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Parliamo di piramidi
Abbiamo bisogno di mettere in discussione le piramidi non solo del sistema capitalista ma anche le “nostre” piramidi, quelle create all’interno di organizzazioni che resistono al sistema. “Non è una questione da poco – scrive Raúl Zibechi -, perché ci impone di guardarci allo specchio e scoprire i sistemi oppressivi che creiamo quando cerchiamo di cambiare il mondo…”. Verso lo straordinario Semillero zapatista di fine anno: “Di piramidi, storie, amori e, naturalmente, di cuori infranti” (tra gli invitati Raúl Zibechi) Foto di Massimo Tennenini Pochi giorni fa, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha annunciato il Semillero “Di piramidi, storie, amori e, naturalmente, di cuori infranti”, che si terrà dal 26 al 30 dicembre presso il Centro Indigeno di Formazione Integrale (Cideci) di San Cristóbal de las Casas, Chiapas. L’annuncio chiarisce che il workshop affronterà il tema delle piramidi non solo all’interno del sistema capitalista, ma anche nei “movimenti di resistenza, nella sinistra e nel progressismo, nei diritti umani, nella lotta femminista e nelle arti” (Convocazione al Semillero 26-30 dicembre 2025). Trovo questo nuovo appello estremamente importante, come quelli precedenti, perché un dibattito rigoroso e approfondito è quasi inesistente all’interno dei movimenti sociali, una situazione che contrasta nettamente con l’impegno dell’EZLN a riflettere mentre si resiste e a creare nuovi mondi che non siano più capitalisti. Rigore non è sinonimo di accademico o di incomprensibile per le persone comuni e organizzate che resistono. Questo è un punto centrale: la riflessione e l’analisi non servono per ottenere attestati o promozioni, ma per rafforzare la resistenza, per renderla più perspicace e responsabile. Un aspetto degno di nota dell’appello all’azione non è solo quello di mettere in discussione le piramidi al vertice (anche se non usano questo termine), ma anche le “nostre” piramidi, quelle create all’interno di organizzazioni che resistono al sistema. Si parla molto delle prime; nulla delle seconde. Solo lo zapatismo ha la volontà e il coraggio di metterle in discussione. Nel pensiero critico e nei movimenti rivoluzionari, errori e orrori vengono solitamente attribuiti a singoli individui (come Stalin in Unione Sovietica), ma strutture come le piramidi, che ispirano partiti e sindacati, ma spesso anche coloro che combattono contro il sistema, non vengono messe in discussione. Se parliamo solo delle piramidi del capitalismo (lo Stato, la polizia, la giustizia, ecc.), tralasciamo le nostre deviazioni ed errori, il che sarebbe fin troppo comodo e poco utile. La verità è che tutte le rivoluzioni hanno costruito piramidi che, come diceva Immanuel Wallerstein, erano adatte a rovesciare le classi dominanti, ma che presto si sono trasformate in ostacoli alla creazione di nuovi mondi. “L’errore fondamentale delle forze anti-sistema nell’era precedente era credere che quanto più unificata era la struttura, tanto più efficace era” (Dopo il liberalismo). Da tempo sappiamo che nuove classi dirigenti post-rivoluzionarie sono state ricostruite dall’alto delle piramidi, impedendo la costruzione di mondi non capitalistici e instaurando regimi autoritari che hanno rafforzato gli stati nazionali. Un merito importante dell’EZLN risiede nell’aver fondato questi dibattiti sulla propria esperienza, su quanto accaduto nell’arco di due decenni in spazi autonomi come le Giunte di Buon Governo, un punto che avevano già sollevato chiaramente e apertamente ad agosto durante l’incontro “Alcune parti del tutto”, nel vivaio di Morelia. All’epoca, scrissi che l’autocritica pubblica dal basso era “un fenomeno assolutamente nuovo tra i movimenti che lottano per cambiare il mondo” e che in questo modo gli zapatisti ci mostrano “cammini che nessun movimento ha mai percorso prima, in nessuna parte del mondo, in tutta la storia” (L’autocritica zapatista). Oggi non basta riaffermare questa percezione; dobbiamo anche riconoscere che gli zapatisti pongono una nuova sfida: affrontare le piramidi che creiamo alla base. Non è una questione da poco, perché ci impone di guardarci allo specchio e scoprire i sistemi oppressivi