L’autofiction chiude il cerchio. “Anatomia della battaglia” di Giacomo Sartori
Prima parte
Nell’ultima prova di “biologia della letteratura” di Alberto Casadei – per
prendere in prestito il titolo di un suo saggio, piuttosto fortunato, del 2018 e
applicarlo a un’opera dello stesso autore che non si lascia facilmente
perimetrare nelle tassonomie letterarie conosciute – ovvero in Anni ombra (ed.
Polidoro, 2025), fa a un certo punto capolino un’entità pronominale ibrida, un
“io-lui”. Non è soltanto la manifestazione di una determinata alienazione
sociale, ma anche un’allusione iper-consapevole, per quanto da una certa
distanza, a un genere letterario che negli ultimi anni ha conosciuto un grande
sviluppo, forse ipertrofico, e adesso è probabilmente in una sorta di declino, o
di ritirata – analogamente alle dinamiche intradiegetiche della prima persona
singolare, nei singoli testi – come l’autofiction.
A suggerire questa parabola, o anche ad anticipare una certa chiusura del
cerchio, si aggiunge ora la ripubblicazione, dopo vent’anni esatti, di uno dei
primi libri italiani ad avere intrattenuto un rapporto, complesso e articolato
con la categoria di autofiction, ovvero Anatomia della battaglia (ed.
TerraRossa, 2025) di Giacomo Sartori – testo che, peraltro, invoca una
declinazione più immediatamente referenziale della biologia citata in apertura.
La battaglia citata nel titolo, infatti, è una battaglia vissuta nel corpo dal
padre del narratore, contro un tumore maligno; il lessico militare non proviene
tanto dall’ormai tristemente nota retorica militare del discorso medico, quanto
da una chiara analogia, istituita fin da subito nel testo, tra la malattia del
padre e il suo personale culto della guerra, di marca fascista. Come ha rilevato
Jacopo Manna in un’acuta recensione pubblicata su Laletteraturaenoi, Anatomia
della battaglia «non [è] l’ennesima saga di famiglia: […]. Non una storia di
conflitto generazionale […]. Nemmeno un romanzo sugli anni di piombo. […] E
tutto sommato nemmeno un Bildungsroman, almeno nel senso usuale del termine»,
perché, pur condividendo elementi di tutti questi generi e sotto-generi, «[t]ra
gli eventi in cui è più evidente l’investimento di energie e risorse da parte
dell’autore spicca senz’altro la storia della malattia e morte del padre
[…]. Anatomia della battaglia è anche la storia di una costruzione di sé che
però sceglie di attenersi a ciò che abbiamo di più immediato e di più sfuggente,
il nostro corpo appunto».
Allo stesso tempo, però, quella di Sartori non è neppure soltanto la biologia di
un padre – per ricalcare l’espressione di Magrelli nel titolo della sua
fortunata opera einaudiana del 2013 (dove alla biologia si sostituiva, in
realtà, la geologia) – ma anche un esempio assai rilevante di autofiction. E non
tanto perché, come vorrebbe la vulgata, si tratti di un testo che allarga la
dimensione della prima persona singolare, includendo elementi ad essa esterni
(in funzione di una loro qualità più chiaramente fictional), ma proprio per il
costante, e irrisolto, ondeggiamento della prima persona singolare nei confronti
di tali elementi. Un ondeggiamento già esplicitamente descritto come tale,
ovvero come «perpetua oscillazione tra autobiografia e fiction», in uno dei
primissimi esempi di autofiction mai rivendicati come tali, ovvero Fils (1977)
di Serge Doubrovsky, e che torna, in Sartori, con particolare evidenza nei due
paratesti di cui è ora corredato Anatomia di una battaglia.
