nel finanziare > l’attacco in corso a Gaza. Dal 2022 al 2024, il bilancio militare israeliano > è cresciuto dal 4,2% all’8,3% del PIL, portando il bilancio pubblico a un > deficit del 6,8%. Israele ha finanziato questo bilancio in forte espansione > aumentando le proprie emissioni obbligazionarie, tra cui 8 miliardi di dollari > a marzo 2024 e 5 miliardi di dollari a febbraio 2025, insieme alle emissioni > sul mercato interno del nuovo shekel. Alcune delle più grandi banche del > mondo, tra cui BNP Paribas e Barclays sono intervenute per rafforzare la > fiducia del mercato sottoscrivendo questi titoli del Tesoro nazionali e > internazionali, consentendo a Israele di contenere il premio sul tasso di > interesse, nonostante un declassamento del merito creditizio. Le società di > gestione patrimoniale, tra cui Blackrock (68 milioni di dollari), Vanguard > (546 milioni di dollari) e la sussidiaria di gestione patrimoniale di Allianz, > PIMCO (960 milioni di dollari), erano tra gli almeno 400 investitori > provenienti da 36 paesi che li hanno acquistati. Nel frattempo, la Development > Corporation for Israel (ovvero Israel Bonds) fornisce un servizio di > sollecitazione di obbligazioni per il governo di Israele per privati cittadini > stranieri e altri investitori. La Development Corporation for Israel ha > triplicato le sue vendite annuali di obbligazioni per convogliare quasi 5 > miliardi di dollari in Israele da ottobre 2023, offrendo al contempo agli > investitori la possibilità di inviare il rendimento degli investimenti > obbligazionari a organizzazioni di beneficenza che sostengono l’esercito > israeliano e le colonie. Mentre le principali piattaforme di viaggio online traggono profitto dall’occupazione vendendo un turismo che sostiene le colonie, esclude i palestinesi, promuove le narrazioni dei coloni e legittima l’annessione, attraverso la pubblicazione di proprietà e camere d’albergo nelle colonie israeliane, comprese le proprietà israeliane di Gerusalemme est (parr. 69-70). Lo scopo del Rapporto Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio è molteplice. In primo luogo, con una dotta appendice giuridica che si richiama alla legislazione internazionale esistente sui crimini internazioniali e il genocidio, sostenere che la compartecipazione economica consapevole da parte di queste aziende e società viola lo jus cogens e le norme internazionali, e dovrebbe quindi essere sanzionata per la sua complicità giuridica con i crimini in atto (par. 18). Ma soprattutto, Francesca Albanese interviene sulla rimozione linguistica e politica del ruolo della finanza internazionale, cioè del capitale, nella guerra in atto: ruolo che viene nascosto, rimosso – per chi ha passioni o vezzi lacaniane si può senz’altro parlare di forclusione – dalle narrazioni che, facendo iniziare il conflitto dalle “atrocità commesse dall’ottobre 2023” (par. 18), e giustificandolo come una guerra fra religioni – quando non fra “razze” – ignorano l’ombra lunga del capitale che si estende da anni sull’intera regione compresa fra il Giordano e il Mediterraneo: il “monopolio di Israele sul 61% della Cisgiordania ricca di risorse (Area C)” fa sì che l’economia israeliana sottragga a quella palestinese “almeno il 35% del suo PIL” (par. 24), e consenta di convogliare sui territori facenti parte dello Stato israeliano, o da questi controllati con l’occupazione militare e coloniale, gli interessi di alcuni fra quei “conglomerati aziendali [che] superano il prodotto interno lordo (PIL) di interi Stati sovrani”, “talvolta esercitando più potere – politico, economico e discorsivo – degli Stati stessi” (par. 12). Come ha detto Albanese in una intervista a Chris Hedges [l’integrale in coda al testo], > Il genocidio a Gaza non si è fermato perché è redditizio, è redditizio per > troppe persone. È un business. Ci sono entità aziendali, anche di stati > amici della Palestina, che per decenni hanno fatto affari e tratto profitti > dall’economia dell’occupazione. Israele ha sempre sfruttato la terra, le > risorse e la vita dei palestinesi. I profitti sono continuati e persino > aumentati mentre l’economia dell’occupazione si trasformava in un’economia di > genocidio. Inoltre, ha detto Albanese, i palestinesi hanno fornito “campi di addestramento sconfinati per testare le tecnologie, le armi e le tecniche di sorveglianza che ora vengono utilizzate contro le persone ovunque, dal Sud al Nord del mondo”: basta citare lo spyware Pegasus prodotto dalla società israeliana NSO, progettato per operazioni segrete e sorveglianza degli smartphone, che “è stato utilizzata contro gli attivisti palestinesi e autorizzata a livello globale per prendere di mira leader, giornalisti e difensori dei diritti umani” (par. 37). Una “diplomazia dello spyware” cara ai governanti italiani, a partire dal governo Conte-Salvini (quando fu avviata, per candida ammissione di Giuseppe Conte, la sorveglianza illegale delle comunicazioni di Luca Casarini) per estendersi in seguito (aspettiamo di sapere ad opera di chi) ad altri militanti di Mediterranea, giornalisti “impiccioni”, e chissà quanti altri. Fuori dall’Italia, Pegasus aveva già fatto il suo lavoro sul telefonino della moglie del giornalista saudita Jamal Khashoggi, assassinato nel consolato saudita di Istambul il 2 ottobre 2018. Ma c’è un salto qualitativo evidente nel passaggio dallo Stato-laboratorio di tecnologie militari, e dell’intersezione di queste con l’analitica dei big data, quale fino a ieri poteva essere considerato Israele, e la messa a profitto della guerra all’interno di un vero e proprio ecosistema finanziarizzato senza il quale il processo genocidiario in atto non sarebbe stato possibile: la manifestazione evidente di un regime di guerra permanente, nella quale la macchina bellico-finanziaria sperimenta tecniche di valorizzazione e profitto, e al tempo stesso di redifinizione del ruolo dello Stato attraverso un disegno globale di ridimensionamento degli organismi politici e giuridici sovranazionali, e in definitiva di cancellazione dei limiti segnati dal diritto internazionale umanitario. Il Rapporto Albanese, ancor più dei precedenti, va quindi preso a modello per elaborare strategie di opposizione al genocidio: a partire, in attesa della pubblicazione dell’intero database, dalle 48 aziende elencate, per le quali vanno attuate pratiche di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzione. L'articolo Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio proviene da EuroNomade.