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Così si contrabbandano i microchip sotto restrizione
Immagine in evidenza: Hong Kong Island Skyline da Wikimedia Al cuore della competizione tecnologica tra le superpotenze del pianeta si cela un meccanismo che ricorda vagamente il gioco per bambini del “whac-a-mole” (in italiano: “acchiappa la talpa”). Da una parte ci sono gli Stati Uniti (e, in parte, la UE) che tentano di controllare il futuro dell’innovazione con strumenti normativi (embarghi, sanzioni, veti). Dall’altra c’è una rete sempre più fitta di intermediari, snodi logistici, società fantasma che cercano di eludere i controlli sull’export, spuntando dal nulla proprio come la talpa del gioco. Questo fenomeno caratterizza in particolare il settore dei semiconduttori, dove ha ormai assunto il nome di chip laundering (riciclaggio dei chip). Un termine generico che descrive un settore industriale sommerso, nato tra le pieghe della geopolitica dell’hi-tech. Il paragone più immediato è con l’elusione delle sanzioni nel settore energetico, ma il confronto regge solo in parte. A differenza del petrolio, i chip sono minuscoli, facili da trasportare, da camuffare e da occultare. Dietro il contrabbando di semiconduttori c’è più di un semplice mercato nero. C’è un panorama di paesi non allineati e di supply-chain che si rimodulano di continuo per sfuggire al controllo dei grandi centri del potere normativo di questa epoca. Un mondo che ha qualcosa di piratesco (e peraltro condivide alcuni luoghi della pirateria storica), seppur stravolto in chiave cyberpunk. Esploriamo dunque questa zona grigia, dove l’elusione delle sanzioni non è solo una pratica opportunistica. Talvolta, come vedremo, è una necessità di sopravvivenza industriale. IL CONTENIMENTO RUSSO Come è noto, i chip sono oggi componenti essenziali degli arsenali militari. Senza microprocessori, non funzionano i missili, i droni, i radar, i sensori, le comunicazioni criptate, i sistemi di logistica e di tracciamento delle unità. È in virtù di questa pervasività che i semiconduttori sono diventati l’equivalente del carburante in una guerra moderna: senza di essi, l’apparato bellico si inceppa. Nel contesto della guerra in Ucraina, tutto questo ha assunto un’importanza cruciale per la Russia, sottoposta a severe sanzioni nel campo dell’elettronica. Ogni drone contiene infatti chip di fabbricazione occidentale; ogni missile richiede componenti elettronici spesso prodotti in paesi NATO; perfino i sistemi di sparo necessitano di circuiti avanzati per funzionare. Da qui l’esplosione delle forniture parallele. Paesi come Singapore, Hong Kong, la Turchia, gli Emirati e la Bielorussia sono divenuti snodi tecnologico-logistici attraverso cui i componenti occidentali vengono “riciclati”, camuffati come beni civili, e poi reindirizzati verso l’industria bellica russa, con triangolazioni finanziarie che spesso utilizzano banche locali poco trasparenti, criptofinanza e circuiti alternativi di compensazione monetaria, come quelli sino-russi basati sul renminbi. Il risultato è un ecosistema e che prospera nel buio e che rende difficile verificare l’impatto delle sanzioni. Il paradosso, denunciato dallo stesso Zelensky, è che, mentre l’Occidente cerca di limitare il potenziale russo, ogni giorno sull’Ucraina piovono missili che contengono centinaia di brevetti tecnologici di paesi NATO. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel 2022, quasi 4 miliardi di dollari di chip soggetti a restrizioni si sarebbero riversati in Russia da oltre 6.000 aziende, alcune delle quali si trovano a Hong Kong, ha scritto lo scorso agosto il New York Times, in un’inchiesta che ha analizzato dati doganali russi (ottenuti da un’azienda terza), registrazioni aziendali, registrazioni di domini e altre informazioni sulle sanzioni. Un altro importante crocevia delle supply chain alternative è rappresentato dalla Malesia, dove diverse aziende locali, talvolta anche consolidate, svolgono la funzione di “camere di compensazione” per chip ad alte prestazioni destinati a Mosca. Alcune di queste aziende, come Jatronics, sono state sanzionate dal Tesoro Usa per aver “facilitato l’approvvigionamento di prodotti a uso duale (dual use) da parte della