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Alcune domande sulla contestazione di Emanuele Fiano all’Università di Venezia
Vorrei sollevare, solo a titolo personale e senza pretesa di rappresentare alcuna istituzione, alcune domande riguardo a una vicenda recentemente avvenuta all’Università di Venezia e di cui i giornali hanno riferito. A me pare che a Emanuele Fiano, che è un ex parlamentare, presidente dell’associazione Sinistra per Israele, non sia stato tolto il microfono da alcuni studenti che gli hanno impedito di parlare, con l’intenzione di discriminarlo in quanto ebreo. Si tratta di un esponente politico che ha possibilità di esprimersi e scrivere finché vuole. Parlare oggi dunque di squadrismo o censura, dipingendo gli studenti del Fronte della gioventù comunista come fascisti e antisemiti mi sembra fuori luogo e dipinge in modo distorto quanto accaduto. Fiano peraltro ha avuto modo di intervenire per mezz’ora e poi è stato interrotto con uno striscione e in un intervento, tenuto da uno dei contestatori, il gruppo di studenti ha esposto le sue ragioni. Posizione espressa in modo rozzo, ma riassumibile in una critica ad alcune dichiarazioni di Fiano relative al mancato riconoscimento dello Stato palestinese, al blocco militare esercitato fuori dal diritto internazionale contro la Global Sumud Flotilla e altre. L’incontro poi non è continuato perché, riferiscono alcuni quotidiani, dopo che gli organizzatori, cercando di placare le acque hanno dato parola a chi voleva contestare Fiano, quest’ultimo ha cercato di proseguire ma è stato sommerso di fischi. Credo però che il problema di questo incontro e delle polemiche che ne sono seguite dovrebbe essere meglio analizzato, al netto delle reciproche motivazioni e fatta salva la libertà di Fiano di dire ciò che pensa, ma anche quella degli studenti di contestarlo. La responsabilità di un incontro pubblico in questi casi di solito è di chi organizza e dell’università stessa. Mi sembra evidente che un incontro con studenti universitari non è e non può essere un paludato salotto televisivo con le domande preconfezionate. Paragonare tuttavia i fischi, che di fatto impediscono ad un dibattito di proseguire, alle leggi persecutorie antiebraiche del 1938 che impedirono al padre di Fiano di continuare a frequentare l’università credo sia un’affermazione che non rende onore né alla memoria della Shoah né all’ebraismo italiano. Il problema di fondo è che nella situazione odierna continuare, come fanno i media, a strumentalizzare la voce di alcuni ebrei noti per bollare come antisemita, o fascista come in questo caso è avvenuto, chiunque si sia permesso di criticare Israele o di contestare un oratore importante, è diventato il modo più veloce per impedire ogni tipo di critica e avere una patente di garanzia per coloro che hanno bisogno di un sostegno alle proprie opinioni. E’ un meccanismo tipico del giornalismo nostrano: se accade qualcosa tra Israele e Palestina si intervista un ebreo italiano scegliendolo a seconda delle risposte che ci si vuole sentire ripetere: Segre, Fiano, Ovadia, Lerner e così via. Vero, Fiano è anche a capo di un’associazione che si spende per la collaborazione tra palestinesi e israeliani, è a favore della pace e più volte ha espresso critiche al governo israeliano, anche se su molti punti come si può ascoltare nelle sue interviste fa affermazioni che personalmente ritengo discutibili. E’ vero anche che però alla fine, dopo la contestazione a Ca’ Foscari, il riferimento immediato non va alla tutela della libertà d’opinione, ma alle leggi fasciste e alla persecuzione subita da suo padre. A nessuno verrebbe probabilmente in mente di invitare a un dibattito su Israele e Palestina, al netto delle competenze specifiche che si possono avere sul tema (esperto di geopolitica sulla regione, esperto di questione religiose mediorientali, esperto giuridico sui genocidi o almeno di storia militare del Medio Oriente, o altro, aggiungete voi) un musulmano bosniaco, o suo figlio, scampato da Srebrenica. E nemmeno un armeno nipotino degli scampati al genocidio. Invitare un ebreo italiano figlio di una vittima della Shoah non è un po’ come