Editoria predatoria
Le riviste predatorie privilegiano i propri interessi, spesso di natura
finanziaria, rispetto alla ricerca scientifica. Forniscono informazioni false
sulla propria identità (ad esempio, fattori di impatto falsi, comitati
editoriali falsi), si discostano dalle migliori pratiche editoriali e di
pubblicazione e mancano di trasparenza nelle attività che svolgono (ad esempio,
decisioni editoriali, tariffe, processi di revisione tra pari), oltre a
sollecitare in modo aggressivo gli autori.
[Ripreso dal sito openscience.unimi.it]
Predatory journals prioritize self-interest, often financial, over scholarship
They provide false information about their identity (eg, fake impact factors,
misrepresented editorial boards), deviate from best editorial and publication
practices, and lack transparency in operations (eg, editorial decisions, fees,
peer review processes), along with aggressive solicitations of authors.
Questa la definizione di rivista predatoria accolta in un articolo di Braillon,
Vinatier e Naudet pubblicato di recente su Indian journal of medical ethics.
Nell’articolo si mette in discussione la campagna contro l’editoria
predatoria della International Committee of Medical Journal Editors considerata
troppo debole e troppo poco incisiva, poiché non tiene in cosiderazione
alcuni aspetti particolarmente critici di questo fenomeno, primo fra tutti gli
interessi economici in gioco.
L’editoria accademica è una attività che procura profitti altissimi, perché a
differenza della editoria tradizionale (ad esempio quella dei quotidiani) non
deve pagare per la stesura degli articoli, né per il fact checking e la
validazione delle informazioni, tutte attività che nella editoria accademica
sono a carico dei ricercatori e del finanziamento pubblico.
L’oligopolio formato da Elsevier, Wiley, Taylor and Francis, Springer e Sage
dichiara profitti fino al 40%, profitti che sono di gran lunga superiori a
quelli dell’industria automobolistica o a quella dell’informatica.
In questo articolo il concetto di predatorio assume sfumature diverse da quelle
tradizionali; l’oligopolio sopra descritto ha sfruttato pienamente le richieste
di open access degli enti finanziatori e ora chiede un pagamento sia per leggere
che per pubblicare. Una attività che incassa fondi così ingenti, dovrebbe dare
garanzie di qualità, e invece, come dimostra il caso dell’articolo di Wakefield,
manca un organo di controllo, e le linee guida e raccomandazioni di COPE o ICMJE
non offrono sufficienti garanzie. Sono spesso le riviste dell’oligopolio di cui
sopra che pubblicano la ricerca meno affidabile. Sempre gli stessi editori si
pubblicizzano utilizzando indicatori di “qualità” come il JIF che oltre a non
essere rappresentativi della qualità di una rivista possono anche essere
facilmente manipolati (T. van Raan chiamava il JIF the poor man’s indicator). E
ancora, si crede che preda delle riviste predatorie siano soprattutto i
ricercatori dei paese a basso reddito, ma una ricerca fatta su 2000 articoli di
ambito biomedico provenienti da riviste presumibilmente predatorie ha mostrato
come gli autori provenissero principalmente dal ricco Nord del mondo e con il
NIH come principale finanziatore. Gli autori non sono dunque sempre preda di
queste riviste, ma spesso e volentieri sono complici consapevoli, così come le
loro istituzioni che finanziano articoli in riviste di dubbia reputazione, o
riviste controllate da gruppi di ricerca (vedi il caso di Didier Raoult).
Ecco perché le raccomandazioni fatta dalla ICJME viene definita inefficace da
parte di Naudet et al. Gli editori (in particolare gli oligopolisti) hanno
favorito questa situazione attraverso la richiesta di APC troppo elevate, o
attraverso la creazione di riviste di minor qualità come seconde e terze scelte
per i lavori rifiutati , o attraverso la creazione di special issues (attività
divenuta per certi editori il business principale), ma anche adottando
meccanismi di autocorrezione estremamente lunghi, spesso non reagendo ai
commenti su PubPeer, rifiutandosi di pubblicare lettere all’editore che trattano
nello specifico di punti deboli presenti in un articolo.
Fino a questo punto l’articolo si segue bene. Qualsiasi editore o journal (in
particolare quelli che fanno parte dell’oligopolio) può trasformarsi in una
iniziativa poco affidabile (si pensi tanto per fare qualche esempio alla
acquisizione di Hindawi da parte di Wiley, o alle recenti retractions di
Frontiers, o ai libri di Springer scritti, male, con la AI). La proposta di
aiutare i ricercatori con una lista e il richiamo alla lista di Beall sembrano
però riportarci ad un contesto ormai ampiamente superato.
Non servono liste nere, difficilmente manutenibili ed aggiornabili, ma una più
profonda consapevolezza da parte dei ricercatori e da parte delle istituzioni,
che porti nei casi estremi anche a pesanti sanzioni. Ovviamente a partire da una
revisione dei sistemi di valutazione che dovrebbero prescindere dalla quantità e
dagli indicatori bibliometrici.
L’ultima parte del nostro articolo ritorna ai punti deboli delle raccomandazioni
e al fatto che l’organo che le ha prodotte abbia come membri quegli editori (una
sorta di cartello) che invece che difendere la qualità si preoccupano di
difendere i propri privilegi economici.
We are afraid that a for-profit industry is more concerned with shaping policies
to its own economic advantage rather than with improving quality and taking any
drastic measure to combat predatory journals that would go against a legitimate
publisher’s business model.
Fra le soluzioni ICJME sembra non prendere in considerazione iniziative diamond
open access, come PCI o come Open Research Europe nate per soddisfare
un’esigenza di trasparenza e tracciabilità dei processi di validazione dei
lavori di ricerca, e per riportare la scienza ad una dimensione di “uso pubblico
della ragione”.