Sovvertire le intimità: costruire spazi di libertà condivisa
In un tempo in cui anche l’intimità è merce, parlare di relazioni è già di per
sé un gesto politico. Ma non basta dire “poliamore” per essere fuori dalla
norma. Sovvertire le intimità, il saggio polifonico e stratificato di Nic
Braida, mostra con chiarezza quanto siano radicate, anche nei luoghi che si
dicono alternativi, le logiche del possesso, della gerarchia, della bianchezza.
È un testo che non offre sollievo, ma domande. E, se sei fortunatə, un “leggero”
senso di smottamento.
Sovvertire le intimità chiama, senza tanti slogan, a una nuova responsabilità
affettiva, una attenzione sociale e, perché no, un modo inedito di fare politica
attraverso i nostri corpi. Un libro che, come il titolo stesso suggerisce, non
cerca di rendere mansueto il linguaggio dell’intimità, ma di rovesciarlo, di
prenderlo a martellate là dove è stato costruito su norme, gerarchie e
aspettative.
Chi scrive questo articolo è una persona, come richiederebbe di esplicitare
Braida, estremamente situata ed è giusto fare coming out su questo fin
dall’inizio. Transfemminista, donna (per quel che vuol dire ancora per me questa
etichetta), attivista, italo-iraniana, vicina a tutti quegli spazi che Braida
cita nei suoi capitoli: collettivi, spazi di autocoscienza, comunità di persone
e virtuali. Da qualche anno anche orgogliosamente non-monogama che pensa di
essere ancora una pivella alle prime armi e che sente di avere bisogno proprio
di testi come quello di Braida. Mi sono avvicinata al poliamore, come altrə,
dopo essermi lasciata alle spalle una relazione monogama violenta, dominata dal
tradimento, dalla possessività, dalla paura. Non si tratta qui di fare della
biografia una bandiera, ma di prendere posizione. Perché parlare di relazioni
non è mai neutro. Il modo in cui amiamo, il modo in cui scegliamo di legarci – o
di non legarci – allə altrə (umani e non) è profondamente politico.
Il libro di Braida parte da questo stesso presupposto: che l’amore, le
relazioni, il desiderio non siano sfere “private” scollegate dalla società, ma
che siano attraversate da potere, da norme, da sguardi giudicanti, che lo
vogliamo oppure no.
> Le non monogamie allora non sono solo pratiche relazionali, ma una possibilità
> di scompaginare l’ordine affettivo (e politico) vigente. Non una soluzione,
> non una fuga, ma uno strumento per guardare in faccia i limiti dell’imperativo
> monogamo, oltre a quelli del sistema stesso.
Fin dai primi capitoli, Braida non mitizza, non costruisce eroi. Anzi, a più
riprese mostra quanto la rappresentazione mainstream del poliamore – persone
razionali, organizzate, libere, sempre consapevoli – sia in sé una nuova forma
di oppressione sottile. La “polinormatività”, ovvero quella forma di poliamore
che cerca di essere rassicurante, ordinato, presentabile alla società monogama,
viene qui smontata pezzo per pezzo. Braida la mette sotto la lente per mostrarne
le fragilità, le esclusioni, le finte neutralità. Non tutte le relazioni
poliamorose riescono a essere orizzontali, fluide o eque, il poliamore non è una
formula magica. Può fallire, può ferire, può riprodurre le stesse dinamiche di
potere e sopraffazione della monogamia. La differenza, semmai, sta nella
possibilità di ripensare continuamente le relazioni, di negoziare, di mettere in
discussione un sistema dato per naturale e soprattutto di avere la possibilità
di comunicare chiaramente cosa si desidera e di cosa si ha bisogno.
L’idea che le persone poliamorose non siano supereroə o macchine, che possano
sbagliare, ferirsi, rompere accordi, non serve a screditare (più di quanto già
non faccia la nostra società) la comunità poli e non-monogama. Aiuta invece a
parlare apertamente dei fallimenti, delle fratture, dei conflitti. Perché è lì,
in quei margini, che si vede davvero quanto una pratica relazionale sia
politica. Perché è non nascondendo sotto il tappeto che ci si rende vulnerabili
e quindi più fortə.
Il testo alterna momenti di approfondimento teorico a parti più vicine alla
ricerca sul campo, costruite anche sulle voci delle persone intervistate. Ne
emerge una molteplicità di esperienze: c’è chi si è avvicinatə al poliamore per
curiosità, chi per convinzione ideologica, chi per guarigione personale. C’è chi
ha trovato spazi di libertà e chi si è sentitə esclusə da dinamiche troppo
cerebrali o elitarie. C’è chi partecipa attivamente alle community online o ai
gruppi in presenza, e chi invece preferisce non prendervi parte.