Nella nota del 2005, è forse più evidente l’orientamento verso la fiction:
«Nelle pagine di questo libro vivono personaggi che possono sembrare persone
reali. Essi nascono invece nelle parole che si succedono una dopo l’altra e
muoiono nelle parole», e così via, fino a decretarne la qualità onirica: «Sono
lì forse per capriccio, o magari per suggerire verità che fatichiamo a
penetrare. Come succede nei sogni» (Sartori 2025, p. 264). Nella postfazione del
novembre 2024, il movimento sembra essere, à rebours, verso l’io: «Io non avrei
dovuto esserci in questo romanzo. E nemmeno un personaggio che per tanti aspetti
mi assomiglia», inclusione che poi diventa necessaria come quella degli «esami
di coscienza», all’interno di un tormentato processo di assunzione di
responsabilità: «era soprattutto la mia vita privata a aver ricevuto le eredità
di quell’epoca che i più consideravano ormai lontana, e che io stesso avevo
faticato a disseppellire. Quindi parlare di [mio padre] era anche parlare di me
e del mio percorso, e riesumare l’origine delle mie scelte di vita» (p. 265).
Nella sua recensione per Allegoria, Andrea Inglese definiva una simile
oscillazione come «piena realizzazione delle potenzialità conoscitive proprie
del genere romanzesco»; pur riconducendola qui alle maglie, spesso larghe o
larghissime, dell’autofiction, non si intende di certo sminuirne il grado e la
complessità del processo di formalizzazione. Peraltro, quel «non avrei dovuto
esserci» della postfazione getta una luce ancora diversa sulle varie
dichiarazioni di inettitudine del protagonista, e narratore in prima persona, ad
esempio su questa: «Come il solito non ero né da una parte né dall’altra, ero
dove non avrei voluto essere» (p. 246). Rispecchiamento che sfiora addirittura
la mise en abyme quando il narratore parla del proprio libro, un «romanzo per
certi versi autobiografico» (p. 122) in uscita nello stesso periodo dell’agonia
del padre.
Con ciò, non si vuole sottolineare un preziosismo formale fine a se stesso, o il
fatto che tutto si tenga, nella narrazione; al contrario, lettura e scrittura
restano sullo sfondo di tutto il testo, venendo di volta in volta trattate con
spietata lucidità autocritica come forma di escapismo, battaglia a propria volta
persa con la realtà, palliativo. Spietatezza che non di rado sfiora
l’autoflagellazione: «ero quello che viene definito un debole, lo sono sempre
stato» (p. 10), si legge già nelle prime pagine del libro, dichiarazione seguita
da numerose conferme nel resto del libro, che vanno dalla scarsa resistenza a un
desiderio sessuale attraversato da ineludibili questioni di potere, nel corso
dell’esperienza africana del narratore, alla manifestazione di quella specifica
forma di odio che è il lascito introiettato del culto fascista della violenza e
della guerra del padre.
Ed è proprio in questa eredità scomoda che si delinea più compiutamente la
fisionomia del fascismo, e non solo della personalità autoritaria, nella
scrittura di Sartori. Più che retorica mussoliniana, fascismo è allora un
disciplinamento della persona e, in seconda battuta, della collettività:
«comportarsi come un vero fascista, o comunque – quando il fascismo non esisteva
più da anni – come la sua nostalgia del fascismo gli faceva credere che
bisognasse comportarsi» (p. 156), legittimando quindi il culto della violenza,
simboleggiato in primo luogo dal frequente ritorno della «GUERRA». Quest’ultima
una delle tante parole scritte in maiuscolo che costellano il testo, con
un’enfasi diversa da quella che potrebbe dare il corsivo, e che denota, quindi,
un travaso della violenza fascista anche nel linguaggio quotidiano; l’importanza
simbolica della guerra, tuttavia, è preminente, laddove impone una serie
apparentemente senza fine di comportamenti, mentre agita il fantasma di quel
conflitto armato che avrebbe reso impossibile la deviazione da una certa norma.
In questo senso, uno dei pilastri del fascismo è l’esaltazione della giovinezza,
emblematicamente usata come titolo di una famigerata canzone del ventennio: «il
fascismo è sempre stato dalla parte dei giovani e dell’energia vitale» (p. 124).
