La Cina progredisce sui chip e sfida le restrizioniImmagine in evidenza: The Computer Chip di Brian Kostiuk da Unsplash
Tra gli anni ’90 e il 2016, all’epoca della iper-globalizzazione a egemonia
americana, il mondo ha assistito a un processo di divisione del lavoro su scala
planetaria. La specializzazione di distretti industriali e aree economiche nelle
attività in cui ciascuna godeva dei maggiori “vantaggi comparati” (in termini di
sviluppo, risorse, lavoro o logistica) è stata una dei motori dell’accelerazione
tecnologica degli ultimi decenni.
La possibilità di ridurre l’investimento nelle infrastrutture produttive,
spostando le lavorazioni in luoghi caratterizzati da costi inferiori (pensiamo
alla supply chain asiatica di Apple), ha permesso all’industria dell’hardware di
liberare immensi capitali da investire nell’innovazione. Tra i settori che hanno
cavalcato più intensamente queste dinamiche c’è quello dei microchip (o
semiconduttori): l’oggetto tecnologico alla base di tutte le tecnologie, dal
banale termostato ai sistemi di guida delle testate nucleari, dalle batterie dei
veicoli elettrici ai server per l’addestramento delle intelligenze artificiali.
IL MODELLO DELLE FOUNDRY, LE FABLESS E LA DIVISIONE DEL LAVORO
Negli ultimi trent’anni, le aziende di chip dal maggiore valore di mercato,
quasi tutte americane, hanno iniziato ad appaltare gran parte della loro
attività di manifattura all’estero, in paesi come Taiwan e la Corea del Sud,
dove hanno trovato personale qualificato (i chip richiedono ingegneri molto
formati in tutte le fasi della lavorazione) con un costo del lavoro decisamente
inferiore. Ha così preso piede, soprattutto nella regione dell’Indo-Pacifico, il
modello delle “foundry”: aziende di manifattura avanzatissima, che fabbricano
chip per conto di aziende occidentali, le quali possono così concentrarsi sulla
curva dell’innovazione, che nei chip si incarna nella celebre “legge di Moore”
(ovvero l’osservazione che il numero di transistor contenuti in un chip
raddoppia ogni due anni).
Sui presupposti di questa divisione del lavoro è nato addirittura un nuovo
modello di azienda: le cosiddette “fabless”. Scaricate interamente dai costi
fissi, le “fabless” non possiedono stabilimenti di produzione e si occupano
soltanto dell’ideazione di nuovi chip sempre più performanti. La più nota di
queste aziende è NVIDIA, divenuta negli ultimi anni il perno materiale
dell’evoluzione delle AI.
LA SVOLTA PROTEZIONISTICA SUI CHIP
Fino a qualche anno fa, l’estrema globalizzazione della catena del valore dei
chip – proprietà intellettuali USA, progettate con software anglo-israeliani,
riversate da macchinari olandesi su silicio giapponese usando componenti chimici
cinesi dentro fabbriche taiwanesi – era considerata una grande festa per tutti:
la tecnologia evolveva e i profitti crescevano. Non è più così: da qualche anno
gli Stati, USA in testa, hanno deciso che il chip, in quanto “tecnologia di
tutte le tecnologie”, è un oggetto troppo strategico – e soprattutto troppo
determinante per i rapporti di potenza – per essere lasciato in balia del
mercato.
E così, già nel 2016, Obama chiamava Angela Merkel e vietava la vendita alla
Cina di Aixtron, un’azienda tedesca di componenti chimici per microelettronica,
dopodiché Trump faceva la guerra a Huwaei (anche sui chip) e, infine, Biden
dedicava ai semiconduttori gran parte della sua azione normativa in campo
internazionale. Dopo aver firmato, nell’agosto 2022, il CHIPS and Science Act,
un piano di investimenti per la ricostruzione della manifattura americana dei
semiconduttori, nell’ottobre 2022 Biden ha proclamato ufficialmente una serie di
restrizioni senza precedenti all’export di chip avanzati verso la Cina.