Una delle tensioni più evidenti è proprio quella tra politicizzazione e
depoliticizzazione. C’è chi vorrebbe che i gruppi poliamorosi fossero solo spazi
neutri, dedicati a “parlare d’amore”. E c’è chi invece – e mi ci riconosco
profondamente – sostiene che non possa esistere una non-monogamia
“apolitica”/neutrale. Che la scelta non-monogama sia già una forma di
disobbedienza alla norma e, come tale, vada pensata in relazione alle “altre”
lotte: queer, transfemministe, antirazziste, decoloniali, antiabiliste e
antispeciste.
Braida non cerca scorciatoie, ma solleva interrogativi importanti: chi si
riconosce in una comunità poliamorosa condivide anche un orizzonte politico o si
rischia che il poliamore venga trattato come un’altra etichetta, disinnescata
del suo potenziale critico? Le relazioni che costruiamo sono strumenti di
sovversione o semplici variazioni sul tema della coppia? Possiamo davvero
pensare a nuove forme di intimità se non mettiamo in discussione anche le
gerarchie, i privilegi, le esclusioni?
Leggendo Sovvertire le intimità si attraversa la dimensione comunitaria del
poliamore senza idealizzarla, ma al tempo stesso riconoscendone logiche e
dinamiche di cura inedite sulle quali dobbiamo puntare un faro in tempi così
bui. Chi si avvicina alle non-monogamie spesso lo fa proprio perché si è sentitə
fuori posto altrove. Fuori dalla coppia eteronormata, fuori dal matrimonio,
fuori da quel dispositivo che chiamiamo “amore romantico” e che troppo spesso si
è rivelato un recinto. Lo so bene: dopo anni passati in una relazione in cui il
controllo veniva spacciato per amore, sentire parlare di consapevolezza,
negoziazione, molteplicità è l’unica possibilità di respiro.
È nel sentirsi solə che si creano nuove identità che danno vita a forme di
alleanza e all’urgenza di raccontarsi in modi inaspettati. Braida ci accompagna
in queste possibilità attraverso pratiche ed esperienze eterogenee, alcune
rassicuranti, alcune meno prossime, ma con uno sguardo sempre vigile alla
cornice. Come possiamo parlare di “libertà relazionale” se non mettiamo in
discussione il sistema che rende alcune vite più vivibili di altre? Come
possiamo discutere serenamente di compersione e confini emotivi, quando c’è chi
fatica ad avere una casa sicura o un lavoro che lə permetta di vivere?
In questo senso, Sovvertire le intimità non ha come intento quello di descrivere
la “scena poliamorosa italiana”, ma di attraversarla criticamente. Il libro si
muove continuamente tra affetto e politica, tra micro e macro. Mostra come le
relazioni non siano mai isolate, ma sempre inserite in una rete di significati
culturali e di sistemi di potere. E ci invita a guardare oltre la mera “scelta
individuale” perché non è mai solo una scelta, ma una posizione, un atto, un
gesto politico.
> Uno degli snodi che mi tocca più da vicino è quello della famiglia e delle
> sfamiglie, parola potentissima che l’autorə usa per indicare tutto ciò che sta
> ai margini della famiglia nucleare normativa. Le sfamiglie sono forme di
> co-abitazione, di parentela queer, di reti affettive completamente
> invisibilizzate. Sono case condivise, relazioni plurime, reti di cura non
> biologiche. E qui Braida tocca un punto delicatissimo: quello del
> riconoscimento giuridico.
Da un lato, c’è chi – dentro e fuori la comunità poliamorosa – reclama nuovi
diritti, riforme, nuove norme per le relazioni non-monogame: possibilità di
riconoscere più di due genitori per unə figliə, apertura del matrimonio a più
persone, tutele per forme di co-abitazione multiple. Dall’altro lato, però,
emerge il timore che il desiderio di riconoscimento produca una nuova
assimilazione. Che la richiesta di “diritti” finisca per riprodurre un modello
normativo, solo un po’ più allargato.
È qui che si aprono letture divergenti anche dentro lo stesso movimento: c’è chi
auspica una riforma progressista del diritto di famiglia e chi invece insiste
per un ripensamento radicale delle forme di cura, totalmente sganciate da
logiche statali, proprietarie, matrimoniali. Braida non dà una risposta univoca,
ma anche in questo caso restituisce la complessità del dibattito e ci ricorda,
con lucidità, che anche la “famiglia queer” può diventare una gabbia, se non
viene ripensata nei suoi presupposti politici.
E a pensarci bene, forse è proprio qui che si gioca la posta in palio: non tanto
“essere poliamorosə perfettə”, ma stare in relazione in modo consapevole,
situato, critico. Non diventare lə più bravə a gestire calendari e appuntamenti,
ma imparare a mettersi in discussione. A costruire intimità che non siano
dispositivi di potere, ma spazi di libertà condivisa.
