Campagna israeliana per censurare i post pro Palestina su Facebook e Instagram, le prove
Abbiamo forse l’impressione di vedere un buon numero di messaggi postati sui
social media a favore della resistenza palestinese, ma in realtà, secondo un
gruppo di whistleblower (informatori) impiegati presso Meta – la Big Tech che
gestisce Facebook, Instagram e WhatsApp – i messaggi che vediamo effettivamente
sono solo una piccola parte di tutti i messaggi pro-Palestina che sono stati
postati. La maggior parte non la potremo mai vedere perché è svanita nel nulla,
censurata. E, sempre secondo questi whistleblower, a promuovere la massiccia
censura dei post contro il genocidio in corso a Gaza, c’è lo Stato sionista di
Israele, con la piena complicità dei dirigenti di Meta.
La denuncia di questi whistleblower appare in due documenti bomba che rivelano
come oltre 90.000 post pro palestinesi sono stati indebitamente rimossi da
Facebook e da Instagram su richiesta specifica del governo israeliano. I
documenti offrono persino un esempio delle email che Israele ha scambiato con
Meta per far sopprimere tutti quei post che Tel Aviv giudica “pro terroristi” o
“antisemiti”. (In realtà, dicono i whistleblower, si tratta di normali messaggi
di solidarietà per la causa palestinese.) Inoltre, a causa dell’effetto a
cascata insito negli algoritmi usati da Meta per vagliare in automatico i
messaggi postati sulle sue piattaforme, altri trentotto milioni di post pro
Palestina sarebbero spariti nel nulla dal 7 ottobre 2023. In pratica, si tratta
della più grande operazione di censura di massa nella storia moderna, concludono
questi informatici militanti che ora, con il loro sito “ICW” (International
Corruption Watch), hanno indossato anche i panni di giornalisti investigativi
alla Julian Assange.
Ma non si tratta soltanto di denunce di atti di censura. Le rivelazioni
dell’ICW mostrano come l’Intelligenza Artificiale (IA) possa essere facilmente
manipolata per dare risposte tendenziose: proprio quelle volute da chi ha i
mezzi per “avvelenare il pozzo” dei dati, come, in questo caso, Israele. Si
tratta di una denuncia che ci deve far riflettere tutti quanti. Perché se l’IA
può essere manipolata, allora anche noi possiamo essere manipolati ogni volta
che leggiamo una cosiddetta riposta “obiettiva” generata dall’IA in una ricerca
su Google, ogni volta che poniamo un quesito ad un’app IA che si professa
“imparziale” come Chat-GPT o, infine, ogni volta che scegliamo di guardare un
video segnalataci da una lista creata dall’IA di YouTube in base a sedicenti
criteri di “popolarità”. (In un precedente studio, l’ICW ha mostrato come, in
realtà, gli algoritmi di You Tube – in maniera estremamente sottile – ci
spingono a visionare video politicamente orientati a destra.) In altre parole,
l’apparente neutralità degli algoritmi IA usati non solo da Meta ma da tutte le
Big Tech è puramente illusoria e dobbiamo esserne consapevoli.
Meta sostiene, invece, che i meccanismi che usa per censurare determinati
messaggi postati sui suoi social media siano imparziali. Infatti, spiega Meta,
in alto a destra di ogni post che appare su Facebook o su Instagram, c’è un
tasto “Report” (“Segnala”) per consentire a chiunque di segnalare che quel post
andrebbe rimosso – perché, ad esempio, esso sprona alla violenza, usa la
calunnia o costituisce bullismo. Quindi tutti gli utenti possono fare una
“proposta di rimozione” (take down request) riguardante qualsiasi post che essi
giudicano offensivo; saranno poi gli algoritmi IA di Meta a decidere se un post
è davvero da rimuovere o meno, in base ad una valutazione “obiettiva”. In
conclusione, secondo Meta, se spariscono tanti post pro Palestina dalle sue
piattaforme, è soltanto perché molti utenti li hanno segnalati come offensivi e
l’algoritmo “obiettivo” di Meta ha convalidato questo loro giudizio.
Ma chi abbia usato il tasto “Report” sa benissimo che solo in alcuni casi una
richiesta di rimozione fatta da un utente qualsiasi viene accettata. La
procedura illustrata da Meta non può spiegare la sparizione di trentotto milioni
di post pro Palestina.
