Combattenti per la verità. Anas al-Sharif e i suoi colleghi, una strage avvolta nella menzogna
Dalle pagine di EuroNomade pubblichiamo l’introduzione dell’inchiesta condotta
da Girolamo Di Michele sull’uccisione del giornalista Anas Jamal Mahmoud
al-Sharif e di altri suoi colleghi_
Il 10 agosto scorso il giornalista Anas Jamal Mahmoud al-Sharif, uno dei volti
più noti delle corrispondenze giornalistiche da Gaza, è stato assassinato
insieme ad altri cinque operatori dell’informazione
Il giornalista Anas Jamal Mahmoud al-Sharif, uno dei volti più noti delle
corrispondenze giornalistiche da Gaza, è stato assassinato insieme ad altri
cinque operatori dell’informazione.
Al-Sharif sapeva di essere da tempo nel mirino dell’esercito di occupazione
israeliano. Nondimeno, come molti suoi colleghi e colleghe – Anna Politkovskaya,
Giancarlo Siani, Pippo Fava, Mauro De Mauro, Simone Camilli, Maria Grazia
Cutuli, Daphne Caruana Galizia, Veronica Guerin, Peppino Impastato, Ilaria Alpi
e Miran Hrovatin, Mauro Rostagno – ha continuato fino all’ultimo la sua
battaglia per la verità, con le armi di cui disponeva: una telecamera, un
microfono, i suoi occhi e la sua voce.
L’IDF dispone di droni in grado di colpire un singolo bersaglio: la ditta
costruttrice Rafael Advanced Systems ha usato la ripresa di un assassinio mirato
come spot pubblicitario (e Youtube non chiede la verifica della maggiore età per
vederlo). Nondimeno, l’IDF ha scelto di colpire l’intero ufficio stampa di al
Jazeera, situato in una tenda presso un ospedale.
La strage di giornalisti è avvenuta al culmine di una sequenza che è difficile
pensare dettata dal caso.
Dapprima, 28 luglio, l’assassinio a sangue freddo dell’attivista Awdah Athaleen,
che aveva partecipato al documentario vincitore del premio Oscar No Other Land.
Il giorno dopo, il tentativo da parte di un colono armato di impedire il
reportage alla squadra del TG3. Quel giorno Lucia Goracci ha dato una lezione di
giornalismo svolgendo imperterrita il suo lavoro avendo davanti il colono armato
su un pickup a motore accceso (qui, dal minuto 8:25). Ma l’amaro commento che ha
consegnato al suo post – «a me vengono in mente le parole con cui Michele
Santoro commentò la morte di Libero Grassi, che era stato ospite suo a
Samarcanda: “mi ero illuso che illuminare la battaglia di Libero, gli avrebbe
fatto uno scudo intorno”» – lasciava presagire il peggio.
Infine, registrata l’indifferenza dei governi “democratici” e “occidentali”
davanti alle violazioni della libertà di stampa, l’IDF ha svolto il compito
assegnato con la strage di sei operatori dell’informazione.
La mafia, facendo tesoro di un metodo praticato da Italo Balbo, ha più volte
accompagnato esecuzioni “eccellenti” con la diffusione di dicerie, il più delle
volte a sfondo sessuale, sulle vittime. Con pari, se non maggiore, indegnità
morale lo Stato d’Israele ha giustificato la strage del 10 agosto con la pretesa
militanza di al-Sharif nelle file di Hamas.
Questa diceria è stata rigettata dalla BBC – «La BBC non può verificare in modo
indipendente questi documenti e non ha visto prove del coinvolgimento di Sharif
nella guerra attuale o del fatto che rimanga un membro attivo di Hamas» – e da
Newsweek – «Newsweek non è stata in grado di verificare in modo indipendente i
documenti e le fotografie forniti dalle IDF né il loro contenuto» –, oltreché
dall’United Nations Office of the High Commission on Human Rights (OHCHR), dal
Committee to Protect Journalists (CPJ), dalla Foreign Press Association e da
Reporters Sans Frontières. Le accuse israeliane sono state definite baseless,
infondate, e flimsy, inconsistenti.
Peraltro, va tenuto presente che il diritto internazionale in operazioni di
guerra divide la popolazione civile in due categorie: i combattenti impegnati in
operazioni militari, e i non combattenti; solo i primi sono bersagli legittimi,
non i secondi, men che meno i giornalisti impegnati nel lavoro di informazione.
Quale che fosse il suo status, al-Sharif, in base alle norme di diritto
internazionale non era un bersaglio lecito. La dichiarazione dell’IDF «Una
tessera stampa non è uno scudo per terroristi» è una cinica dichiarazione di
guerra al diritto internazionale e alla libertà di informazione. Ce la meniamo
tanto con «l’unica democrazia in Medio Oriente»: ebbene, per essere una
democrazia non basta mettersi il grembiulino del bravo cittadino e andare a
depositare una scheda nell’urna ogni tot anni. Una democrazia rispetta il
diritto internazionale, e se non lo rispetta non lo è. Le due cose non sono
compatibili.
Potrebbe bastare. Nondimeno, un fact-checking sull’assassinio di al-Sharif è
istruttivo. Non tanto per “riabilitare” un combattente per la libertà della sua
terra con le armi dell’informazione, quanto per mostrare le strategie della
menzogna istituzionalizzata del governo e dell’esercito israeliani. E anche per
sfatare qualcuna delle bufale che si generano da sé per disattenzione o
distrazione. Non servirà a convincere i negazionisti – che probabilmente non
sono arrivati fino a questo punto nel leggere, e sono già a commentare sui loro
social –, ma aiuterà a forgiare nuove armi per una battaglia che sarà di lunga
durata.
Redazione Italia