che creiamo quando cerchiamo di cambiare il mondo. La sfida è tanto importante quanto complessa. Non credo si tratti di puntare il dito contro chi costruisce le piramidi, ma piuttosto di ragionare e spiegare i problemi che esse comportano, sulla base di oltre un secolo di esperienza storica dalla Rivoluzione russa e un secolo e mezzo dalla Comune di Parigi. Fu dopo la loro sconfitta che il movimento rivoluzionario iniziò a costruire apparati politici centralizzati e gerarchici: i partiti politici. Fino ad allora, la lotta era sostenuta da una galassia di organizzazioni meno gerarchiche, un po’ caotiche, certo, ma non per questo meno combattive. Siamo arrivati a un punto in cui solo gli apparati burocratici e gerarchici sono considerati vere organizzazioni, ovvero istituzioni che si modellano sulle piramidi statali e le riproducono simmetricamente. Ora ci rendiamo conto che questi apparati sono completamente inutili in questi tempi di caos sistemico e servono solo come scale per coloro la cui unica ambizione è quella di raggiungere l’apice del potere statale. Il dibattito a cui ci chiama lo zapatismo promette di essere illuminante in mezzo all’oscurità. Propongono di nuotare controcorrente rispetto al pensiero compiacente della sinistra e del mondo accademico, intrappolato nella logica del capitalismo. Questo è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per scrollarci di dosso il nostro letargo, impegnarci nell’autocritica e liberarci da vecchie idee/prigioni per poter continuare a camminare attraverso la tempesta. -------------------------------------------------------------------------------- di Raúl Zibechi  articolo originale https://comune-info.net/parliamo-di-piramidi Pubblicato anche su La Jornada Ettore Macchieraldo
Di ritorno dal Chiapas, all’incontro internazionale convocato dall’EZLN
Finalmente, dopo tanti anni, grazie all’invito di Mimma Grillo, sono riuscita a partecipare al quarto appuntamento degli Encuentros de Resistencia y Rebeldìa, intitolato “Algunas Partes del Todo”, dell’EZLN, che ha avuto inizio domenica 3 agosto presso il Semillero (nome emblematico: lì si seminano idee, scambi di esperienze, vecchi e nuovi incontri tra compagne/i) “Comandanta Ramona” del Caracol IV Morelia, più o meno a tre ore da San Cristóbal, in Chiapas, e sono veramente felice di averlo potuto fare. I partecipanti, tra messicani, latinoamericani e internazionali, eravamo più di 700, provenienti da 37 paesi, dal Messico al Cile, dall’Italia a Cipro, dal Canada all’Australia. Il semillero non è altro  che una grande spianata al cui centro i zapatisti hanno innalzato una piramide in legno con in vetta il simbolo del dollaro e ai lati le scritte “desprecio“, “explotación” (disprezzo, sfruttamento). Attorno ci sono dei capannoni nei quali dormiremo con i nostri sacchi a pelo, un comedor, un ristorantino per noi visitatori, diverse cucine a legna comunitarie dove le bases de apoyo (i volontari provenienti dai vari caracoles) preparano la colazione e il pranzo per le/i zapatisti. Inoltre, a poca distanza, bagni e docce precari, un punto di salute, vari negozietti dove vendono pochi alimenti e il collegamento WiFi a ore. Devo ammettere che, pur nella sua essenzialità precarietà, la macchina organizzativa è quasi perfetta, accogliere  più di 700 persone, farle mangiare, lavare, dormire non é una cosa semplice da fare e l’’EZLN ci è riuscito. Apre le due settimane di incontro un’emozionante parata militare: vari battaglioni di milicianas e milicianos sfilano in ordine, portano il classico passamontagna e un arco con frecce alle spalle (mi spiegano che ciò è stato introdotto dalle donne zapatiste durante l’incontro internazionale delle donne di alcuni anni fa). I civili –  rappresentanti delle basi d’appoggio zapatiste, uomini, donne, bambini e ragazzi provenienti dai 12 caracoles – .fanno quadrato attorno alla piazza, in religioso silenzio. Sul palchetto del “templete” (un grande capannone aperto ai lati col pavimento in cemento) sale la comandancia composta da uomini e donne. Prende la parola il subcomandante Moisés, il quale, con poche ed essenziali parole, inaugura l’incontro, dando il benvenuto ai compagni e alle compagne del Messico e del Mondo e ricorda il genocidio in corso a