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Alberto Méndez / Vivere come uno fra i tanti girasoli ciechi
La Valle de Los Caidos oggi è tornata a chiamarsi Valle de Cuelgamuros, il nome che aveva prima che Francisco Franco decidesse di deturpare questa parte della sierra de Guadarrama con il suo triste mausoleo. Progettato per essere il monumento a cielo aperto del fascismo spagnolo, il caso volle che Josè Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange Española, e Franco e morissero lo stesso giorno, il 20 novembre. Il primo fucilato dai repubblicani nel 1936 e il secondo nel 1975, ma di morte naturale dopo una troppo lunga vita. Entrambi furono solennemente sepolti sotto l’altare della tetra chiesa scavata nel granito sotto un’enorme croce, la più alta d’Europa. Fuori dalla porta della chiesa, in un enorme terrapieno, sono sepolti 40.000 caduti della guerra civile, più o meno a metà tra repubblicani e nazionalisti. L’opera venne costruita a partire dal 1940 per essere finita nel 1958, e fu opera dei prigionieri repubblicani costretti ai lavori forzati per quasi vent’anni. Gli storici non hanno consolidato un dato certo sui morti per la repressione che si scatenò successivamente alla fine della Guerra civile, ma alcune fonti riportano la stima di 200.000 persone. Per popolare la più grande fossa comune della storia europea, le autorità franchiste ordinarono l’esumazione dalle molte fosse comuni disseminate nella Spagna per riunire i morti repubblicani senza nome e deporli ai piedi dei corpi di Franco e de Rivera. Alcune fonti affermano che furono sepolti lì anche i numerosi morti sul lavoro e alcuni fucilati quando non erano più necessari alla costruzione. Nemico giurato di questa macabra e falsa opera di riconciliazione – almeno così era stata fatta passare con ipocrisia dalla propaganda dell’epoca – il Primo Ministro Pedro Sanchez ha ordinato il trasloco delle salme del dittatore e del suo compare, e ha ordinato lo smantellamento di ogni riferimento a quello che era di fatto un luogo di incontro di fascisti e nostalgici del regime. Salgo a piedi i sei chilometri che conducono al mausoleo fascista dalla strada della Guadarrama, tra pini e pareti di granito solcate dai torrenti, e mi avvicino alla croce alta 150 metri, sempre più grande e impressionante. Poche automobili mi passano a fianco e forse pensano a quanto sia risoluto quel camerata che procede a piedi verso il più ingombrante e brutto residuo del fascismo spagnolo. Mentre percorro la valle bellissima del Cuelgamuros, mi tornano in mente le pagine più toccanti de I girasoli ciechi, l’unico romanzo lasciatoci da Alberto Méndez, e pubblicato in Spagna nel 2004. Mendéz, nato nel 1941, aveva vissuto sotto il tallone della dittatura e il suo romanzo affronta i problemi centrali in cui ancora oggi l’intera Spagna si dibatte, quello delle memorie personali, della realtà del conflitto, della lunga e frustrante repressione in un’Europa che avrebbe dovuto debellare anche il loro fascismo dal 1945 e non lo fece, e della difficoltà a costruire una storia pubblica. Se oggi solo qualche coglione sventola sul piazzale la bandiera spagnola o si rizza nel saluto a mano tesa, le polemiche che hanno coinvolto per decenni la Valle de los Caidos sono state momentaneamente risolte spogliandola di ogni riferimento esplicito al fascismo, ma non si è ancora affrontata l’idea di farne un museo a cielo aperto della repressione falangista, cercando di collegare le memorie degli sconfitti con la storia ufficiale e riscrivere radicalmente il significato di quei luoghi ridotti a lager e a campo di lavoro forzato. Mentre cammino nella solitudine di un cielo terso e settembrino, le vicende e i personaggi de I girasoli ciechi non mi danno tregua e assumono in questo luogo un significato più concreto. Sono quattro storie interdipendenti che raccontano una sconfitta che non è solo dei repubblicani ma dell’intera Spagna, costretta a vivere per decenni in una società malsana animata da odio, vendetta e sospetto. I protagonisti dei racconti sono accumunati dall’essersi trovati a causa della guerra civile in condizioni esistenziali tali da spingerli a rifiutare la vita. Sono un nazionalista che si arrende al nemico nel giorno della resa di Madrid, un giovane padre nascosto nella sierra che si affaccia all’inverno con la moglie morta e un neonato da tenere in vita, un prigioniero in attesa della fucilazione, un intellettuale nascosto in un piccolo