fare qualcosa del genere? Nel suo caso Fiano ha realmente delle competenze sulla regione e certamente ha molto di intelligente da dire e anche cose condivisibili. Il problema è che questo semplice invito purtroppo, invece di contribuire a sciogliere quel legame mortale tra le camere a gas di allora e il conflitto odierno in Medioriente lo fomenta e lo rafforza. Vale sia per coloro che usano il riferimento a Hitler e alle camere a gas per criticare il governo israeliano, ma ancora di più per quelli che accusano di antisemitismo tutti coloro che osano muovere critiche a Netanyahu. Problema che dopo le contestazioni Fiano stesso ha purtroppo, almeno a quanto riportano i giornali, contribuito ad alimentare. La questione sta nella nostra attitudine mentale a pensare che qualcuno per il semplice fatto di essere ebreo o di essere vittima o parente di una vittima della Shoah debba essere considerato automaticamente un esperto della crisi mediorientale. Siamo sicuri, lo chiedo in particolare al mondo ebraico italiano, che questo legame utilizzato così renda giustizia della memoria della Shoah? Davvero tutte le volte che si critica l’operato del governo israeliano si diventa antisemiti? Davvero ha senso che alcuni ebrei famosi diventino i portavoce dell’intera realtà ebraica, contribuendo in maniera significativa a far sì che i media ripropongano questo cortocircuito nel quale chiunque critica Israele sta attaccando l’ebraismo in quanto tale e allo stesso tempo molti di coloro che criticano Israele o chiedono il riconoscimento di uno Stato per i palestinesi lo fanno paragonando l’attuale governo israeliano a Hitler? Siamo sicuri che tutto questo alla lunga non si riveli un enorme danno per l’ebraismo italiano e mondiale e non diventi un gigantesco boomerang, alimentando una spirale di odio verso l’ebraismo stesso? Siamo sicuri soprattutto che questo sguardo sul conflitto in Medio Oriente, filtrato dalla Shoah, con tutto il suo carico di ricordi individuali, senso di colpa, identità, giornate della memoria e leggi ad hoc non ci impedisca alla fin fine di riconoscere il massacro inaudito che sta accadendo sotto i nostri occhi e ci impedisca di denunciarne i veri responsabili? Il risultato, mi pare, è che oggi ci ritroviamo con il fascismo italiano che usa la Segre per dire che gli antisemiti non sono gli eredi di coloro che emisero le leggi razziste e deportarono nei campi gli ebrei italiani, bensì lo sono tutti coloro che semplicemente manifestano ritenendo che i palestinesi debbano avere esattamente la stessa possibilità di vivere e di autodeterminarsi di tutti gli altri popoli. Mi chiedo dunque perché perseverare in questa logica. Sia chiaro, Fiano ha tutto il diritto di non essere attaccato in quanto ebreo, ha diritto di dichiararsi di sinistra e di dire che fa parte di un gruppo denominato Sinistra per Israele, anche se parlare oggi di due popoli e due Stati è una soluzione che mi pare problematica, se poi nei fatti non si riconosce la Palestina e non si interviene per bloccare la razzia di terra perpetrata dai coloni in Cisgiordania. Gli studenti allo stesso tempo possono rispondergli che in questo momento difendere un governo che sta portando avanti un genocidio è una responsabilità che non si vogliono prendere e ritengono che invece quel governo, non la totalità dei suoi cittadini e nemmeno l’ebraismo mondiale, debba essere processato per crimini contro l’umanità. E possono anche legittimamente contestarlo. Certamente avrebbero fatto meglio a lasciarlo parlare fino alla fine senza sommergerlo di fischi, e non solo per una quesitone di rispetto del diritto di parola. Fiano evidentemente non è un fascista e il diritto di parola è inviolabile, ma per non rischiare di venire strumentalizzati come poi è puntualmente accaduto, di questo sono sicuro. Resta la responsabilità di chi usa la memoria delle persecuzioni per accusare di fascismo degli studenti che contestano posizioni politiche e soprattutto quella dei media che utilizzano persone come lui e come Segre per alimentare l’idea che l’ebraismo coincida con il governo israeliano e viceversa. Davide Rostan, pastore valdese Redazione Italia
Lontano da dove?