Il pacchetto di norme non si limitava a proibire la vendita diretta di chip di
ultima generazione a Pechino, ma imponeva anche vincoli sulla cessione di
macchinari per la loro produzione, sulla condivisione di ricerche e di brevetti
e sull’assunzione di personale specializzato da parte di aziende cinesi.
L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era solo quello di mantenere il
vantaggio tecnologico delle aziende americane, ma, se possibile, di
ritardare/arretrare lo sviluppo della microelettronica cinese (con ricadute a
cascata su tutte le tecnologie, incluse quelle militari).
Le ripercussioni sulle catene del valore sono state notevoli. Giganti del
settore come NVIDIA si sono visti costretti a rivedere le proprie strategie di
mercato, mentre colossi della manifattura come la coreana Samsung e la taiwanese
TSMC (la più importante “foundry” del mondo) si sono trovate a navigare un campo
minato di regolamentazioni sempre più stringenti. La questione ha avuto anche
riflessi politici: l’applicazione delle normative ha richiesto grandi sacrifici
economici da parte di aziende e paesi alleati degli USA, con costi diplomatici
non trascurabili.
LA CORSA CINESE PER UN’INDUSTRIA AUTOCTONA
La conseguenza più significativa della decisione di Biden è stata tuttavia
quella di aver costretto la Cina a intensificare gli sforzi per accelerare lo
sviluppo di un’industria autoctona di chip avanzati. La reazione cinese si è
mossa finora su molteplici livelli, dal sostegno diretto dello Stato alla
ricerca fino alla riorganizzazione delle catene di approvvigionamento interne.
Pechino ha aumentato in modo significativo i finanziamenti al settore, puntando
su colossi nazionali come SMIC (Semiconductor Manufacturing International
Corporation) e YMTC (Yangtze Memory Technologies), le punte di diamante del suo
sistema industriale.
Nel solco di quanto avvenuto in altri ambiti, come la mobilità elettrica, il
sostegno di Pechino non è solo finanziario ma anche normativo, logistico e
strategico: sono stati varati piani per il rafforzamento della supply chain dei
semiconduttori, a partire dalle materie prime, e sono stati dispiegati incentivi
per attirare talenti stranieri aggirando le restrizioni di Washington.
Nel breve periodo, la Cina ha inoltre adottato soluzioni creative per superare i
vincoli internazionali. Una di queste è la pratica del cosiddetto “chip
laundering”, ovvero l’importazione di chip avanzati attraverso paesi terzi, come
Singapore o gli Emirati Arabi Uniti, che sfuggono ai controlli più stringenti
degli USA. Inoltre, il governo cinese ha incentivato l’acquisto massiccio di
chip prima che le restrizioni entrassero in vigore, accumulando scorte
strategiche per le proprie industrie high-tech e per il settore della difesa. La
vera partita tuttavia è sul lungo periodo. E su questo fronte Pechino sta
spingendo sull’acceleratore dell’innovazione, con l’obiettivo di ridurre la
dipendenza da fornitori occidentali per tutte le tecnologie più critiche
coinvolte nella produzione di chip.
LA SCOMMESSA SUI MACCHINARI LITOGRAFICI E LA SUPREMAZIA EUROPEA
Un esempio è lo sviluppo dei macchinari litografici a ultravioletto estremo
(EUV), ovvero le macchine con cui, tramite un processo quasi fantascientifico,
si “stampano” transistor molto più piccoli di un virus. Per la stampa dei chip
più avanzati, il settore è oggi un monopolio di fatto di una singola azienda,
l’olandese ASML, a cui gli USA hanno imposto il veto all’export cinese,
attraverso un’azione diplomatica che, nel 2023, ha visto direttamente coinvolto
il governo olandese (all’epoca guidato dall’attuale Segretario Generale della
NATO Mark Rutte).
Lo sviluppo autonomo di macchine EUV di ultima generazione è ritenuto uno degli
ostacoli più insormontabili dell’intera catena del valore dei microchip.