La malattia del padre interviene, da un lato, a rafforzare questo mito della
giovinezza e, dall’altro, a scardinarlo; il libro si apre infatti con la
decisione del padre di mangiare i prodotti del proprio orto anche durante
l’interdizione per la radioattività in fuga dai reattori di Chernobyl
– decisione commentata così dal figlio: «Io sono sicuro che se l’è preso
mangiando l’insalatina radioattiva e gli altri prodotti contaminati del suo
orto, il linfoma» (p. 105). Mostrandosi sprezzante del pericolo, il padre agisce
secondo un monolitico dettato vitalista – nutrito peraltro, nei primi anni
Novanta, da una generalizzata e qualunquista sfiducia verso il panorama politico
e mediatico dell’Italia di Tangentopoli.
La narrazione segue poi, con afflato spesso diaristico, il decorso della
malattia del padre, assumendo via via sempre di più i toni della Lettera al
padre kafkiana; la battaglia contro la morte non esclude nemmeno momenti di
resipiscenza autoritaria, o anche fascista, nel caso di un doppio compleanno
vissuto, durante la fase finale della malattia come «una celebrazione fascista,
un perfetto rito nazifascista» (p. 185). La guerra, evocata con nostalgia per
tutti i decenni post-conflitto mondiale, continua così a svolgersi su più
livelli, da quello biologico a quello famigliare a quello ideologico-politico,
continuando così, letteralmente fino allo stremo, lo stato di guerra civile –
secondo la definizione dello storico Claudio Pavone, ormai accolta nella
storiografia italiana della seconda guerra mondiale – inaugurato dall’insorgere
della Resistenza.
Due capitoli di importanza decisiva, nell’economia del libro, si hanno tuttavia
in precedenza, con l’adesione da parte del figlio e narratore alla lotta armata
di ispirazione comunista, prima, e con il lavoro di cooperazione in un paese
africano: meritano trattazione separata, nella seconda parte di questo
intervento, poiché completano il quadro di storia dei generi – tra autofiction e
“nostalgia dell’azione”, secondo la fortunata definizione coniata da Gianluigi
Simonetti per la “fortuna della lotta armata nella narrativa italiana degli anni
Zero” – in cui si è inserita, e torna ora a inserirsi, Anatomia della battaglia.
Seconda parte
Nella molteplice battaglia “anatomizzata” da Sartori, riveste un’importanza
fondamentale il travaso del culto della violenza – nella sua forma forse più
semplice e immediata, dell’odio – dalle nostalgie di fascismo del padre alla
lotta armata del figlio. Quest’ultima è di segno politicamente contrapposto, ma
non “opposto”, per non cedere a quella dicotomia liberal degli “opposti stremi”
su cui nemmeno il testo, a dire il vero, si adagia mai del tutto.
Come sottolinea anche Simonetti in questo importante saggio di qualche anno fa,
nel libro di Sartori è possibile ritrovare anche le «tracce di una riflessione
sui legami profondi tra l’eredità della Resistenza e i “compagni che sbagliano”,
e tra questi e il cuore del Movimento» – aspetto che l’accomuna a testi, per
altri versi dissimili, come Tuo figlio (2004) di Gian Mario Villalta e Piove
all’insù (2006) di Luca Rastello. Sartori, in particolare, perviene a una
critica serrata dell’antifascismo post-bellico più salottiero e opportunista
(come in quest’asserzione indubbiamente fondata, benché utilizzata spesso, e
spesso da destra, come cliché: «Prima erano quasi tutti fascisti convinti,
adesso invece sono altrettanto sfegatatamente antifascisti», p. 85): una sorta
di moto delusivo e reattivo, per il narratore, che sembra collocarsi all’origine
della sua adesione alla lotta armata almeno tanto quanto il rapporto con il
padre e le sue nostalgie fasciste.