Federazione Russa”. Torneremo più avanti sulle ragioni per cui persino aziende con una reputazione “ufficiale” da difendere si prestano a questo gioco. I “FALSARI” DEI CHIP Il mercato parallelo dei microchip si nutre attivamente delle vulnerabilità dell’industria stessa. A cominciare da quelle più strutturali come la carenza globale di chip, accelerata dalla pandemia e ormai divenuta una sorta di “new normal” dell’industria. È proprio in questo contesto che gruppi di falsari hanno trovato terreno fertile, spacciando per autentici componenti in realtà provenienti dal riciclo di rifiuti elettronici: vecchi chip smarcati, ribrandizzati e immessi sul mercato millantando prestazioni in realtà nettamente inferiori. Qui il problema non è tanto l’evasione delle sanzioni, ma il rischio concreto che questi componenti pongono ai loro utilizzatori finali. Cosa succede se, per esempio, dei chip contraffatti finiscono nei freni di un treno ad alta velocità? Un ulteriore problema è che la distinzione tra illeciti volontari e falle strutturali è a volte sottile. I produttori di semiconduttori – pur con tutti i dovuti controlli – spesso non riescono a monitorare ciò che accade una volta che i componenti lasciano i canali ufficiali. È qui che la filiera si trasforma in un circuito fatto di documentazioni potenzialmente contraffatte e opportunità di corruzione dal basso. Tra le tipologie di chip più prese di mira dai falsari ci sono, da diversi anni, le GPU: le (costose) schede grafiche in cui si è specializzata NVIDIA e che oggi sono centrali nell’ecosistema AI. Recenti notizie dalla Cina rivelano un’evoluzione impressionante delle tecniche di falsificazione dei prodotti NVIDIA, con falsi talmente simili agli originali da trarre in inganno persino gli operatori del settore. Non si tratta più di semplici imitazioni visive o di prodotti riciclati dai rifiuti elettronici, ma di una vera e propria ingegneria del falso che sfrutta componenti autentici per costruire contraffazioni altamente credibili. Nonostante molti di questi falsi si siano rivelati non performanti, resta incerto se esistano versioni operative in grado di superare anche i controlli software. Strumenti diagnostici come GPU-Z – un software che fornisce informazione sulle caratteristiche e le performance delle schede grafiche – possono essere facilmente ingannati attraverso modifiche al BIOS, una pratica piuttosto comune in Cina. In alcuni casi, come quello della scheda grafica di NVIDIA RTX-4090(D), sono persino comparse sul mercato contraffazioni con memorie superiori a quelle dei prodotti originali (la memoria è uno degli aspetti più frequentemente modificati dei chip. Tutto ciò suggerisce che non si tratti di operazioni artigianali isolate, ma di un’industria parallela di falsificazione su larga scala: un problema non solo per i consumatori – che rischiano di spendere migliaia di dollari per dell’hardware obsoleto – ma anche per la sicurezza informatica a livello globale. In un mondo dove la qualità dei componenti elettronici determina l’affidabilità di interi sistemi, la diffusione di componenti contraffatti rischia di causare danni strutturali e difficili da controllare. DEEPSEEK E SINGAPORE Negli ultimi mesi è stato spesso sollevato il dubbio che DeepSeek funzioni grazie a chip di NVIDIA che, a partire dal 2022, non avrebbero più dovuto essere disponibili in Cina. Il sospetto è che i componenti siano arrivati a Pechino attraverso una catena di “nazioni-ponte” che avrebbe come terminale Singapore, la città-stato che, dal 2022 a oggi, ha visto salire la propria quota sul fatturato globale di NVIDIA dal 9% al 22%, un incremento dalle tempistiche quantomeno sospette. Le autorità locali negano qualsiasi coinvolgimento diretto nella questione (e hanno anzi arrestato nove persone con l’accusa di contrabbando di chip per un valore complessivo di 350 milioni di dollari), tuttavia l’assenza di meccanismi di tracciamento post-vendita lascia aperto un margine di ambiguità sufficiente a far passare una quantità significativa di chip da una parte all’altra del Mar Cinese Meridionale, senza che nessuno possa davvero impedirlo. Secondo quanto emerso da recenti inchieste giudiziarie – confermate a febbraio dal ministro della