vano del suo appartamento. Sono quattro vicende personali in cui sono presenti gli spunti paradossali e surreali cari alla letteratura di lingua spagnola, ma immediatamente calati nel realismo della vicenda storica che il lettore conosce come tragica. Se i protagonisti del romanzo o sono d’invenzione o ripropongono vicende personali realmente accadute, i personaggi che completano la narrazione provengono dalla storia dell’assedio di Madrid, come il colonnello Miguel Eymar, responsabile della fucilazione di migliaia di militari repubblicani e dei loro parenti, e di semplici simpatizzanti, o come Edoardo López, il militante e poi dirigente del Partido Comunista di España, chiuso nella prigione in cui Eymar compie con zelo il suo compito di eliminare fisicamente i nemici della Patria, che nella realtà storica riuscirà a raggiungere l’Unione Sovietica e salvarsi. Il cimitero dell’Almudena di Madrid è intimamente legato alle vicende della terza storia, intitolata “La lingua dei morti” e ambientata nel 1941, ed è la logica prosecuzione spaziale della narrazione di Mendéz. Oggi all’Almudena, poco lontano dalle tombe di Dolores Ibárruri e Francisco Largo Caballero, è sepolto proprio Edoardo López, sulla cui lapide spiccano la falce e il martello che ricorda a tutti i visitatori la sua appartenenza e gli ideali per cui ha combattuto. Ma intorno a lui i colori della repubblica (rosso, giallo e viola), le scritte che richiamano ai partiti operai, i simboli della lotta al fascismo maculano il cimitero fino al muro di mattoni rossi che fu uno dei luoghi delle fucilazioni. Nei cimiteri, dopo un’estrema unzione, i repubblicani veniva uccisi e sotterrati, come raccontano Paco Roca e Rodrigo Terrasa nell’eccezionale storia fumetti intitolata L’abisso dell’oblio (Tunué, 2023). Qualche fiore e la bandiera segnano, spesso senza nessun’altra spiegazione, i luoghi della memoria spagnola. Ma il muro dove avvennero le oltre 3000 fucilazioni a cui si riferisce “La lingua dei morti” è dall’altra parte del cimitero, a fianco dell’entrata principale, dove trovarono la morte anche las trece rosas, le tredici giovanissime donne uccise per un attentato a cui non presero parte. Quando I girasoli ciechi viene pubblicato nel 2004, la Spagna era già dilaniata in uno scontro politico e culturale sulla dittatura che non si è risolto neppure oggi e vede un partito dell’oblio opporsi con violenza a un partito della memoria. In tutta la nazione sono evidenti i segni delle contraddizioni e delle lotte che sono state portate avanti anche dai partiti istituzionali e durante i governi diretti da José Luis Rodríguez Zapatero e Pedro Sánchez. Tutta la narrativa spagnola, compreso autori del fumetto tra cui spiccano Paco Roca ed Eduard Altarriba, è impegnata nel progetto di tradurre in novel le storie familiari come paradigmi di una lotta che ha coinvolto tutta la popolazione spagnola, dalle famiglie più della classe operaia e contadina fino agli intellettuali, e che per la parte repubblicana hanno rappresentato una sconfitta personale e collettiva, un’umiliazione che si è protratta per anni senza mai una reale riconciliazione. Contrapposizioni aspre che la sinistra italiana, pur nella diversità delle due esperienze, invece, per quanto riguarda il fascismo mussoliniano, ha progressivamente attenuato nel tempo fino a farle scomparire cedendo a un patetico revisionismo storico. È bene leggere il capitolo di Contro l’identità italiana di Christian Raimo (Einaudi, 2019) dedicato al commento sul triste appello di Luciano Violante a favore dei “ragazzi di Salò” per capire come in Spagna, a partire da romanzi come I girasoli ciechi, non si chieda riconciliazione ma giustizia, se non vendetta. Sarebbe un errore, ci ammonisce Mendéz con le sue pagine, considerare la Guerra civile spagnola conclusa nel 1939, anzi il romanzo inizia proprio con la fine del conflitto militare, perché la guerra è proseguita fino alla fine del 1975. Quello che si è modificato nel 1939 è la struttura dei contendenti, per tre anni i nazionalisti avevano combattuto contro l’esercito repubblicano e una parte della popolazione civile, poi il conflitto era continuato contro una parte della popolazione disarmata senza un esercito che la difendesse. Nell’esordio del romanzo, intitolato “Prima sconfitta: 1939”, Mendéz descrive l’incredibile resa del capitano Alegría all’armata repubblicana. Un’azione inspiegabile, visto che è l’ultimo giorno di guerra, Madrid è caduta