Naturalmente, l’impresa armata, per quanto porti con sé la violenza
dell’astrazione, non è soltanto una conseguenza dell’analisi politica,
rivelandosi un’esperienza capace di coinvolgere interamente il narratore, con
una serie di gravi implicazioni morali. Lasciandone la scoperta a chi vorrà
leggere o rileggere Anatomia della battaglia, risulta però evidente il senso di
colpa provato dal narratore per questa stagione esistenziale e politica. Non
sono, in ogni caso, i vaghi tormenti del rimorso (lasciati sullo sfondo di
questa narrazione, che pur essendo anche una storia della provincia montanara
clerico-fascista italiana, si mantiene, dal punto di vista culturale, laica), ma
un percorso di autoanalisi spietata, che porta infine a un’assunzione di
responsabilità precaria, priva di quella maturazione piena che avrebbe luogo in
un Bildunsgroman più ortodosso.
La medesima ferocia nell’autoanalisi è applicata anche al periodo di lavoro che
il narratore svolge in una nazione africana, la cui realtà – più volte definita
«postcoloniale», in ossequio a uno studio che negli ultimi decenni ha attecchito
anche in Italia – induce la sua inettitudine a invischiarsi presto in
comportamenti e azioni neocoloniali (un aspetto persistente, anche in epoca
postcoloniale, per la permanenza del dominio e del discorso ideologico del
dominio di marca occidentale). In questo contesto, assurge a possibile
contraltare soltanto il successivo matrimonio del protagonista con Nora, donna
che invece porta l’eredità del conflitto anticoloniale algerino, in un processo
di elaborazione generalmente più positivo e compiuto di quello abbozzato dal
narratore.
Così come la relazione affettiva tra i due è infine destinata a naufragare,
tutte le tensioni politiche che attraversano il testo non trovano mai sintesi:
sembra valere, dunque, anche per Anatomia della battaglia il giudizio che
Simonetti, nella sua ricognizione critica, limita ad altre opere, ossia il fatto
che «il romanzo» o, in questo caso, un esempio peculiare di autofiction, «tende
[…] a mettersi a lato della Storia; a parlare di impotenza, a illuminare ciò che
non si vede». Quella di Sartori è, anzi, la narrazione paradigmatica
dell’impotenza che, da groviglio psicanalitico individuale, riverbera anche su
un livello autoriale e intellettuale più generale; Anatomia della battaglia, è
vero, indulge sporadicamente nella spettacolarizzazione del terrorismo che
emerge in una porzione dei testi censiti da Simonetti, ma ha anche – si
ricorderà la nota di Sartori del 2005 – quella qualità onirica della narrazione
che poi sarebbe esplosa in uno dei romanzi più importanti degli anni Zero, Il
tempo materiale (2008) di Giorgio Vasta.
In conclusione, Terrarossa edizioni ha senza dubbio individuato nel libro di
Sartori – già apparso vent’anni fa in una collana importante come quella curata
da Giulio Mozzi per Sironi – uno di quei testi “Fondanti” (questo è, senza
timori di sorta, e anzi con molte conferme, il titolo della collana che ha
accolto Anatomia della battaglia) per la letteratura italiana contemporanea che
oggi pare davvero necessario riproporre. Esponendo con estrema, talora feroce,
lucidità la permanenza di un’educazione e, più in generale, di una cultura
fascista nel secondo Novecento italiano – e da verificare ancora, fino allo
scenario odierno e al prossimo futuro – Anatomia della battaglia è un testo che
interpreta in modo peculiare le questioni aperte dalle declinazioni
autofinzionali della scrittura, approfondendole a tal punto che la sua
riproposizione, dopo vent’anni circa dalla prima pubblicazione, sembra la
chiusura del cerchio, e di un ciclo, dal punto di vista della storia dei generi
nella letteratura italiana contemporanea.
Chissà che non se ne apra presto un altro.
L'articolo L’autofiction chiude il cerchio. “Anatomia della battaglia” di
Giacomo Sartori proviene da Pulp Magazine.