L’implementazione della tecnologia ha del resto richiesto decenni di lavoro da
parte di ASML, miliardi di investimenti e una stretta integrazione con fornitori
che rappresentano l’eccellenza della meccanica e dell’ottica europea. Se il
capitale da investire alla Cina non manca (sono stati destinati 37 miliardi
all’impresa), il tempo e la ricomposizione di una filiera di fornitura autonoma
rappresentano due variabili importanti che, secondo autorevoli pareri, dovevano
garantire all’Occidente un vantaggio di oltre dieci anni. Ebbene, di recente
questo margine potrebbe essersi assottigliato molto, almeno stando alle voci
secondo cui Huawei starebbe per testare un macchinario EUV avanzato, di
produzione interamente cinese.
Del macchinario si sa che utilizza un sistema di produzione del plasma (per
l’incisione dei transistor) di tipo diverso da quello di ASML. Un sistema la cui
efficacia, scalabilità e compatibilità con altre parti del processo di
lavorazione dei chip, resta da verificare. Tuttavia, se il test di Huawei si
rivelasse un successo, e aprisse la strada a una produzione autoctona di
macchinari EUV cinesi, ciò non solo significherebbe la perdita, per gli USA, di
un’importante leva per il contenimento dell’ascesa tecnologica di Pechino ma
anche un notevole danno economico, e strategico, per l’Europa, che vedrebbe
ridimensionato il ruolo di ASML, uno dei suoi asset tecnologici più avanzati.
UN PARADIGMA TECNOLOGICO AUTONOMO
Per le aziende occidentali, sarebbe inoltre molto problematico se la Cina
riuscisse, come sta provando a fare, a sviluppare macchinari basati su un
paradigma tecnologico del tutto autonomo. In caso di successo, Pechino aprirebbe
un fronte di sviluppo della litografia del tutto originale, con i competitor
occidentali che si troverebbero di colpo a dovere inseguire e imparare (quasi)
tutto da capo e soprattutto a doversi adattare a nuovi standard imposti da
Pechino.
Un altro fronte su cui si dispiega la strategia di Xi Jinping sui semiconduttori
è il cosiddetto mercato dei “legacy chip”, ovvero i chip ai “nodi maturi”:
semiconduttori non di ultimissima generazione ma essenziali per il funzionamento
dell’elettronica e dell’informatica di largo consumo. Se i chip di NVIDIA (e
poche altre aziende) sono il fulcro della competizione strategica intorno allo
sviluppo della AI, i “legacy chip” rappresentano l’ossatura dell’infrastruttura
tecnologica globale.
IL PESO DEL SEGMENTO LEGACY OVVERO I VECCHI CHIP ANCORA CONTANO
Microcontrollori per elettrodomestici, circuiti integrati per veicoli,
apparecchiature mediche e milioni di altri oggetti dipendono da questi
semiconduttori, la cui produzione è forse meno sofisticata ma non meno
strategica. Già da prima delle restrizioni di Biden, Pechino aveva messo nel
mirino il segmento “legacy”, che rappresenta una fonte essenziale di entrate per
storiche aziende occidentali come Intel e un elemento di cruciale sovranità
tecnologica per tutti. Aziende come SMIC e Hua Hong Semiconductor stanno
espandendo la loro capacità produttiva in questa fascia di mercato, con il
supporto di massicci investimenti statali e incentivi fiscali.
Le implicazioni di questa strategia non si limitano al semplice riequilibrio
delle catene di approvvigionamento. La leadership cinese nei “legacy chip”
potrebbe tradursi in un nuovo strumento di influenza tecnologica globale,
fornendo a Pechino una leva nei confronti di paesi e industrie che ancora
dipendono fortemente dalle forniture esterne per il loro fabbisogno di chip.
La crisi globale dei semiconduttori, causata dalle interruzioni delle filiere
della microelettronica durante la pandemia, ha dimostrato quanto sia pericoloso
sottovalutare l’importanza dei chip tradizionali. Se la Cina riuscisse a
consolidare il proprio primato in questo settore, potrebbe utilizzare la sua
capacità produttiva in modo non molto diverso da ciò che l’OPEC ha fatto per
decenni con il petrolio.