Gaza, mettendo l’accento sulla vicinanza tra i popoli in resistenza. Il pomeriggio e i giorni successivi trascorrono tra le presentazioni da parte dei numerosi collettivi messicani e stranieri presenti (alcune sono veramente toccanti come quella delle Madres buscadoras che cercano, a rischio anche della propria sopravvivenza i loro figli desaparecidos, vittime della violenza in Messico), seguite da un dibattito in cui spesso interviene Moisés. Il programma delle comparticipaciones del giorno viene affisso la stessa mattina: da piccoli collettivi locali, a comunità indigene latinoamericane e non solo, passando per organizzazioni e reti internazionali (sindacati, radio alternative, ecc.) si elevano testimonianze di resistenza quotidiana contro il mostro capitalista e un grido di unione e di solidarietà in tutto il mondo, pur nel rispetto delle differenze, come suggerisce il titolo dell’incontro: sono solo alcune parti del tutto che resistono alla Tormenta e che cercano di costruire “il Giorno dopo”. Le serate sono animate da recital di poesia e musica da parte delle giovani e dei giovani zapatisti dei vari caracoles nella loro lingua indígena Maya (non sempre c’è la traduzione in spagnolo); a seguire musica dal vivo e balli fino a tarda notte. I zapatisti hanno scelto la forma del teatro per raccontare la loro storia: durante i primi giorni, i giovani e le giovani zapatistas mettono in scena uno spettacolo che dura ore sulla storia del Messico e sulla loro storia di resistenza e ribellione dal 1984 fino a oggi. Mettono a nudo il momento di passaggio, di transizione che stanno vivendo, dopo esserci resi conto che il governo delle Juntas de Buen Gobierno (Giunte di buon governo) e dei Marez (Municipios Autonomos Rebeldes Zapatistas) spesso (ahimé!) riproduceva alcune dinamiche simili a quelle della tanto criticata “piramide” della società capitalista, puntano adesso su una nuova forma di organizzazione caratterizzata dall’orizzontalità, dal governo popolare e da “El Comùn”. Sono queste le parole d’ordine dello spettacolo e dell’incontro:  abbattere la piramide e costruire “El Común”. Lo spettacolo serve, pertanto, per fare una esemplare autocritica di come sia avanzata la società zapatista dal 1 gennaio 1994 fino al momento; attraverso esempi concreti quali un furto di soldi da parte di due compas e un caso di violenza di genere, i zapatisti si chiedono e ci chiedono como uscire dalle trappole del sistema piramidale: burocrazia, problemi di comunicazione, difficoltà a decidere tutti insieme, corruzione. Il grande nemico dichiarano, è il capitalismo, e per combatterlo l’unica soluzione è “El Común”, ossia costruire governi democratici autogestiti in cui tutti decidono insieme senza delegare nessuna commissione in cui pochi/e decidono per tutti/e. La base, il popolo, deve organizzarsi per costruire “il Giorno Dopo”. Un primo passo è stato lo smantellamento delle JBG (Juntas de Buen Gobierno) e dei MAREZ, che da circa un anno sono stati sostituiti da GAL, CGAZ, ACGAZ. Questi tre livelli, Governi Autonomi Locali (comunità), Collettivi dei Governi Autonomi (regione) e le Assemblee dei Collettivi dei Governi Autonomi (Zona), sono assemblee plenarie che prevedono la partecipazione di tutti i membri. Soltanto il primo livello, il GAL, ha potere decisionale, gli altri due fungono solo da coordinamento per riportare la decisione delle comunità di base. Quindi, è il popolo che effettivamente si autogoverna. Il loro senso della storia è molte forte: alle giovani e ai giovani è deputato il compito di onorare i morti delle lotte passate e di credere nella possibilità di costruire “El día después“, continuando le loro sfide al sistema, anche se ancora non sanno bene come. Tuttavia l’obiettivo è chiaro: la lotta non è solo per loro zapatisti, ma è per tutte/i. Per questo è importante il colloquio con le comunità non zapatiste, con il CNI (Comitato nazionale indigeno); i zapatisti ribadiscono, inoltre, di non avere formule magiche, ognuno deve agire nel proprio contesto e con i mezzi che possiede, ma sono imprescindibili il dialogo e la non esclusione, e soprattutto il portare avanti azioni concrete, non mere e vuote ideologie (non si dichiarono né marxisti, né maoisti, né anarchici, eec., anche se riconoscono ciò che di buono contiene ognuno di questi pensieri).   