e lo stremato esercito repubblicano si sta consegnando ai suoi aguzzini, ma che è diretta conseguenza di un imperativo morale che lo obbliga a “non voler far parte della vittoria”. Mendéz costruisce il personaggio di Alegría affidandogli la razionalità della narrazione, una razionalità che viene mostrata progressivamente e a partire da quella che nella realtà della vicenda come in quella del lettore sembra la scelta di un pazzo. Eppure, pensiero dopo pensiero, Alegría si pone al di sopra dell’ideologia e della propaganda, spiegando al tribunale militare nazionalista che lo sta giudicando per diserzione, che non voleva vincere quella guerra perché non c’erano stati veramente ideali da difendere o valori da proteggere, ma solo la volontà di ammazzare tutti gli avversari. E storicamente è stato così, perché dopo la caduta di Madrid e Barcellona, la guerra è continuata. La vittoria nazionalista non è consistita solo nella conquista del potere, ma nell’eliminazione fisica, psichica e sociale di coloro che si erano riconosciuti nella Seconda Repubblica. Mendéz parla ai lettori con le parole dirette e coraggiose affidate all’eloquio di Alegría dei “soldati vittoriosi come di persone estranee alla vita, assenti da se stessi che si trasformeranno in carne di sconfitti”. Annientati da un vincitore reale che ha sconfitto l’esercito repubblicano e il proprio. La seconda sconfitta è datata nell’anno terribile della fuga: il 1940. La retirada republicana inizia nel gennaio del 1939 con la caduta di Barcellona, con i profughi diretti verso le città andaluse nella speranza di un imbarco, dove vennero trucidati a migliaia, o verso la Francia, dove oltre 500.000 persone affrontarono il valico dei Pirenei d’inverno. Con la caduta di Madrid, molti si allontanano dalla città diretti verso la sierra a nord, senza una vera speranza di raggiungere il confine ma solo di sfuggire alla repressione. Per coloro che saranno catturati si apre una realtà di fucilazioni, carcere indefinito e torture, per gli altri l’alternativa al suicidio è nascondersi. La sconfitta del 1940 che racconta le vicende di Eulalio Caballos Suárez si svolge sulle montagne delle Asturie. Bloccato in una baita con la moglie e il figlio neonato, attende l’inverno e la morte inevitabile. Lontano dal confine, questo giovanissimo poeta scrive un breve diario in attesa del freddo insopportabile, della fame, dei lupi e dell’inedia. L’espediente del manoscritto ritrovato ha una corrispondenza nel racconto “Diario del partigiano anonimo” di Angelo Del Boca (in Storie della Resistenza, Sellerio, 2013), ambientato in Val Trebbia nell’inverno del 1944, in cui al disgelo primaverile le pagine scritte in attesa della morte nella bufera sono tutto ciò che rimane di un combattente senza nome. Nel racconto di Mendéz la parola “sconfitta” è ripetuta più volte. Suárez afferma che è contagiosa e se mai riuscirà ad abbandonare la baita, ovunque il suo odore lo perseguiterà. Lui che si è gettato nel campo di battaglia con un foglio di carta e una matita è incaricato da Mendéz di rappresentare quello che lui stesso ha vissuto durante la dittatura, la condanna infinita a una vita di emarginazione. La terza sconfitta è del 1941 ed è la storia di un inganno. Juan Senra, un giornalista comunista ridotto a “cicatrice d’uomo” dal carcere e dall’attesa di un processo la cui sentenza è scontata, riesce a manipolare i propri accusatori e rimandare la sua condanna a morte, mentre i suoi compagni di prigionia vengono rapidamente condotti al muro delle fucilazioni dell’Almudeva. Ma la consapevolezza della precarietà della sua salvezza e il dolore continuo di vedere i suoi compagni abbandonare il carcere per salire sui camion che li conducono alla morte lo inducono a una ribellione solo morale e ad accettare la sconfitta totale che si concluderà con la sua fucilazione e la sepoltura nella fossa comune. Il romanzo si conclude con la quarta sconfitta ambientata nel 1942, in una casa borghese del quartiere Salamanca a Madrid. La caccia ai repubblicani non è terminata, e un uomo dato per morto si nasconde per mesi nel suo appartamento. Come nel racconto precedente, che opponeva lo spietato giudice militare al carcerato, qui si contrappongono un intellettuale prigioniero nella propria casa e un prete squallido e fanatico in preda a un’attrazione erotica morbosa. La narrazione interseca la cronaca della famiglia che cerca di far apparire normale la drammatica esistenza