giustizia di Singapore – uno dei modi con cui i chip di NVIDIA sono giunti in Cina, per il tramite della Malesia e di Singapore, è all’interno di server, prodotti da società americane come Super Micro Computer (SMC) e Dell, e venduti da aziende di paesi asiatici non soggetti a restrizioni dirette. NVIDIA ha perciò chiesto a Dell e SMC di condurre una verifica presso i loro clienti nel Sud-est asiatico, in modo da verificare che fossero ancora in possesso dei server che avevano acquistato. È anche per questioni legate a queste falle se, dopo lo smacco subito a opera di DeepSeek, l’amministrazione Trump ha valutato anche l’inclusione dell’H20 – chip intenzionalmente depotenziato per il mercato cinese – tra i prodotti vietati all’export in Cina (è recentissima la notizia che il CEO di NVIDIA, Jensen Huang, avrebbe convinto Trump a ripensarci nel corso di una sfarzosa cena a Mar-a-Lago). LA MAXI-MULTA A TSMC Il tema si fa ancora più complesso quando entra in gioco la difficile decifrazione delle catene di fornitura “ufficiali”. Un caso emblematico, in tal senso è quello che ha coinvolto Huawei, TSMC e la cinese Sophgo. Secondo un’analisi di TechInsights, una società canadese specializzata nello studio dei semiconduttori,  un componente sotto embargo ordinato da Sophgo a TSMC — apparentemente per scopi legati al mining di criptovalute — si sarebbe rivelato parte integrante dei processori Ascend 910 di Huawei, destinati a sistemi di intelligenza artificiale con potenziali applicazioni militari. Interpellata dai media, Huwaei ha negato qualsiasi violazione delle normative internazionali, sostenendo che è dal 2020, quando cioè sono entrate in vigore le prime restrizioni, che l’azienda non utilizza componenti prodotti direttamente da TSMC.  Ma il Dipartimento del Commercio statunitense ha minacciato una multa superiore al miliardo di dollari contro TSMC, accusata di aver infranto (seppure probabilmente in modo involontario) i veti all’esportazione. È una cifra enorme, che rappresenta un precedente problematico e pericoloso non solo per l’azienda, ma per tutto il settore. TRA NECESSITÀ E AMICI DI COMODO In conclusione, torniamo alla domanda lasciata in precedenza in sospeso. E cioè: perché aziende e paesi con una reputazione da difendere scelgono di compromettersi con il mercato nero dei semiconduttori, mettendosi di traverso a quello che tuttora è il principale potere normativo mondiale? La risposta ha a che fare con l’estrema complessità della filiera dei semiconduttori. In un settore dove ogni componente attraversa decine di confini, passa per centinaia di fornitori e coinvolge processi che richiedono sapere diffuso e anni di sviluppo, esercitare un controllo totale è nei fatti impossibile. Peggio ancora: il tentativo di esercitarlo può generare strozzature tali da minacciare la sopravvivenza di interi comparti industriali. Ogni volta che un ente americano introduce un veto, un embargo o una lista nera, crea inevitabilmente un collo di bottiglia. I chip sono del resto il frutto di una catena che coinvolge materiali grezzi (come il silicio ultra-puro), macchinari di estrema precisione (prodotti da ASML e Tokyo Electron), software avanzati (strumenti di electronic design automation come quelli di Synopsys e Cadence), processi di design (NVIDIA etc), fonderie (TSMC, Samsung, SMIC) e test di validazione finale. Ogni segmento di questa catena è concentrato in poche aziende, e uno squilibrio anche minimo in un singolo anello può compromettere l’intero sistema. È in questo contesto che le aziende, specialmente quelle che operano in paesi che hanno rapporti economici vitali con diversi blocchi geopolitici, si trovano davanti a un bivio: rispettare gli embarghi e rischiare di bloccare la propria attività, perdendo molti soldi e potenzialmente la possibilità di stare sul mercato, o aggirare le sanzioni e continuare a produrre. Per molti non è una scelta etica, ma esistenziale. Nel settore dei chip, la pressione è enorme: la domanda globale cresce esponenzialmente e nessuna azienda può permettersi di restare indietro. E così, pur di tenere in funzione la macchina produttiva, si ricorre a triangolazioni logistiche, a reti di subappaltatori poco tracciabili, alla ricodifica dei componenti, alla