Comunque finisca, all’ombra di Gaza c’è una realtà politica che resta in piedi. Quella che negozia il male minore, che ogni giorno si misura con la perdita di tutto. Personalmente sono inseguito da una svista, un errore nella messa a fuoco che mi porta a confondere Gaza City con lo Shtetl e scambiare le vecchie parole per la migrazione degli ebrei dell’Europa centrorientale con le immagini dei profughi in fuga dalla città distrutta o dai villaggi di contadini. Cerco di mettere in fila qualche frammento per ritrovare un filo. Che ci sia una pulizia etnica e una deportazione o migrazione coatta mi pare un fatto. E che ci siano campi o spazi di segregazione pure. Se li chiamo Lager sembra un partito preso, ma quello sono e lo sono anche i “centri di accoglienza”. Altri fatti certi. La Nakba non è iniziata il 7 ottobre. Certo. Ma un qualche salto deve pure esserci stato se siamo ad un punto di non ritorno. Un salto, o anche solo quello che Benjamin descrisse come un taglio non marginale. Ed ecco che il mio Shtetl si avvicina a queste immagini di famiglie in fuga. Un apologo jiddish ricordava che ad un migrante che annunciava la sua partenza venne chiesto dove sarebbe andato. Lui rispose: lontano. Il suo paesano gli disse: lontano da dove? A me pare che oggi si veda che oltre al dramma storico geograficamente circoscritto ci sia un’altra dipartita. Quella di un’intera tradizione culturale con l’esperienza che oggi ne possiamo fare da testimoni superstiti. Mi pare che, da una parte e dall’altra, delle identità riconosciute si siano screditate proprio in quel tratto che pareva costitutivo, e penso all’ebraismo ma anche all’atlantismo e al diritto internazionale o all’ONU. Azzarderei qualcosa di simile per i fondamentalisti islamici, che però conosco meno. A lume di naso però credo che Twin Towers e 7 Ottobre potrebbero facilmente aggiungersi alla lista di un “il più pulito ha la rogna”. Cosa resta di quelle identità e cosa insegna la tradizione? Ha un bel dire Landini che la lotta di Gaza si lega a quella degli sfruttati contro gli sfruttatori. Due cavalli zoppi non ne fanno uno in buona salute. Perché solo la povertà dell’esperienza umana, la miseria della nuda carne, che è condizione comune di ogni campo di sterminio, è stata di nuovo rivelata senza pudore, e la sua veste migliore strappata. Ogni narrazione pare stroncata e ridotta ad una conta macabra, persino affermata pubblicamente con quel “se non accettano il piano finiremo il lavoro”. Quella frase a me pare una parafrasi letterale della “soluzione finale”, ma qui e ora è stata pronunciata ad alta voce. E non c’è nessuna ideologia che le sappia tener testa. Aggiungo che senza una qualche ideologia è impossibile non ridurre l’esperienza ad una successione cronologica di stati. Bit senza alcun valore intrinseco. Un taglio, quindi. Questo taglio rende ibrida non la guerra, che infame e bastarda lo è sempre stata, ma le maschere della civiltà. Quella di un ebraismo custode della differenza e dell’occidente paladino della democrazia. Maschere che pare ritrovino il loro ruolo solo quando vengono fatte a pezzi e bistrattati i corpi che le indossano. Non è stato tutto fatto in un giorno: ricordo le polemiche degli anni ottanta per il revisionismo dei Nuovi Filosofi; ma è un fatto che l’esercizio per lo più retorico e quotidiano di una memoria antistorica è in questo giro di giostra arrivato al suo capolinea. Così che Israele oggi può rivendicare insieme il titolo certificato del deposito di quella memoria (un titolo di razza e religione) contando sulla forza di una internazionale fascista e suprematista (che si fregia persino di quel legame tra sangue e suolo di cui la storia della persecuzione antisemita si era alimentata). Contingente, come le connessioni in campo, e necessario, che ci sia un’altra storia. Ma quale e dove? Quindi un taglio, che probabilmente si ripete a fronte di ogni monumento eretto, dentro ogni Stato ed ogni Realpolitik. E non si tratta di sviste momentanee o stato di eccezione, non una ontologia o metafisica, ma qualcosa di storico e determinato, ogni volta compiuto da qualcuno che ha dovuto lottare con la resistenza di altri. Ritrovo così per mio limite la parola tanto abusata “resistenza” e la vedo in relazione specifica a questo taglio, quello che ha disconnesso oggi questo presente proprio dalla storia della Shoah (non so e non riesco a farmi un’idea sulla possibilità che le odierne manifestazioni di massa siano una controtendenza) e separato la storia dell’Olocausto dalla lotta al nazifascismo. Anche qui ho omesso di proiettare questo schema discorsivo sulla Nakba, per mia personale ignoranza di quel mondo. Mi limito così alle mie di storie e parole, come resistenza, antifascista, proletario… c’è un taglio e una povertà di esperienza, quella che mi fa passare dai forconi ai gilet gialli e poi ad un’altra corsa, sempre aspettando che sia quella giusta. Perché sono stato fortunato e non sono dovuto andare “lontano. Lontano da dove?”. Michele Ambrogio