Arrivando alla fine del libro resta addosso una sensazione di movimento. Non c’è
nulla di statico, nulla che somigli a una ricetta definitiva. Braida lo dice
chiaramente: non esiste un punto d’arrivo, un modello da seguire. Sovvertire le
intimità non è una conquista, ma una pratica continua e, soprattutto, una
pratica durante la quale si può inciampare.
Non so se esista una versione “giusta” delle relazioni e forse questo è proprio
il punto: l’idea stessa che esista un giusto e uno sbagliato è il primo dogma da
disinnescare. Anche chi scrive questo pezzo si muove dentro questa complessità.
In parte perché ne ha bisogno, in parte perché non può più ignorare quello che
ha imparato: che certe forme d’amore non liberano, anzi, consumano. Il merito
del testo è anche questo: non promettere salvezze, ma offrire domande,
posizionandosi apertamente. Non c’è neutralità possibile in un discorso che
tocca il desiderio, il potere, il riconoscimento o addirittura l’abitare. Braida
costruisce un discorso che intreccia transfemminismo, pensiero decoloniale,
anticlassismo, antispecismo, anticapitalismo, senza usarli come etichette, ma
come strumenti critici reali, che modificano il modo in cui si ama, si abita il
mondo, si desidera.
La vulnerabilità, in questo contesto, non è una debolezza da nascondere. È uno
spazio di possibilità. Politicizzare la vulnerabilità significa riconoscere che
l’essere colpibili, fragili, espostə, non è un difetto individuale, ma una
condizione condivisa. E che da questa condizione si possono costruire alleanze,
non sempre stabili, non sempre serene, ma quanto mai reali e comunicanti
attivamente.
> Il libro non fa finta che tutto sia facile. A volte, il poliamore può
> diventare una nuova trincea per nascondersi. A volte, la comunicazione
> radicale è solo una maschera sopra il controllo. A volte, si usano parole
> nuove per perpetuare le stesse dinamiche. Eppure, nonostante tutto, c’è
> un’energia che attraversa queste pagine: la voglia di fare spazio ad altre
> possibilità.
Per me questo spazio è stato una scoperta faticosa. Non perché manchino i
discorsi o i modelli, ma perché quelli che circolano, spesso, parlano a una
soggettività bianca, borghese, neurotipica, in coppia o in relazione stabili. La
narrazione mainstream del poliamore – quella che lo rende presentabile, “cool” è
ancora troppo lontana dalla complessità vissuta da moltə, risultando talvolta
escludente. «Non ce la farò mai» è una frase che abbiamo detto e pensato in
tantə. Braida lo dice con chiarezza: la polinormatività esiste e va
disinnescata. Questo comporta anche una responsabilità: non basta non essere
monogamə per essere liberi. Non basta definirsi poliamorosə per sottrarsi alle
logiche del possesso, della competizione, dell’egemonia affettiva.
Serve un lavoro più profondo che riguarda anche il modo in cui si concepisce
l’amore, il sesso, la cura, la coabitazione. E qui torna una delle intuizioni
più potenti del testo: sovvertire le intimità vuol dire anche moltiplicare i
significati della relazione. Non tutte le relazioni devono avere una componente
sessuale. Non tutte devono essere romantiche. Non tutte devono avere un futuro.
Alcune esistono per pochi mesi, altre per tutta la vita. Alcune sono fatte di
parole, altre di gesti, di cibo cucinato, di complicità politica. Non si tratta
di abolire i legami, ma di trasformarli in spazi di agency e reciprocità.
In fondo, il libro chiude su un orizzonte che non è né utopico né rassegnato. È
un orizzonte situato: guarda al poliamore non come fine, ma come strumento. Come
discorso (prodotto dentro coordinate culturali precise) che può essere
utilizzato per interrogare, disarticolare, ricombinare. È un invito a non
smettere di domandarsi: chi può permettersi certe forme? Chi resta fuori? Cosa
stiamo riproducendo, anche senza volerlo?
E allora forse il punto non è mai stato “essere poliamorosə” o “non esserlo”.
Forse il punto è costruire spazi dove la molteplicità non venga punita, dove la
cura non sia proprietà, dove il desiderio non significhi dominio. Luoghi in cui
nessunə sia costrettə a nascondere le proprie fragilità, né a performare
un’identità ideale per essere accettatə. Luoghi che distraggono da ciò che viene
dato per scontato: la norma, la scala relazionale, il controllo capitalistico
degli affetti, il sistema patriarcale.
Forse non si tratta neanche più di “relazioni alternative”, ma di un’altra forma
di abitare il mondo insieme. E questo, nel tempo surreale in cui viviamo, è una
forma di sovversione potente e possibile. E dobbiamo ripetercelo ogni giorno.
L’immagine di copertina è di Robert Ashworth (flickr.com)
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