creazione di filiali ad hoc in giurisdizioni opache. In alcuni casi, sono gli stessi governi ad adottare un atteggiamento ambiguo, tollerando certe pratiche in cambio di crescita economica e attrazione di investimenti hi-tech. Questo tema si intreccia a doppio filo con quello del cosiddetto “friendshoring”, ovvero l’incentivo alla rilocalizzazione di attività strategiche in paesi teoricamente amici o quantomeno neutrali. Paesi terzi che, in realtà, spesso si rilevano snodi funzionali a entrambi i fronti della nuova “Guerra Fredda” (un fenomeno peraltro già verificatosi nel corso della “prima” Guerra Fredda). La fedeltà geopolitica degli “amici” di convenienza non è del resto mai assoluta, ma soggetta a un costante bilanciamento tra interessi, pressioni e convenienze. Più che alleati o avversari di qualcuno, il realismo geopolitico suggerisce ai paesi “terzi” di comportarsi da broker. Per tutti questi fenomeni, il mondo dei chip somiglia sempre più a un fiume attraversato da correnti sotterranee. Chi vuole davvero comprendere dove sta andando non può ignorare le mosse dei contrabbandieri di silicio. L'articolo Così si contrabbandano i microchip sotto restrizione proviene da Guerre di Rete.
La Cina progredisce sui chip e sfida le restrizioni
Immagine in evidenza: The Computer Chip di Brian Kostiuk da Unsplash Tra gli anni ’90 e il 2016, all’epoca della iper-globalizzazione a egemonia americana, il mondo ha assistito a un processo di divisione del lavoro su scala planetaria. La specializzazione di distretti industriali e aree economiche nelle attività in cui ciascuna godeva dei maggiori “vantaggi comparati” (in termini di sviluppo, risorse, lavoro o logistica) è stata una dei motori dell’accelerazione tecnologica degli ultimi decenni.     La possibilità di ridurre l’investimento nelle infrastrutture produttive, spostando le lavorazioni in luoghi caratterizzati da costi inferiori (pensiamo alla supply chain asiatica di Apple), ha permesso all’industria dell’hardware di liberare immensi capitali da investire nell’innovazione. Tra i settori che hanno cavalcato più intensamente queste dinamiche c’è quello dei microchip (o semiconduttori): l’oggetto tecnologico alla base di tutte le tecnologie, dal banale termostato ai sistemi di guida delle testate nucleari, dalle batterie dei veicoli elettrici ai server per l’addestramento delle intelligenze artificiali. IL MODELLO DELLE FOUNDRY, LE FABLESS E LA DIVISIONE DEL LAVORO Negli ultimi trent’anni, le aziende di chip dal maggiore valore di mercato, quasi tutte americane, hanno iniziato ad appaltare gran parte della loro attività di manifattura all’estero, in paesi come Taiwan e la Corea del Sud, dove hanno trovato personale qualificato (i chip richiedono ingegneri molto formati in tutte le fasi della lavorazione) con un costo del lavoro decisamente inferiore. Ha così preso piede, soprattutto nella regione dell’Indo-Pacifico, il modello delle “foundry”: aziende di manifattura avanzatissima, che fabbricano chip per conto di aziende occidentali, le quali possono così concentrarsi sulla curva dell’innovazione, che nei chip si incarna nella celebre “legge di Moore” (ovvero l’osservazione che il numero di transistor contenuti in un chip raddoppia ogni due anni). Sui presupposti di questa divisione del lavoro è nato addirittura un nuovo modello di azienda: le cosiddette “fabless”. Scaricate interamente dai costi fissi, le “fabless” non possiedono stabilimenti di produzione e si occupano soltanto dell’ideazione di nuovi chip sempre più performanti. La più nota di queste aziende è NVIDIA, divenuta negli ultimi anni il perno materiale dell’evoluzione delle AI. LA SVOLTA PROTEZIONISTICA SUI CHIP Fino a qualche anno fa, l’estrema globalizzazione della catena del valore dei chip – proprietà intellettuali USA, progettate con software anglo-israeliani, riversate da macchinari olandesi su silicio giapponese usando componenti chimici cinesi dentro fabbriche taiwanesi – era considerata una grande festa per tutti: la tecnologia evolveva e i profitti crescevano. Non è più così: da qualche anno gli Stati, USA in testa, hanno deciso che il chip, in quanto “tecnologia di tutte le tecnologie”, è un oggetto troppo strategico – e soprattutto troppo