Antisemitismo, antisionismo, razzismo: un libro e una riflessione a più voci
È stato presentato ieri all’Istituto Gramsci Siciliano il libro di Donatella Della Porta Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica (Altreconomia). Il prof. Nicosia, aprendo l’incontro, ha ricordato come il 7 ottobre costituisca una lacerazione politica ed etica che impone una ricostruzione storica. Il prof. Tommaso Baris dell’Università di Palermo ha conversato con l’autrice, dopo averla presentata: Donatella Della Porta è docente di scienze politiche alla Scuola Normale di Firenze ed ha pubblicato molti libri, fra i quali Proteste e polizie (Il Mulino) e No Global sui fatti di Genova 2001. Il suo ultimo scritto esamina l’accusa di antisemitismo usata oggi in Germania in quanto criminalizzazione delle critiche a Israele. Baris: L’antisemitismo è il lato oscuro della coscienza europea che si porta dietro la memoria dell’Olocausto e presume un progetto razzista più ampio, la discriminazione di Rom Sinti omosessuali etc. Ed è un problema non solo tedesco ma anche francese italiano norvegese ucraino polacco. La responsabilità dell’Olocausto è di tutta Europa e attiene alle destre. Com’è potuto accadere che adesso venga rovesciata sulle sinistre? Della Porta: A destra oggi il razzismo si rivolta contro i migranti. In Germania  si parla adesso  di “antisemitismo importato” dai migranti musulmani, dimenticando che un quarto dell’elettorato vota Alternative für Deutschland. È stata negata la connessione fra antisemitismo e razzismo in Francia Germania e Gran Bretagna, cioè proprio nei Paesi che più hanno contribuito alla Nakba. In Israele c’è stata la pretesa, da parte della destra nazionalista, di rappresentare uno Stato religiosamente “pulito”; la diaspora ebraica nel mondo, invece, continua a ripetere “Non in mio nome”. Anche in Germania gli ebrei antisionisti sono i primi obiettivi della repressione. Le “Voci Ebraiche per la Pace” sono state dichiarate associazioni estremiste. L’antisemitismo viene percepito come distaccato dal razzismo. È stato introdotto il “reato di comparazione”: parlare di genocidio è antisemita, paragonare Gaza a un ghetto è reato. Israele non può essere criticato, artisti e intellettuali ebrei ed ebree come Judith Butler o Nancy Fraser sono banditi. Baris: A proposito di comparazione, l’insistenza sul 7 ottobre ricorda l’interrogativo ripetuto contro la Resistenza “E allora le foibe?”. Colonialismo e nazismo, allora come oggi, e non solo rispetto alla Shoah ma anche per l’apartheid in Namibia e Sudafrica, per esempio, sollevano la questione della responsabilità. Della Porta: La memoria induce a chiedersi che fare. In Germania l’Olocausto è stato inteso come una parentesi nella storia gloriosa dell’Occidente. Io credo invece che la Resistenza continuamente rivisitata sia ancora attuale. I bambini arabi in visita ad Auschwitz si identificavano con le vittime, ma veniva detto loro che dovevano identificarsi con i colpevoli, distruggendo così la possibilità di empatia fra i popoli. È mancata la possibilità di costruire identificazione tra popolazione tedesca e palestinesi. È stato criminalizzato il boicottaggio, mentre qui da noi in Italia è stato possibile: al festival del cinema di Venezia, in occasione della partita di calcio con Israele, col movimento BDS, lo sciopero della fame dei lavoratori della sanità, l’iniziativa dei camalli di Genova, le mobilitazioni sindacali. Interviene a questo punto Giuseppe Lipari, collaboratore della prof. Della Porta presso la Scuola Normale di Firenze e si interroga sul che fare di fronte alla “soluzione finale” in Palestina. Anche in Italia, sostiene, viene oppressa la libertà e si muove la dinamica del “panico morale”. L’omicidio Kirk negli USA ha scatenato pure qui da noi accuse di violenza alla sinistra. Esiste poi un controllo governativo sui panel delle lezioni universitarie. Si connette da remoto Amal Khayal, responsabile del CISS a Gaza, dove ha perso tanti amici e parenti e che non manca mai di partecipare alle iniziative per la Palestina. Nel mio Paese non esisteva l’antisemitismo, spiega. I miei nonni convivevano con i vicini ebrei. Del