La strategia cinese sul mercato “legacy” rischia di essere particolarmente
onerosa per l’Europa. A causa dello stretto legame con l’industria
automobilistica, il settore dei “legacy chip” è uno dei pochi in cui il Vecchio
Continente detiene ancora quote di mercato significative. Un drastico aumento
della capacità industriale cinese non avrebbe quindi solo l’effetto di rivedere
al ribasso questa percentuale, ma introdurrebbe un ulteriore elemento di
dipendenza dell’automotive europeo dalla Cina, in una fase già molto delicata
per il comparto.
C’è poi la variabile DeepSeek. Sebbene l’exploit dell’intelligenza generativa
cinese non vada sopravvalutato – poiché non del tutto indipendente da tecnologie
e processi occidentali – è evidente come l’ottimizzazione algoritmica di
DeepSeek rappresenti una variabile potenzialmente “impazzita” per il mercato
americano dei chip di fascia alta, come ha del resto testimoniato l’immediata
risposta, in negativo, del titolo di NVIDIA alla diffusione della nuova AI
generativa cinese.
Allo stesso tempo, paradossalmente, proprio DeepSeek ha rivelato alcune delle
fragilità infrastrutturali della dotazione hardware delle aziende AI cinesi, non
solo a livello di chip ma anche di altri componenti cruciali come, per esempio,
i sistemi di interconnessione dei server. Queste difficoltà sono altrettante
testimonianze degli effetti – perlomeno nel breve termine – che il veto
all’export americano ha avuto sulla microelettronica cinese.
RISCHI, COSTI, LIMITI STRUTTURALI
Nel lungo periodo, tuttavia, il rischio è che il regime dei veti acceleri,
invece di rallentare, lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori in Cina. È
un rischio rispetto al quale il CEO di NVIDIA, Jensen Huang, mette in guardia
Washington da tempo. La storia dei protezionismi è del resto piena di casi in
cui l’isolamento forzato ha finito per stimolare, anziché soffocare,
l’innovazione interna. La logica del “deny and deter” – negare l’accesso alle
tecnologie critiche per dissuadere Pechino dal competere su un piano paritario –
rischia di trasformarsi in un potente incentivo all’autosufficienza.
Ciò che distingue il protezionismo sui chip da esempi del passato è la
combinazione di fattori che rendono l’industria dei semiconduttori
particolarmente intensiva dal punto di vista del capitale, finanziario, politico
e umano coinvolto. Da un lato, il costo dell’innovazione è sempre più alto: la
realizzazione di una nuova fonderia di semiconduttori avanzati può superare i 20
miliardi di dollari, una barriera all’ingresso che rende difficoltosa la scalata
per qualunque nuovo attore.
Dall’altro, la domanda di chip non è mai stata così diffusa e pervasiva. La
transizione energetica, le infrastrutture cloud, le telecomunicazioni 5G e 6G,
la biotecnologia, le AI: ogni settore critico dell’economia globale dipende oggi
da semiconduttori avanzati. Non si tratta di una mera questione di hardware, ma
di un’infrastruttura di potere tecnologico che ridefinisce il mondo.
Ed è qui che il rischio dell’effetto boomerang si fa concreto per gli Stati
Uniti. Storicamente, l’egemonia tecnologica americana si è costruita non solo
sul primato dell’innovazione, ma anche sulla capacità di dettare le regole del
gioco attraverso il controllo dei brevetti, degli standard e delle filiere. Se
la Cina aprisse la strada a un ecosistema alternativo, la curva di innovazione
dei chip potrebbe sfuggire completamente, e definitivamente, dal perimetro del
controllo americano.
Tutto ciò avviene oltretutto in un contesto in cui l’innovazione nei
semiconduttori sta raggiungendo limiti fisici sempre più estremi. La legge di
Moore, che per decenni ha guidato l’industria, è prossima alla sua “fine”. E ciò
si traduce, da anni, in costi di produzione in costante aumento e sfide
ingegneristiche sempre più complesse.
La partita, dunque, non si gioca solo sulla capacità di progettare chip sempre
più avanzati, ma anche sulla capacità di immaginare sistemi computazionali
alternativi ai semiconduttori. E, come racconta un recente paper di Nature, oggi
la Cina produce il doppio della ricerca degli USA nel campo dei “future
computing hardware” e dei “next generation chips”.
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