determinante per i rapporti di potenza – per essere lasciato in balia del mercato. E così, già nel 2016, Obama chiamava Angela Merkel e vietava la vendita alla Cina di Aixtron, un’azienda tedesca di componenti chimici per microelettronica, dopodiché Trump faceva la guerra a Huwaei (anche sui chip) e, infine, Biden dedicava ai semiconduttori gran parte della sua azione normativa in campo internazionale. Dopo aver firmato, nell’agosto 2022, il CHIPS and Science Act, un piano di investimenti per la ricostruzione della manifattura americana dei semiconduttori, nell’ottobre 2022 Biden ha proclamato ufficialmente una serie di restrizioni senza precedenti all’export di chip avanzati verso la Cina. Il pacchetto di norme non si limitava a proibire la vendita diretta di chip di ultima generazione a Pechino, ma imponeva anche vincoli sulla cessione di macchinari per la loro produzione, sulla condivisione di ricerche e di brevetti e sull’assunzione di personale specializzato da parte di aziende cinesi. L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era solo quello di mantenere il vantaggio tecnologico delle aziende americane, ma, se possibile, di ritardare/arretrare lo sviluppo della microelettronica cinese (con ricadute a cascata su tutte le tecnologie, incluse quelle militari). Le ripercussioni sulle catene del valore sono state notevoli. Giganti del settore come NVIDIA si sono visti costretti a rivedere le proprie strategie di mercato, mentre colossi della manifattura come la coreana Samsung e la taiwanese TSMC (la più importante “foundry” del mondo) si sono trovate a navigare un campo minato di regolamentazioni sempre più stringenti. La questione ha avuto anche riflessi politici: l’applicazione delle normative ha richiesto grandi sacrifici economici da parte di aziende e paesi alleati degli USA, con costi diplomatici non trascurabili. LA CORSA CINESE PER UN’INDUSTRIA AUTOCTONA La conseguenza più significativa della decisione di Biden è stata tuttavia quella di aver costretto la Cina a intensificare gli sforzi per accelerare lo sviluppo di un’industria autoctona di chip avanzati. La reazione cinese si è mossa finora su molteplici livelli, dal sostegno diretto dello Stato alla ricerca fino alla riorganizzazione delle catene di approvvigionamento interne. Pechino ha aumentato in modo significativo i finanziamenti al settore, puntando su colossi nazionali come SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation) e YMTC (Yangtze Memory Technologies), le punte di diamante del suo sistema industriale. Nel solco di quanto avvenuto in altri ambiti, come la mobilità elettrica, il sostegno di Pechino non è solo finanziario ma anche normativo, logistico e strategico: sono stati varati piani per il rafforzamento della supply chain dei semiconduttori, a partire dalle materie prime, e sono stati dispiegati incentivi per attirare talenti stranieri aggirando le restrizioni di Washington. Nel breve periodo, la Cina ha inoltre adottato soluzioni creative per superare i vincoli internazionali. Una di queste è la pratica del cosiddetto “chip laundering”, ovvero l’importazione di chip avanzati attraverso paesi terzi, come Singapore o gli Emirati Arabi Uniti, che sfuggono ai controlli più stringenti degli USA. Inoltre, il governo cinese ha incentivato l’acquisto massiccio di chip prima che le restrizioni entrassero in vigore, accumulando scorte strategiche per le proprie industrie high-tech e per il settore della difesa. La vera partita tuttavia è sul lungo periodo. E su questo fronte Pechino sta spingendo sull’acceleratore dell’innovazione, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza da fornitori occidentali per tutte le tecnologie più critiche coinvolte nella produzione di chip. LA SCOMMESSA SUI MACCHINARI LITOGRAFICI E LA SUPREMAZIA EUROPEA Un esempio è lo sviluppo dei macchinari litografici a ultravioletto estremo (EUV), ovvero le macchine con cui, tramite un processo quasi fantascientifico, si “stampano” transistor molto più piccoli di un virus. Per la stampa dei chip più avanzati, il settore è oggi un monopolio di fatto di una singola azienda, l’olandese ASML, a cui gli USA hanno imposto il veto all’export cinese, attraverso un’azione diplomatica che, nel 2023, ha