reale, mentre chiusa tra le quattro mura vive un’esperienza sociale schizofrenica, la confessione del prete a un suo superiore che rivela la sua frustrazione e la schizofrenia interiore, che vive diviso tra un’incontrollabile pulsione erotica e l’armamentario ideologico e religioso entro cui è stato formato, e la rievocazione della vicenda, anni dopo, da quello che era il bambino osservatore del dramma emotivo e politico che si svolgeva nella sua famiglia chiusa nell’appartamento. L’assurdità della vicenda, surreale e tragica al contempo, cerca di dare corpo non all’eccezionalità ma di quella che è diventata la normalità del nuovo ordine imposto dal falangismo e dalla versione più criminale del cattolicesimo novecentesco. Mendéz scrive infatti che “erano i tempi dell’incomprensibilità e nessuno cercava di capire ciò che accadeva”. Il girasole cieco del titolo, evocato alla chiusura della narrazione, è la metafora di coloro che, indipendentemente dalla parte con cui sono schierati, dopo un’immensa tragedia di dolore, di violenza e morte, non potranno che vivere senza più capire dove voltarsi per seguire il sole nel suo cammino. [foto © Domenico Gallo]   L'articolo Alberto Méndez / Vivere come uno fra i tanti girasoli ciechi proviene da Pulp Magazine.
Curzio Malaparte / Amarezza di uno “straniero”
Inspiegabile è l’oblio che nei decenni posteriori alla sua scomparsa ha colpito in Italia Curzio Malaparte, l’Arcitaliano, come amava definirsi, in realtà nato Curt Erich Suckert (1898-1957), pratese di padre tedesco e di confessione luterana. Senza ombra di dubbio uno dei nostri più grandi scrittori e giornalisti del ’900, le cui opere più importanti, Kaputt e La pelle, sono universalmente note e – a nostro probabile disdoro – assai più celebrate all’estero che in patria. Inspiegabile, dicevamo, e imperdonabile oblio quanto alla forza letteraria dello stile e alla pregnanza sconvolgente dei temi affrontati nei suoi libri, come, nella sua vita tumultuosa e straordinaria, alla contraddittoria e contorta (ci sembrerebbe in verità ingiusto usare l’aggettivo “ambigua” per definirla) traiettoria ideologica e politica che lo vide piroettare, sempre in sella ad un bianco destriero, dall’anarchismo giovanile al fascismo intransigente degli anni ’20, dalla fronda fascista degli anni ’30 alla cobelligeranza con gli Alleati dopo il ’43, fino al comunismo e al maoismo degli anni ’50, e – ma la dibattuta questione resta assai dubbia quanto quella analoga del suo ispiratore Bonaparte – alla conversione in articulo mortis al cattolicesimo. Voltagabbanismo per alcuni, percorso tortuoso ma sostanzialmente coerente per altri (dal fascismo di sinistra al comunismo totalitario): identica damnatio memoriae che lo accomuna a un altro gigante letterario, Louis-Ferdinand Céline con il quale intrattenne rapporti cordiali (tanto da devolvere generosamente gli introiti di un premio ricevuto per sostenere lo scrittore francese ancora imprigionato in Danimarca per collaborazionismo) e condivise con lui, oltre all’autofiction, all’espressionismo letterario e all’invenzione stilistica (non però, quella malapartiana, altrettanto sperimentale di quella celiniana), anche, in periodi diversi, le grazie di Jean Voilier, compagna del comune editore Denoël (e in seguito editrice a sua volta dopo il misterioso omicidio di lui nel ’45). Da anni Adelphi sta per fortuna ripubblicandone l’opera integrale reintegrandola come merita nel novero di quelle imprescindibili: dopo Kaputt (2009), La pelle (2010), Il ballo al Kremlino (2012), Tecnica del colpo di stato (2011), Maledetti toscani (2017), Il buonuomo Lenin (2018), Coppi e Bartali (2009), è ora la volta di Giornale di uno straniero a Parigi, diario scritto direttamente in francese (la presente edizione ne riporta anche il testo originale) nel 1947, al ritorno in Francia dopo 14 anni di lontananza, e mai dato alle stampe in vita. Momentaneamente abbandonata l’Italia dell’immediato dopoguerra, per evitare imbarazzanti rinfacciamenti del suo passato fascista (dopo aver rinunciato all’amnistia e subito un processo in cui era stato assolto), non immagina che la sua “seconda patria” possa riservargli un destino ancora peggiore. Giunge a Parigi senza la minima intenzione di confondersi con altri transfughi con troppe cose da far dimenticare, personaggi come i rumeni Eliade o Cioran, e il suo modello di esilio parigino vorrebbe piuttosto modellarsi su quello di D’Annunzio nel 1910, per sfuggire