Il viaggio di Io capitano in Senegal
Dopo il grande successo di pubblico e critica, Io capitano sbarca in Senegal per
un tour cinematografico itinerante. A bordo di un cine-pullman, il film ha
toccato città e villaggi, coinvolgendo pubblico e attori in un intenso dibattito
sull’emigrazione. Tra emozioni e testimonianze, il viaggio è diventato un
documentario e un’occasione di riflessione e confronto.
Sette David di Donatello e una candidatura all’Oscar, che avrebbe meritato di
vincere: Io Capitano di Matteo Garrone è sbarcato anche in Africa, in Senegal,
terra d’origine dei suoi protagonisti. Nell’aprile 2024, il film attraversato il
Paese, facendo tappa a Pikine, Guédiawaye, Rufisque, Thiès, Mboro, Mérina,
Dakar, Kolda, Sédhiou e Ziguinchor a bordo di un grande cine-pullman, un furgone
equipaggiato con tutto il necessario per trasformare qualsiasi luogo in una sala
cinematografica temporanea. Ad accompagnarlo film c’erano gli attori Seydou
Sarr, Moustapha Fall e Amath Diallo, insieme al mediatore culturale Mamadou
Kouassi, tecnici, fotografi, giornalisti e una troupe video. Anche il regista ha
preso parte al viaggio, partecipando per una settimana alle proiezioni, che si
sono svolte non solo la sera all’aperto, ma anche al mattino nei centri
culturali. La carovana è stata organizzata dalla Fondazione Cinemovel, che porta
il cinema dove non esiste più, o dove non c’è mai stato. «Arrivare in un
villaggio sperduto, dove il pubblico non è abituato agli spettacoli
cinematografici, montare uno schermo, tendere i tiranti, avviare un proiettore…
sono tutti gesti sorprendenti per chi guarda, che subito li accoglie con
entusiasmo, perché sente che sta per accadere qualcosa di speciale», racconta
Nello Ferrieri, cofondatore della Cinemovel Foundation. «E così è stato anche
per il tour senegalese di Io capitano».
Un viaggio straordinario, documentato dagli scatti di Andrea Fiumana e dal
film Allacciate le cinture di Tommaso Marighi, presentato in anteprima al
Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano (21-30 marzo)
prima dell’uscita nelle sale. Il documentario alterna riprese “camera car” lungo
le strade del Senegal a spettacolari inquadrature dall’alto, che mostrano il
pullman in viaggio tra villaggi dai colori vivaci, bambini che giocano, strade
rosse d’argilla, baobab e campi di basket trasformati in cinema a cielo aperto.
L’arrivo della carovana è un evento. Un uomo col megafono, a bordo di un
furgone, percorre villaggi e periferie annunciando ripetutamente il film, l’ora
e il luogo della proiezione, sottolineando con orgoglio che i protagonisti sono
giovani senegalesi. La gente accorre. I bambini portano le sedie, ma non bastano
mai: chi resta in piedi, chi si arrampica su un muro o sul pullman. Poi si monta
il telone bianco e inizia la magia.Ma lo spettacolo più emozionante è nei volti
del pubblico: occhi spalancati, risate, lacrime. La scena del film in cui Seydou
è seguito dalla donna volante, morta nel deserto, scatena ilarità per la sua
incredibilità, ma per il resto dominano stupore e dolore. Molte donne si coprono
il volto durante le sequenze più dure, un boato da stadio accompagna sempre il
finale, quando Seydou urla: «Io, capitano!».
Dibattiti appassionati
Dopo la proiezione, Mamadou Kouassi – la cui esperienza ha ispirato parte della
sceneggiatura – guida il dibattito insieme a Seydou e Moustapha. Gli spettatori
intervengono – in lingua wolof o in francese – per commentare il film e
discutere sui temi legati alla migrazione. Un uomo racconta di aver tentato la
traversata dieci volte, senza mai riuscirvi. Un altro dice che il fratello aveva
già messo da parte i soldi per partire, ma dopo aver visto il film ha deciso di
rinunciare. Una ragazza velata critica l’impazienza dei giovani («Oggi vogliono
tutto, subito»), un’altra accusa le donne di spingere i fidanzati a emigrare per
cercare denaro per il matrimonio. Una madre interviene con fermezza: «I figli
vanno seguiti ed educati! Guai se mio figlio se ne andasse senza il mio
consenso». Tutti concordano sulle responsabilità della politica: mancano corsi
di formazione, chi vuole avviare un’attività non trova sostegno, i giovani
disoccupati passano le giornate dormendo o bevendo tè. Molti vorrebbero studiare
all’estero o anche solo viaggiare, ma ottenere un visto è quasi impossibile. E
allora si parte illegalmente.
Il pubblico chiede che il film venga proiettato in tutta l’Africa, per
sensibilizzare chi rischia la vita inseguendo un’illusione alimentata dai media,
che mostrano solo la bellezza e la ricchezza dell’Occidente. «I toubab (i
bianchi) entrano da noi senza problemi, noi non possiamo andare da loro
legalmente», protesta qualcuno. C’è amarezza, un senso di impotenza. A Thiès,
sua città natale, Seydou Sarr cammina orgoglioso tra la folla che lo riconosce.
Le ragazzine indossano magliette col suo nome. Lui sorride, irresistibile, e
racconta di aver provato tante volte a gridare «Io, capitano!» davanti allo
specchio, ma senza riuscirci. Quel grido finale, dice, è stato un momento
magico, irripetibile. Lo si vede cantare con Moustapha nel pullman, suonare il
tamburo prima della proiezione, ma soprattutto brillare nelle risposte ai
dibattiti.«Questo film deve essere visto sia dagli africani che dai bianchi»,
dice Seydou. «Per noi, perché dobbiamo capire il pericolo di partire. Per loro,
perché vedono solo le barche con i superstiti, ma non sanno cosa c’è dietro. Se
vedranno questo film, capiranno la nostra sofferenza. E forse ci aiuteranno». Il
documentario Allacciate le cinture nei prossimi mesi girerà anche l’Italia. Non
resta che seguirlo.
Africa Rivista