I zapatiste ribadiscono il loro rifiuto della  “Cuarta T” (la “quarta trasformazione”, il progetto politico portato avanti dall’ex presidente López Obrador) e del programma “Sembrando vida” (dare una parcella di terra agli indigeni per ripopolare le zone rurali e frenare la deforestazione dilagante) che, pur partendo da nobili presupposti, ha finito col riproporre una logica di privatizzazione della terra, di adeguamento al mercato internazionale creando disunione tra le comunità indigene.  La piramide deve essere distrutta e l’opera teatrale finisce proprio così: la grande piramide viene prima bruciata, poi abbattuta e fatta a pezzi con sassi e machete dalla basi d’appoggio, con l’invito a tutte/i ad unirsi al rituale, per ricordare di non farsi ingannare da governi che si presentano come progressisti, ma che in fondo, trovandosi comunque verso la cima della piramide, non sono altro che marionette i cui fili sono tirati dai grandi oligarchi che controllano il mondo. Costruire “El Comùn” significa eliminare ogni forma di proprietà, a partire da quella della terra, che non è più dell’organizzazione, ma è di chi a turno la lavora, che sia zapatista o no. Il prodotto viene diviso quindi in parti uguali tra chi ha curato il raccolto, senza pagamento di alcun tipo. Non è mancata la visita al nuovo ospedale, che sorgerà vicino caracol di Dolores Hidalgo, grazie anche alla campagna di raccolta fondi “Un Quirofano en la Selva Lacandona” organizzata da decine di collettivi e organizzazioni europee all’interno della rete Europa Zapatista. Siamo andati quasi tutti, in un pullman, a vedere l’avvio dei lavori del questo nuovo ospedale; ci hanno fatto da guida gli architetti e i mastri che dirigono il “cantiere”, nessuno di loro è diplomato né laureato, perché i “professionisti” costavano tanto e, non avendo i soldi per pagarli, hanno fatto appello alle maestranze locali che stanno offrendo gratuitamente i loro servizi. Bisogna dire che la partecipazione alla costruzione di persone non zapatiste è un passaggio fondamentale. Dopo aver girato le comunità non zapatiste della regione per spiegare il progetto, queste ultime hanno deciso di partecipare alla costruzione, chi inviando mano d’opera, chi cooperando economicamente, chi fornendo vitto e alloggio a lavoratori e lavoratrici. Dopo la visita siamo rientrati al caracol, dove ci hanno accolti, rifocillati con abbondante cibo e con musica e balli fino a tarda notte, nonostante la pioggia torrenziale (la stessa generosità abbiamo potuto constatare io e Ignazio al caracol di Patria Nueva, dove siamo andati in privato, dopo aver avuto l’autorizzazione dal “comité de interzona” di Morelia). L’indomani siamo ripartiti per Morelia, tre ore di viaggio attraversando paesaggi mozzafiato che, almeno a me, facevano dimenticare le tante curve della strada. Vorrei aggiungere, non per vantarmene ma solo per condividere un’ulteriore e personale testimonianza della mia partecipazione all’incontro, che io e Ignazio avevamo portato delle olive e mandorle del nostro terreno e abbiamo deciso offrirle ai compas dei caracoles 8 e 9, con la cui cucina comunitaria abbiamo collaborato per una settimana: al mattino, alle 5,30, andavamo a preparare la colazione e poi verso le 12 il pranzo. Francisco, il cuoco di turno del caracol di Dolores Hidalgo, parlava a stento lo spagnolo, la lingua Castilla come dicono loro, ma era molto socievole, mentre le donne e altri uomini che erano in cucina, rimescolavano, silenziosi, chili di riso e fagioli in enormi pentoloni di rame su dei fuochi a legna. Ci hanno ringraziati dell’aiuto e hanno insistito affinché mangiassimo con loro quello che ci era cucinato insieme. Insomma, per concludere, la resistenza e ribellione di questa piccola parte del mondo non è la panacea a tutti i mali del cosmo ma è sicuramente una luce che continua a illuminare la strada contro il capitalismo e l’omologazione. Solidarietà, organizzazione e disciplina, coraggio, ma anche errori, contraddizioni, aspetti per me non del tutto chiari ho visto a Morelia, ma una cosa mi è chiara: quella dell’EZLN è una storia umana, più che politica, da continuare a far  conoscere.     Redazione Palermo