non all’epurazione ma ai creditori. Lo accompagna un altro italiano di successo, recentemente convertito come lui dal fascismo all’antifascismo, Roberto Rossellini, reduce dai due manifesti cinematografici dell’Italia risorta, Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) – dopo aver firmato pochi anni prima i fascistissimi La nave bianca nel 1941 e Un pilota ritorna nel 1942, sceneggiati addirittura dal figlio maggiore del duce, Vittorio Mussolini – trasformismo e voltagabbanismo, dunque, non possono certo imputarsi al solo Malaparte. Appena arrivato rilascia interviste in cui non si presenta affatto come un fascista pentito o involontario ma, mentendo spudoratamente o esagerando in modo paradossale il suo frondismo, come un oppositore confinato a Lipari per cinque anni (in realtà la pena, in condizioni privilegiate, durò meno della metà e fu causata da uno scontro personale, non ideologico, con Italo Balbo: Malaparte venne poi perdonato e reintegrato da Ciano in persona…), e addirittura come dimissionario dal PNF fino dal 1931 per non aver accettato, in quanto protestante, le conseguenze dei Patti Lateranensi: fanfaronate tali da screditarlo, più che giustificarlo agli occhi dei francesi. Il suo passato giovanile di volontario della Legione Garibaldina e di combattente a Bligny in difesa della Francia nella Prima guerra mondiale però, gli assicurarono, pur con tutte le diffidenze, la concessione del permesso di soggiorno. In quegli anni il pregiudizio antitaliano da parte dei francesi è giunto all’apice e il “colpo di pugnale nella schiena” del ’40 – mai nominato ai tempi di Vichy, quando si contava sugli italiani per moderare i tedeschi – è tornato in auge; intanto i trattati di pace ci hanno lasciato fortunosamente la Val d’Aosta ma hanno consegnato Briga, Tenda e il Moncenisio ai “cugini” d’oltralpe. In quel clima assai poco favorevole Malaparte, mentre completa la composizione di La pelle, che uscirà di lì a poco con successo, in anticipo sull’edizione italiana, è a tutti gli effetti un isolato e quasi un reietto – considerato spesso filotedesco, fascista, collaborazionista –  il suo anticomunismo (non si è ancora convertito) gli aliena le simpatie di Sartre e degli esistenzialisti, come quelle di Breton, Eluard, Aragon e dei surrealisti; Camus e Malraux lo disprezzano, Mauriac lo rimprovera, Montherlant lo ignora, Drieu la Rochelle – che forse potrebbe capirlo – si è suicidato da tempo, Céline lo ringrazia per lettera ma è ancora in prigione in Danimarca; solo Blaise Cendrars e, in parte, Jean Cocteau, che hanno apprezzato Kaputt, gli attestano stima e amicizia. L’amarezza e la delusione per questa condizione di étranger “nella doppia accezione di ‘straniero’ ed ‘estraneo’“come scrive Monica Zanardo nella bella postfazione, traspaiono abbondantemente nel testo oltre che nel titolo dell’opera, una malinconia e uno sguardo nostalgico al passato che si incarnano nell’idealizzazione della figura letteraria di Chateaubriand che ricorre, quasi ossessivamente, in tutta la seconda parte del libro: “Mi piace Chateaubriand, benchè non mi somigli. Mi piace in lui il costante disprezzo degli uomini nuovi, la fedeltà, solo apparente, alle antiche idee, ai costumi, ai gusti, ai piaceri, alle pene, ai sentimenti, ai piaceri della vecchia Francia, nella quale, checchè ne dica in ogni occasione, non credeva più. Mi piace l’amore nascosto per le idee nuove, per la Francia nuova, per la gloria nuova. Eppure niente di materiale mi lega a questa vecchia Francia, a questa vecchia Italia, a questa vecchia Europa che ho visto, che vedo morire. Non rimpiango né privilegi né onori, niente. Dall’antica Europa non ho avuto nulla, se non botte e prigione. Non riceverò niente di meglio da questa nuova Europa, da questa nuova Italia”. Malaparte lavora alacremente, conclude La pelle, scrive il suo Giornale e mette in scena due testi teatrali scritti in francese, Du coté de chez Proust e Das Kapital, in cui scomoda due icone della modernità come Proust e Marx oltre che divi come Pierre Fresnay (che accetta la parte) e Michel Simon (che dopo lunghe riflessioni rifiuta) per ottenere due insuccessi incresciosi di critica e di pubblico. Una delle stroncature più aspre, quella di Francis Ambrière per la rivista “Opéra”, giunge a paragonare il pubblico che lascia la sala prima della fine dello spettacolo alle colonne dei profughi dell’esodo del 1940 “mitragliate dai vecchi amici di Malaparte”. La misura è