visto direttamente coinvolto il governo olandese (all’epoca guidato dall’attuale Segretario Generale della NATO Mark Rutte). Lo sviluppo autonomo di macchine EUV di ultima generazione è ritenuto uno degli ostacoli più insormontabili dell’intera catena del valore dei microchip. L’implementazione della tecnologia ha del resto richiesto decenni di lavoro da parte di ASML, miliardi di investimenti e una stretta integrazione con fornitori che rappresentano l’eccellenza della meccanica e dell’ottica europea. Se il capitale da investire alla Cina non manca (sono stati destinati 37 miliardi all’impresa), il tempo e la ricomposizione di una filiera di fornitura autonoma rappresentano due variabili importanti che, secondo autorevoli pareri, dovevano garantire all’Occidente un vantaggio di oltre dieci anni. Ebbene, di recente questo margine potrebbe essersi assottigliato molto, almeno stando alle voci secondo cui Huawei starebbe per testare un macchinario EUV avanzato, di produzione interamente cinese. Del macchinario si sa che utilizza un sistema di produzione del plasma (per l’incisione dei transistor) di tipo diverso da quello di ASML. Un sistema la cui efficacia, scalabilità e compatibilità con altre parti del processo di lavorazione dei chip, resta da verificare. Tuttavia, se il test di Huawei si rivelasse un successo, e aprisse la strada a una produzione autoctona di macchinari EUV cinesi, ciò non solo significherebbe la perdita, per gli USA, di un’importante leva per il contenimento dell’ascesa tecnologica di Pechino ma anche un notevole danno economico, e strategico, per l’Europa, che vedrebbe ridimensionato il ruolo di ASML, uno dei suoi asset tecnologici più avanzati. UN PARADIGMA TECNOLOGICO AUTONOMO Per le aziende occidentali, sarebbe inoltre molto problematico se la Cina riuscisse, come sta provando a fare, a sviluppare macchinari basati su un paradigma tecnologico del tutto autonomo. In caso di successo, Pechino aprirebbe un fronte di sviluppo della litografia del tutto originale, con i competitor occidentali che si troverebbero di colpo a dovere inseguire e imparare (quasi) tutto da capo e soprattutto a doversi adattare a nuovi standard imposti da Pechino. Un altro fronte su cui si dispiega la strategia di Xi Jinping sui semiconduttori è il cosiddetto mercato dei “legacy chip”, ovvero i chip ai “nodi maturi”: semiconduttori non di ultimissima generazione ma essenziali per il funzionamento dell’elettronica e dell’informatica di largo consumo.  Se i chip di NVIDIA (e poche altre aziende) sono il fulcro della competizione strategica intorno allo sviluppo della AI, i “legacy chip” rappresentano l’ossatura dell’infrastruttura tecnologica globale. IL PESO DEL SEGMENTO LEGACY OVVERO I VECCHI CHIP ANCORA CONTANO Microcontrollori per elettrodomestici, circuiti integrati per veicoli, apparecchiature mediche e milioni di altri oggetti dipendono da questi semiconduttori, la cui produzione è forse meno sofisticata ma non meno strategica. Già da prima delle restrizioni di Biden, Pechino aveva messo nel mirino il segmento “legacy”, che rappresenta una fonte essenziale di entrate per storiche aziende occidentali come Intel e un elemento di cruciale sovranità tecnologica per tutti. Aziende come SMIC e Hua Hong Semiconductor stanno espandendo la loro capacità produttiva in questa fascia di mercato, con il supporto di massicci investimenti statali e incentivi fiscali. Le implicazioni di questa strategia non si limitano al semplice riequilibrio delle catene di approvvigionamento. La leadership cinese nei “legacy chip” potrebbe tradursi in un nuovo strumento di influenza tecnologica globale, fornendo a Pechino una leva nei confronti di paesi e industrie che ancora dipendono fortemente dalle forniture esterne per il loro fabbisogno di chip. La crisi globale dei semiconduttori, causata dalle interruzioni delle filiere della microelettronica durante la pandemia, ha dimostrato quanto sia pericoloso sottovalutare l’importanza dei chip tradizionali. Se la Cina riuscisse a consolidare il proprio primato in questo settore, potrebbe utilizzare la sua capacità produttiva in modo non molto diverso da ciò che l’OPEC ha fatto per decenni con il petrolio. La strategia cinese sul mercato “legacy” rischia di essere particolarmente onerosa per l’Europa. A causa dello stretto legame con l’industria automobilistica, il settore dei “legacy chip” è uno dei pochi in cui il Vecchio Continente detiene ancora quote di mercato significative. Un drastico aumento della capacità industriale cinese non avrebbe quindi solo l’effetto di rivedere al ribasso questa percentuale, ma introdurrebbe un ulteriore elemento di dipendenza dell’automotive europeo dalla Cina, in una fase già molto delicata per il comparto. C’è poi la variabile DeepSeek. Sebbene l’exploit dell’intelligenza generativa cinese non vada sopravvalutato – poiché non del tutto indipendente da tecnologie e processi occidentali – è evidente come l’ottimizzazione algoritmica di DeepSeek rappresenti una variabile potenzialmente “impazzita” per il mercato americano dei chip di fascia alta, come ha del resto testimoniato l’immediata risposta, in negativo, del titolo di NVIDIA alla diffusione della nuova AI generativa cinese. Allo stesso tempo, paradossalmente, proprio DeepSeek ha rivelato alcune delle fragilità infrastrutturali della dotazione hardware delle aziende AI cinesi, non solo a livello di chip ma anche di altri componenti cruciali come, per esempio, i sistemi di interconnessione dei server. Queste difficoltà sono altrettante testimonianze degli effetti – perlomeno nel breve termine – che il veto all’export americano ha avuto sulla microelettronica cinese. RISCHI, COSTI, LIMITI STRUTTURALI Nel lungo periodo, tuttavia, il rischio è che il regime dei veti acceleri, invece di rallentare, lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori in Cina. È un rischio rispetto al quale il CEO di NVIDIA, Jensen Huang, mette in guardia Washington da tempo. La storia dei protezionismi è del resto piena di casi in cui l’isolamento forzato ha finito per stimolare, anziché soffocare, l’innovazione interna. La logica del “deny and deter” – negare l’accesso alle tecnologie critiche per dissuadere Pechino dal competere su un piano paritario – rischia di trasformarsi in un potente incentivo all’autosufficienza. Ciò che distingue il protezionismo sui chip da esempi del passato è la combinazione di fattori che rendono l’industria dei semiconduttori particolarmente intensiva dal punto di vista del capitale, finanziario, politico e umano coinvolto. Da un lato, il costo dell’innovazione è sempre più alto: la realizzazione di una nuova fonderia di semiconduttori avanzati può superare i 20 miliardi di dollari, una barriera all’ingresso che rende difficoltosa la scalata per qualunque nuovo attore. Dall’altro, la domanda di chip non è mai stata così diffusa e pervasiva. La transizione energetica, le infrastrutture cloud, le telecomunicazioni 5G e 6G, la biotecnologia, le AI: ogni settore critico dell’economia globale dipende oggi da semiconduttori avanzati. Non si tratta di una mera questione di hardware, ma di un’infrastruttura di potere tecnologico che ridefinisce il mondo. Ed è qui che il rischio dell’effetto boomerang si fa concreto per gli Stati Uniti. Storicamente, l’egemonia tecnologica americana si è costruita non solo sul primato dell’innovazione, ma anche sulla capacità di dettare le regole del gioco attraverso il controllo dei brevetti, degli standard e delle filiere. Se la Cina aprisse la strada a un ecosistema alternativo, la curva di innovazione dei chip potrebbe sfuggire completamente, e definitivamente, dal perimetro del controllo americano. Tutto ciò avviene oltretutto in un contesto in cui l’innovazione nei semiconduttori sta raggiungendo limiti fisici sempre più estremi. La legge di Moore, che per decenni ha guidato l’industria, è prossima alla sua “fine”. E ciò si traduce, da anni, in costi di produzione in costante aumento e sfide ingegneristiche sempre più complesse. La partita, dunque, non si gioca solo sulla capacità di progettare chip sempre più avanzati, ma anche sulla capacità di immaginare sistemi computazionali alternativi ai semiconduttori. E, come racconta un recente paper di Nature, oggi la Cina produce il doppio della ricerca degli USA nel campo dei “future computing hardware” e dei “next generation chips”. L'articolo La Cina progredisce sui chip e sfida le restrizioni proviene da Guerre di Rete.