resto, anche i palestinesi sono semiti! Ma il termine “antisemitismo” intende surrettiziamente solo l’odio contro gli ebrei. Il sionismo è altra cosa, è un’ideologia nazionalista, e dunque altra cosa è anche l’antisionismo. Che cosa può fare il movimento antisionista per i palestinesi? La campagna BDS può aiutare a bloccare il genocidio nella striscia di Gaza e così pure il dibattito nelle scuole e all’università. A questo proposito, Baris cita la mozione della Normale di Firenze che rifiuta ogni tipo di rapporto sia economico sia culturale con le istituzioni che collaborino alle azioni militari o alle occupazioni civili nei Territori. Questa mozione è stata definita antisemita, ricorda Dalla Porta: Ebrei allora e Palestinesi adesso sono additati come fonte del male dalle ideologie dell’estrema destra ostili alla cultura “woke” e al “gender”. Ma arte sport musica sono luoghi della politica: anche lì occorre praticare il boicottaggio e costruire solidarietà. Inoltre si può contribuire a fermare lo sterminio con aiuti concreti, come borse di studio per gli studenti profughi, come si fece con i profughi cileni dopo l’undici settembre 1973. Quanto alle scuole, la celebrazione della “giornata della memoria” il 27 gennaio in sé non è un errore né è propaganda, ma bisogna evitarne la banalizzazione e la strumentalizzazione, perché può rischiare di provocare “lo svuotamento semantico dell’antisemitismo” o peggio il suo rovesciamento razzista in chiave antipalestinese. Occorre non dimenticare che l’attuale genocidio in passato ha trovato sponda nel centro-sinistra: Biden e Scholz vendettero armi a Israele. Lipari conclude la serata invitandoci a guardare, pur nella tragedia, il lato positivo: il movimento internazionale, pur con tutte le sue contraddizioni, sta funzionando oltre la rassegnazione e il conformismo, come dimostra la Global Sumud Flotilla. Ci lasciamo proprio per raggiungere il presidio dell’equipaggio di terra alle 20 a Piazza Verdi, cui parteciperà anche Pif. Daniela Musumeci
Quale memoria? Shoah, Nakba e colonialismo sullo sfondo di Gaza. Seconda parte
LE OMBRE DELLA GERMANIA Dalla disfatta del 1945 alla guerra genocidaria a Gaza a cui siamo costretti ad assistere in mondovisione, la traiettoria tedesca della memoria della Shoah è stata tutt’altro che lineare. Se guardiamo ai processi di giustizia del dopoguerra, il quadro è impietoso. Cito la storica Mary Fulbrook, su circa un milione di tedeschi coinvolti a vario titolo nello sterminio dei civili ebrei, solo 6.655 furono condannati alla fine del Novecento, meno del numero di persone impiegate nella sola Auschwitz. In La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Hannah Arendt ricorda che il cancelliere Konrad Adenauer temeva che un grande processo riaprisse tutti gli orrori e ravvivasse l’ostilità internazionale verso la Germania. Entrambe le Germanie dovettero fare i conti con un consenso al nazismo diffuso fino alla sconfitta: in Germania Ovest si preferì riabilitare la maggior parte degli ex nazisti, reintegrandoli nella vita pubblica; in Germania Est si commemoravano genericamente i “caduti del fascismo”, secondo la prassi sovietica di non riconoscere esplicitamente il genocidio degli ebrei, mentre molti quadri minori del passato nazista venivano assorbiti nella nuova identità antinazista. A ciò si aggiunse la campagna staliniana contro i “cosmopoliti senza radici”, che alimentò sospetto verso gli ebrei, accusati di alto tradimento e talvolta giustiziati. Nel ventennio successivo alla riunificazione, la centralità pubblica della Shoah si è stabilizzata come parte della grammatica civile della Repubblica Federale. Nel 2008 Angela Merkel dichiarò alla Knesset che la sicurezza di Israele rientra nella ragion d’essere della Germania, impegno ribadito anche dai governi successivi fino a quello odierno. Nel 2018 la Germania ha istituito a livello federale, e poi diffuso nei Länder, gli incarichi di commissario per l’antisemitismo. La maggior parte dei commissari non è ebrea e i mandati risultano spesso ampi e poco tipizzati. Come ha scritto la redazione di Jewish Currents in un articolo del 2023, un «anti-antisemitismo concepito in modo discutibile» è talvolta divenuto meccanismo di legittimazione della germanicità. Parliamo di figure, per lo più bianche e cristiane, che si presentano come portavoce “ufficiali” degli ebrei, mettono in scena una ebraicità di facciata (foto con kippah, simbolismi) e entrano frequentemente in conflitto con ebrei di sinistra in solidarietà alla Palestina, tra cui figli e nipoti di sopravvissuti, che vengono