colma, è la constatazione del fallimento, di poco alleviata dal contemporaneo successo internazionale (Francia compresa) de La pelle, uscito nel 1949: in quello stesso anno Malaparte riattraversa le Alpi e torna in Italia (ufficialmente a causa della nostalgia per la patria, e addirittura perché “il suo cane è malato e ha bisogno di lui”, mentre tutti i parigini lo incitavano a restare…), in realtà abbandona perfino la scrittura del diario, troppo rivelatore del suo stato d’animo, e ogni ipotesi di futura pubblicazione. Chissà se lo consolerebbe sapere di quanto la sua fama postuma, tributatagli nel paese che allora lo rifiutò, oltrepassi tutt’ora quella di cui gode nel suo paese d’origine. L'articolo Curzio Malaparte / Amarezza di uno “straniero” proviene da Pulp Magazine.
Gitta Sereny / Comprendere Albert Speer
Gitta Sereny (1921-2012) è stata una giornalista e storica, a tutti gli effetti britannica, per quanto, figlia di un principe ungherese e di un’attrice ebrea di Amburgo, parlasse perfettamente tedesco e non avesse mai abbandonato le sue radici germaniche. Vissuta a Vienna fino all’Anschluss, in Francia dove si impegnò nella Resistenza, negli Stati Uniti e infine a Londra, dove si occupò per conto delle Nazioni Unite, di temi di grande impatto sociale come le condizioni dei bambini sopravvissuti ai campi di concentramento e la prostituzione minorile in Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania Occidentale. Le sue ricerche sono sempre caratterizzate da un’intensa e talvolta quasi morbosa attrazione per il male: i suoi libri più importanti sono lunghe e dettagliate inchieste su criminali e “mostri” che la scrittrice aveva frequentato assiduamente per mesi, talvolta per anni, entrando in stretta intimità con loro, fino a riuscire a comprenderli nel profondo e renderli umani nelle sue pagine, secondo alcuni, fin troppo simpatetiche nei loro confronti. Scrisse di Mary Bell, undicenne inglese condannata all’ergastolo per aver strangolato due bambini di tre e quattro anni (Il caso Mary Bell. Storia di una bambina assassina, Neri Pozza 2017); di Franz Stangl, il comandante dei campi di sterminio di Treblinka e Sobibor (In quelle tenebre, Adelphi 1975); e infine, forse il suo libro più impegnativo, questo appena licenziato da Adelphi, su Albert Speer, architetto e Ministro per gli Armamenti e la Produzione Bellica di Hitler. Gitta, che aveva assistito come inviata speciale al Processo di Norimberga, dove Albert Speer (1905-1981) aveva rischiato da presso l’impiccagione ma se l’era alla fine fortunosamente cavata con solo venti anni di carcere, comincia a frequentarlo dal 1978, quando è ormai un uomo libero da dodici anni e un autore controverso ma di successo, con alle spalle già due bestseller di valore, Memorie del Terzo Reich e Diari segreti di Spandau, e un terzo – decisamente inferiore – Lo stato schiavo, in gestazione. Speer è un personaggio a suo modo eccezionale e affascinante – di intelligenza superiore, attraente, atletico, elegante, raffinato e dai modi impeccabili –, Gitta entra in particolare sintonia con lui, diventa amica della moglie e dei figli, gli presenta suo marito Donald Honeyman, fotografo della rivista “Vogue”, che lui chiama affettuosamente “il vecchio Don”, si invitano scambievolmente a cena, trascorrono insieme weekend e vacanze, da bravi rappresentanti dell’alta borghesia internazionale, progettano addirittura di scrivere un libro insieme, una sorta di inventario-schedario psicologico delle principali figure del Terzo Reich – gli ex amici, colleghi, rivali, di Speer alla corte del Führer. Ma Gitta continuamente interroga, osserva, prende appunti: il loro rapporto è franco. “Perché non mi fa subito quella domanda, così ci leviamo il pensiero? Tanto sempre lì si arriva…” – chiede Speer durante uno dei loro primissimi incontri: la domanda ovviamente riguarda la conoscenza da parte del Reichsminister – sempre da lui pubblicamente negata – dell’esistenza dei campi di sterminio e della “soluzione finale del problema ebraico”. “Ora è presto.” – risponde Gitta – “Gliela farò quando sarà il momento”. Speer era l’unico nazista ad aver preso, fino dal suo discorso difensivo a Norimberga, le distanze da Hitler e dal suo partito, ad averne ammesso i crimini assumendosene la responsabilità indiretta e ad aver riconosciuto la legittimità e la giustizia della corte che lo stava giudicando (questa posizione e la mancanza di prove concrete del suo coinvolgimento, se non in quanto figura istituzionale, nelle stragi, gli avevano salvato il collo ma assicurato l’odio e il disprezzo degli ex camerati). I suoi due libri, ricavati dagli appunti scritti in segreto e faticosamente recapitati all’esterno del carcere di Spandau, avevano ulteriormente radicalizzato la sua esplicita condanna del regime hitleriano e dei suoi esponenti, compreso – con un in apparenza lancinante senso di colpa – sé stesso, tanto da aver portato, dopo l’uscita dei testi, alla quasi totale rottura dei rapporti con tutti quei collaboratori, dipendenti e sodali che avevano continuato ad aiutarlo e sostenerlo (anche economicamente) durante gli anni di prigionia, ma che non erano disposti, pur condannando gli eccessi, a rinnegare la loro lealtà alla Nazione, e la Nazione era stata Hitler. Per contro, sull’altro fronte, non erano mancate le accuse di opportunismo e di malafede: in quanto ministro degli armamenti, Speer non poteva non sapere, inoltre era pur sempre il teorizzatore e l’artefice della deportazione di massa e dello sfruttamento di manodopera in stato di schiavitù presso le industrie belliche tedesche, la cui efficienza organizzativa aveva protratto di anni la durata della guerra: le condizioni orribili in cui erano costretti a svolgere la loro indispensabile funzione quei lavoratori coatti non potevano non essergli note. Gitta affronta con passione e rigorosa precisione, nelle oltre mille pagine del suo libro, questa e altre tortuose questioni legate alla figura di Speer, così seducente e così ambigua. Rampollo di una famiglia dell’alta borghesia guglielmina, vissuto nel lusso ma schiacciato dall’anaffettività della famiglia e altrettanto anaffettivo nei suoi rapporti sentimentali e sociali, di intelletto eccezionalmente brillante, bello ma eroticamente esangue, sportivo cultore del rugby e dello sci, apolitico e dal 1931 nazista per caso, solo nel 1933 scoppia il colpo di fulmine con Hitler a cui viene presentato da Hess e da Goebbels. Gitta indaga a fondo sul loro rapporto complesso e, suffragata anche dall’opinione di Erich Fromm, che intrattenne rapporti cordiali con Speer nel dopoguerra, giunge a dire che si trattò di un rapporto erotico: nessuno dei due era omosessuale e non c’era carnalità alcuna tra loro, eppure i due si amavano, Speer amava Hitler e anche Hitler amava Speer, se mai il dittatore ha provato un sentimento di amicizia sincera per qualcuno, non può essersi trattato che di una sola persona: Speer. I due passavano ore a parlare di arte e di architettura – Hitler, artista frustrato e appassionato di architettura, trovava in Speer uno specchio e usciva raggiante da quegli incontri, felice e rilassato – e Speer lusingava in ogni modo possibile il grandeur neoclassicista del Führer con i mirabolanti progetti per la nuova Berlino, la Welthauptstadt Germania, che esaminavano e discutevano continuamente, o con scenografie poderose come la “Cattedrale di luce” per il congresso del partito nel 1934 a Norimberga, ottenuta posizionando intorno all’arena tutti i riflettori della difesa antiaerea disponibili, e immortalata nel celebre film di propaganda Il trionfo della volontà da Leni Riefenstahl: “effetti teatrali”, li avrebbe minimizzati l’autore parlando con Gitta. Se tutto sommato Speer era forse un mediocre architetto (“sono di dimensioni impressionanti” era stato l’unico, gelido commento del suo maestro Heinrich Tessenow, quando l’ex allievo imbaldanzito gli aveva mostrato i plastici degli edifici progettati per il partito), in grado però di soddisfare pienamente il suo mentore, Hitler avrebbe saputo rivelare il suo vero talento nel 1942 dopo la morte di Fritz Todt (avvenuta in un misterioso incidente aereo: Todt aveva appena implorato Hitler di porre fine in ogni modo a una guerra che non si poteva più vincere…), quando sorprendentemente nominò al suo posto lui, che non aveva alcuna esperienza in materia di produzione industriale: “ministro agli armamenti e alla produzione bellica”. Il regalo di un amante all’amato, e l’amato ricambiò lavorando alacremente per migliorare l’industria bellica e per fronteggiare la riparazione degli impianti danneggiati dai sempre più frequenti bombardamenti alleati. Speer, rivelando capacità organizzative e di pianificazione assolutamente straordinarie si era circondato di un gruppo di giovani manager, limitando al minimo l’apparato burocratico, e raggiunse inusitatamente l’apice della produzione tedesca nel 1944, quando