oggi arrestati con l’accusa di antisemitismo. È il terreno in cui tornano il «filosemitismo invadente» di Jean Améry, l’«allosemitismo» di Zygmunt Bauman e, sul piano geopolitico, il filosemitismo bellico di cui scrive Enzo Traverso: l’ebreo ridotto a nient’altro che un oggetto/simbolo codificato attraverso il quale passa la redenzione tedesca. Sempre la stessa Germania che ha costruito una solida Erinnerungskultur sulla Shoah e si vanta di una cultura della memoria e della disponibilità a fare ammenda per le pagine sanguinose del proprio passato, ha atteso fino al 2021 prima di riconoscere il genocidio coloniale contro la popolazione dei Nama e degli Herero avvenuto nell’attuale Namibia tra il 1904 e il 1908. E tutt’ora si rifiuta di parlare di alcun tipo di riparazione o compensazione. LA DIDATTICA DELLA SHOAH «Oggi si dà per scontato che la memoria della Shoah sia stata sempre centrale nelle coscienze occidentali, ma non è così: i sopravvissuti ebrei del nazifascismo, una volta rientrati dalle camere della morte, furono perlopiù accolti con repulsione dall’Europa cristiana e per decenni non furono ascoltati. Basti pensare a Primo Levi: Se questo è un uomo esce nel 1947 presso una piccola casa editrice; il riconoscimento pubblico arriva solo nel 1958 con Einaudi, che inizialmente lo aveva rifiutato. Nel dopoguerra si registrano violenze antiebraiche in tutta Europa; in Polonia nascono aggressioni e pogrom contro i superstiti ebrei dei campi nazisti, e nel 1967–68 una campagna antisemita di Stato che spinge all’esodo circa 13.000 ebrei. Ci furono episodi analoghi in Slovacchia e in Ungheria. Nell’URSS e nell’Europa orientale seguirono invece le campagne “anticosmopolite”, come il processo Slánský a Praga nel 1952. La memoria della Shoah come oggi la conosciamo prende forma soprattutto dopo il 1989. Il crollo del Muro, l’allargamento a Est e la necessità di un linguaggio memoriale comune fanno della Shoah il perno simbolico dell’Europa che si rifonda. Come ha scritto Tony Judt, la memoria della Shoah ha funzionato da “biglietto d’ingresso” all’Unione Europea, spesso però senza piena assunzione di responsabilità. L’Italia mostra tutti i limiti di un’istituzionalizzazione senza responsabilità. La legge del 2000 sulla Giornata della Memoria non menziona il fascismo e piuttosto insiste su chi “si oppose”, alimentando il mai sopito mito degli “italiani brava gente”. In Polonia, l’emendamento del 2018 alla legge sull’Istituto della Memoria Nazionale ha introdotto restrizioni sul modo di parlare del collaborazionismo polacco e dell’etichetta “campi polacchi”, con effetti raggelanti sul dibattito pubblico. In questa cornice, la Shoah ha iniziato a essere raccontata come “una storia di progresso”, una cesura morale che avrebbe rimesso l’Europa sulla retta via; un “inciampo nella storia” dell’Europa illuminista, una frattura spazio-temporale che confermerebbe, per contrasto, la virtù del percorso europeo. Questa narrazione teleologica produce due esiti nefasti che oggi vediamo manifestarsi in tutta la loro chiarezza; sacralizzazione ed eccezionalità da una parte, banalizzazione e negazione dall’altra. Credo che ricucire la Shoah alle genealogie della violenza europea (o forse meglio dire della violenza della storia del mondo) non relativizzi, ma chiarisca. Segregazioni, spoliazioni, colonizzazioni, campi e lavori coatti sperimentati nelle periferie imperiali aiutano a comprendere la peculiarità storica dello sterminio nazifascista, reso possibile da un apparato tecno-burocratico che fuse amministrazione, industria e logistica statale propria dell’epoca moderna. Per uscire dal monopolio del dolore e dalla competizione tra vittime, la didattica sulla Shoah va intrecciata con le storie rimosse del colonialismo e dei genocidi dimenticati nel Sud Globale. Forse, questo riposizionamento potrebbe disinnescare le guerre identitarie e culturali a cui assistiamo nel presente. La posta in gioco non è una graduatoria del male, ma un vocabolario condiviso che tenga insieme Shoah, colonialismi e altre violenze di massa senza eliminare le specificità di ognuna, così che la memoria possa essere terreno fertile per costruire alleanze e resistenze contro la violenza razziale». Link alla prima parte dell’intervista. Redazione Italia
Quale memoria? Shoah, Nakba e colonialismo sullo sfondo di Gaza. Prima parte