la situazione militare ed economica della Germania era ormai critica. Un talento eccezionale che, però, prolungò la guerra di almeno un anno, schiavizzando la manodopera a costo zero fornita dagli internati richiusi nei campi di concentramento. Questo strano amore, forse ormai amore-odio, prosegue fino all’ultimo. I due amanti si deludono a vicenda ma non riescono a lasciarsi: il nome di Speer viene ritrovato nell’elenco dei possibili ministri del governo provvisorio che sarebbe subentrato se l’attentato di Von Stauffenberg a Hitler, il 20 luglio del 1944, non fosse fallito: il nome di Speer e un punto interrogativo – un punto interrogativo che gli aveva probabilmente salvato la vita. Ancora,  Speer disubbidisce al suo Führer e si rifiuta, per il bene del popolo tedesco, di mettere in atto la strategia della “terra bruciata” (disposta da Hitler nel cosiddetto decreto Nerone), che si proponeva di distruggere completamente ogni infrastruttura nei territori tedeschi caduti in mano al nemico; sosterrà anche di aver progettato addirittura un secondo attentato a Hitler immettendo gas nervino negli impianti di aerazione del bunker sotto la Cancelleria di Berlino che lui stesso aveva progettato – Gitta dimostra però che era solo una fantasia, utile tuttavia da spacciare per vera a Norimberga. Rischierà invece la vita tornando appositamente a Berlino sotto assedio russo, il 24 aprile del 1945, solo per poter vedere per l’ultima volta Hitler nel bunker; riesce a salutare l’amica Eva Braun (“All’apparenza una semplice ragazza di Monaco, che non aveva niente di speciale…e invece era una donna straordinaria” – dirà di lei); Goebbels non gli permette di dire addio in privato alla moglie Magda (che vorrebbe cercare di dissuadere dall’uccidere i figli); incontra infine Hitler ma l’addio è rapido e freddo (“Nessun augurio, nessun ringraziamento, nessun saluto alla mia famiglia…”). L’idillio è finito e Speer potrà rinnegarlo a Norimberga. Negherà, negherà sempre, negherà tutto. Negherà di aver assistito fin dal 1943 ai discorsi di Posen in cui Himmler aveva dichiarato, di fronte ad una selezionata platea di generali delle SS, Reichsleiter, Gauleiter, e altre alte gerarchie del Reich, la pianificazione dello sterminio, parlando, senza i consueti eufemismi e in maniera diretta ed esplicita, di «uccisione» e «annientamento» del popolo ebraico – dipingendo questo crimine come la missione «storica» del nazionalsocialismo. Gitta dimostra che Speer mentiva spudoratamente, eppure dimostra anche che il suo pentimento non era affatto falso e ipocrita e che le manifestazioni fisiche del suo disagio – di cui era stata testimone – erano autentiche e sincere. Speer aveva intrapreso una profonda riflessione spirituale con l’aiuto di un cappellano protestante, Casalis, di un monaco cattolico, padre Athanasius, e perfino di un amorevolissimo rabbino, Aba Geis; aveva donato anonimamente una parte dei ricavi per i diritti d’autore dei suoi libri ad istituzioni benefiche ebraiche; molto disponibile, eppure a detta di altri altezzoso, apriva le porte di casa a chiunque volesse incontrarlo e dedicava qualche minuto del suo tempo anche agli sconosciuti che volevano parlargli o semplicemente farsi firmare una copia; in qualche modo aveva cercato di fare i conti, come poteva, col suo passato. Non era né un diavolo, né un santo. Comunque sia, Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti, gli aveva detto incontrandolo: “Se quanto sappiamo oggi su di lei l’avessimo saputo a Norimberga, sarebbe finito appeso a un cappio come gli altri”. Ma non era questa la fine di Speer, lo attendeva una morte assai più dolce: lui, uomo fortunato e fascinoso, architetto di successo, ministro del Reich, scrittore di best seller internazionali – come ci racconta l’incredula Gitta nelle ultime pagine del suo appassionante volume – sarebbe morto per un ictus improvviso nella camera di un Hotel esclusivo di Londra, dove aveva partecipato a un’intervista per un programma storico della BBC, presumibilmente tra le braccia della sua giovane amante. A 75 anni, infatti, aveva tardivamente scoperto l’amore sensuale e tradito l’ormai anziana moglie Margarete, allacciando una intensa relazione con una bellissima quarantenne tedesca trasferita in Inghilterra, che si era innamorata di lui leggendo i suoi libri. Ancora una volta Albert Speer aveva fregato tutti.         L'articolo Gitta Sereny / Comprendere Albert Speer proviene da Pulp Magazine.