Intervista  di Marco Biondi divisa in due parti a Micol Meghnagi, sociologa che si occupa della costruzione dei processi memoriali della Shoah, del colonialismo italiano e della Nakba. Collabora con diverse testate giornalistiche tra cui Internazionale, Altreconomia, Jacobin, Micromega e il Manifesto. In questa intervista, analizziamo la costruzione della memoria della Shoah, dal dopoguerra a oggi, sullo sfondo del genocidio a Gaza, così come il tema dell’antisemitismo e del razzismo istituzionalizzato. Facendo mie le parole di Meghnagi, le lotte antirazziste sono interdipendenti, non cancellandone le differenze ma legandole in alleanza, nominandone le asimmetrie dei contesti e sottraendole alle strumentalizzazioni politiche. ANTISEMITISMO E ISLAMOFOBIA: QUAL È LA TRAMA COMUNE ? Vi è molto più in comune di quello che si crede tra un ebreo degli anni Venti in Europa e un musulmano del Sud Globale. Il fatto che non si riescano a cogliere le molteplici analogie è anche dovuto ad una profonda mancanza di conoscenza della storia ebraica come quella dei popoli soggiogati dal colonialismo europeo. Antisemitismo e islamofobia sono due facce della stessa grammatica di esclusione prodotta dalla modernità europea: ieri l’“ebreo” come nemico interno su cui proiettare ansie e crisi; oggi il “musulmano” come nuovo capro espiatorio. Entrambe costruiscono gerarchie del dolore, normalizzano politiche securitarie e coloniali e servono a dividere le stesse classi subalterne. Un antirazzismo coerente rifiuta la competizione vittimaria: tiene insieme le storie specifiche (Shoah, colonialismo, Nakba) e ne legge le connessioni strutturali, senza lasciare spazio alle strumentalizzazioni politiche». CHIESA CATTOLICA, ANTIGIUDAISMO E ANTISEMITISMO: PUÒ CHIARIRE DEFINIZIONI E INTRECCI STORICI ? In breve, a livello terminologico per antigiudaismo si intende genericamente l’ostilità principalmente di matrice teologica cristiana contro gli ebrei intesi come collettività, per antisemitismo ci si riferisce all’elaborazione moderna, a base “razziale”. Il confine è spesso labile ma è bene tracciarlo. Con antiebraismo intendo invece l’insieme delle pratiche e dei pregiudizi storici contro gli ebrei in senso ampio. Su questi temi, rimando al lavoro dello storico Simon Levi Sullam, e al suo libro “L’archivio antiebraico: il linguaggio dell’antisemitismo moderno” (Editori Laterza, 2008). Nel corso dei secoli, l’antiebraismo si è manifestato nei contesti più disparati, da quelli spirituali e religiosi a quelli laici e secolarizzati, in ambienti di destra come di sinistra, tra conservatori e progressisti. L’antigiudaismo ha funzionato da collante dell’Europa cristiana; un pregiudizio che, pur non essendo “razziale” in senso moderno, ha prodotto esclusione, spoliazione, ghettizzazione, violenza sistematica e norme discriminatorie. La differenza con l’antisemitismo moderno sta nell’immutabilità dello “status ebraico”: nell’antigiudaismo la conversione poteva teoricamente mutarlo, mentre tra Ottocento e Novecento l’idea di “sangue” lo rendeva indelebile. Questa suddivisione non è ovviamente didascalica. La cacciata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna nel 1492, per esempio, insieme agli statuti di limpieza de sangre, ha anticipato quelle logiche classificatorie razziste proprie dell’epoca moderna. Tra il II e il IV secolo, la Chiesa ha elaborato un compatto e duraturo sistema teologico che giudicava gli ebrei, intesi in modo collettivo, come popolo carnale, considerato colpevole in blocco dell’uccisione di Cristo, maledetto, immorale, diabolico e idolatra, che ha modellato il rapporto maggioranza/minoranza entro un sistema sociale. Certamente, le aperture del secondo Novecento, dal dialogo ebraico-cristiano a Nostra Aetate, hanno segnato un cambio di rotta importante, ma il superamento dei retaggi secolari non è mai automatico né immediato. L’antisemitismo è invece un concetto relativamente recente, coniato dal giornalista tedesco Wilhelm Marr alla fine dell’800. L’età moderna, insieme ai processi di secolarizzazione, alimentò l’illusione che l’ostilità verso gli ebrei fosse in via di estinzione proprio mentre, con l’emancipazione civile e politica, si consolidavano nuove forme di ostilità “politica”. Alla domanda «Chi è un ebreo?» non fu più possibile rispondere con i vecchi criteri: nell’immaginario moderno l’ebreo poteva integrarsi, convertirsi, mimetizzarsi e tuttavia restare tale. Il bersaglio dell’antisemita non era più solo una minoranza marginale ma un soggetto percepito come onnipresente e minaccioso per l’ordine sociale. L’antisemitismo moderno nasce in Occidente, all’incrocio tra cristianesimo politico, nazionalismi e razzismo “scientifico”, ma non resta confinato lì: tra la fine dell’’Ottocento e la prima metà del Novecento, viene importato e ibridato dal colonialismo europeo nel mondo arabo, anche tramite la circolazione dei Protocolli dei Savi di Sion (diffusi, fra l’altro, al Cairo negli anni Venti e Trenta) e la propaganda nazista in arabo durante la Seconda guerra mondiale. Ciò avviene mentre si disgrega l’Impero ottomano, e prendono forma il nazionalismo arabo e il sionismo. Dopo la Shoah, con la nascita di Israele nel 1948 e la conseguente Nakba palestinese, i rapporti tra ebrei e musulmani nel così detto Medio Oriente si sono incrinati, forse in modo irrimediabile. Tra il 1948 e il 1967, in paesi come la Libia, Iraq, Yemen e Afghanistan si registrano pogrom, punizioni collettive ed espulsioni di ebrei, che trovano rifugio soprattutto in Israele e in Occidente, tra cui la mia famiglia. In alcuni casi, come riportano gli storici Avi Shlaim ed Ella Shohat, nazionalismo arabo e movimento sionista concorsero all’esodo degli “ebrei arabi” dai paesi d’origine per perseguire i propri rispettivi interessi. IN CHE MODO L’ANTISEMITISMO È USATO COME STRUMENTO POLITICO E QUALI EFFETTI OSSERVA DOPO IL 7 OTTOBRE 2023? «La strumentalizzazione dell’antisemitismo è stata certamente facilitata dalla definizione approvata nel 2016 dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Association), un organismo intergovernativo istituito alla fine del secolo scorso con lo scopo di promuovere la memoria della Shoah. Tuttavia, oltre a richiamare atteggiamenti indubbiamente antisemiti (come evocare un complotto ebraico globale o negare la Shoah), la definizione include 11 esempi applicativi, 7 dei quali riguardano la critica allo Stato di Israele, spostando così il baricentro dal pregiudizio antiebraico alla sfera del dissenso politico. Sebbene gli autori la qualificano non giuridicamente vincolante, in pochi anni dalla sua pubblicazione è stata adottata da numerosi Stati membri dell’Unione Europea e dagli Stati Uniti d’America. Dal 7 ottobre 2023, in vari contesti culturali e accademici europei e nordamericani si è prodotto, un clima di censura e repressione diretto principalmente a persone di origini palestinesi e a tutti coloro che esprimono solidarietà alla Palestina, in Germania, dispositivi amministrativi e culturali oggi richiedono dichiarazioni di adesione alla “ragion di Stato” pro-Israele a persone migranti principalmente di origini arabe, come se l’antisemitismo fosse un fenomeno “importato” dall’esterno quando invece affonda radici storiche in Occidente. Siamo in un’impasse: destre post-fasciste e governi occidentali strumentalizzano l’antisemitismo mentre lo alimentano; e i governi israeliani lo brandiscono cercando sponde proprio in quelle destre che ammiccano a chi, ottant’anni fa, deportava gli ebrei. In un Occidente che fatica a tenere insieme confini ed elettorati, Israele viene letto da molte destre come modello etno-nazionale, un popolo, una fede, un nemico (i palestinesi). Sono fantasie ideologiche (Israele non è monolitico), ma spiegano la convergenza fra filosionismo retorico e politiche identitarie. Ma non si cada in errore: il fatto che l’antisemitismo venga strumentalizzato non significa che non esista. Tutto il contrario. Uno dei pericoli di averlo distorto e strumentalizzato è dato dalla possibilità di girarsi dall’altra parte e dire: non è un problema. L’antisemitismo va necessariamente collocato dentro la sfera più ampia del razzismo: oggi il razzismo in Europa si è trasformato, le vittime sono i migranti, spesso persone arabe, nere, e/o musulmane, e lo vediamo nel cimitero dei nostri mari, così come nei i Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) e nelle normative sull’immigrazione che colpiscono i più vulnerabili. Infine, metto in guardia dalle letture selettive. Parlo di Occidente in quanto modello egemonico entro il quale viviamo, ma anche l’Oriente (dal Marocco alla Siria, dalla Russia all’India) non è immune da forme proprie di colonialismo e discriminazione razziale. Riconoscerlo non relativizza nulla, anzi rende l’antirazzismo coerente, l’antisemitismo non appartiene a una sola cultura o parte politica; e nessuna politica contro di esso sarà credibile se non si intreccia con la lotta contro tutte le gerarchie razziali, compresi islamofobia e razzismo anti-nero con il rifiuto delle strumentalizzazioni che lo trasformano in un’arma retorica. Credo che nessuna lotta contro l’antisemitismo possa essere efficace senza una presa di distanza netta dalle sue strumentalizzazioni politiche volte a sostenere le prassi di occupazione, colonizzazione ed eliminazione sistematica dei palestinesi». Redazione Italia