Ciò che Meta non dice pubblicamente, infatti, è che esiste anche un secondo
canale per far rimuovere post indesiderati ed è proprio quello che ha usato
Israele. Si tratta di un indirizzo email riservato, divulgato solo a governi o a
grossi enti internazionali, che consente loro di presentare richieste di
rimozione che verranno prese in carico prioritariamente, non da un algoritmo, ma
da un essere umano (un “verificatore”). Molti governi, infatti, ricorrono a
questa procedura per far censurare messaggi postati dai loro cittadini
scontenti. Meta accoglie le loro richieste, almeno in parte, sia per
accondiscendenza, sia per evitare che le sue piattaforme vengano oscurate in
quei Paesi.
Israele, invece, è un caso a parte. Inoltra a Meta richieste di censurare i
commenti critici postati dai propri cittadini solo nell’1,3% dei casi. (A
titolo di paragone, il 95% delle richieste di rimozione fatte dal governo
brasiliano riguarda messaggi postati dai cittadini brasiliani). Ciò significa
che nel 98,7% dei casi, il governo israeliano chiede a Meta di censurare
messaggi pro Palestina postati sui social da cittadini che abitano fuori da
Israele. E lo fa attraverso una sua Cyber Unit creata appositamente. Così,
Israele risulta il Paese con il maggior numero di richieste di rimozione pro
capite – tre volte di più di qualsiasi altro.
Non solo, ma a differenza di altri Paesi, Israele beneficia di un tasso di
accettazione delle sue richieste del 94%, cifra che l’ICW giudica palesemente
forzata e anche pericolosa. Infatti, siccome le accettazioni dei verificatori
umani vengono poi usate per addestrare gli algoritmi IA, quegli algoritmi
subiscono un “avvelenamento” anti-palestinese e cominciano poi a censurare in
automatico ogni futuro post con contenuti simili a quelli rimossi dai
verificatori umani su richiesta della Cyber Unit. In questa maniera, Israele
riesce a censurare il resto del mondo.
Un dato sorprendente emerge poi dalle rivelazioni dei whistleblower dell’ICW. Il
Paese con il maggior numero di richieste di rimozione fatte dalla Cyber Unit non
sono gli Stati Uniti o un Paese europeo bensì l’Egitto, che vanta il 21% del
totale delle richieste di rimozione israeliane. Perché questa attenzione
particolare all’Egitto? I documenti sul sito dell’ICW non lo dicono, ma è facile
indovinare: Facebook è il primario strumento di comunicazione tra gli egiziani
ed è stata proprio una valanga di post su Facebook che ha innescato, nel gennaio
e febbraio del 2011, manifestazioni anti-governative gigantesche in piazza
Tahrir al Cairo (alcune con due milioni di partecipanti) e la conseguente caduta
del regime del dittatore Mubarak. Oggi, un simile massiccio tam-tam di post
Facebook contro il blocco degli aiuti umanitari per Gaza al varco di Rafah
potrebbe innescare un massiccio assalto popolare a quel varco. Infatti, esso si
trova a soli cinque ore di macchina dal Cairo. Chiaramente, dunque, Israele ha
ogni interesse a prevenire una simile protesta: se i manifestanti fossero due
milioni come nel 2011, il loro assalto al varco sarebbe incontrollabile. Da qui
l’assoluta priorità data alla rimozione dei post egiziani pro Palestina.
I documenti fatti trapelare dai whistleblower di Meta sono stati elaborati da un
informatico specializzato in IA, che si fa chiamare “nru”, per creare due
documenti che egli ha poi pubblicato sul sito ICW NRU, Meta Leaks Part 1 l’11
agosto 2025 e Meta Leaks Part 2 il 15
agostohttps://bsky.app/profile/icw-nru.bsky.social. I due documenti esistono
anche in formato pdf, la prima parte si trova qui e la seconda parte qui.
https://archive.org/details/meta_leaks_part_2/mode/1up?view=theater Una bozza
della prima parte è apparsa l’11 aprile 2025 su DropSite News, ma senza
provocare reazioni. Ciò non significa, tuttavia, che la censura dei post pro
Palestin da parte di Meta sia passata inosservata o che non susciti interesse.
Anzi, già un anno e mezzo fa (21 dicembre 2023), Human Rights Watch (HRW) ha
formalmente accusato Meta di censurare con sistematicità una buona parte dei
commenti pro Palestina postati su Instagram e Facebook. Come prove, HRW ha
raccolto e analizzato le lamentele di un migliaio di utenti di queste
piattaforme i cui post sono stati fatti sparire da Meta. Purtroppo, si tratta di
prove necessariamente indirette perché HRW non ha accesso agli algoritmi usati;
quindi Meta ha potuto attribuire le soppressioni dei post a non meglio precisate
“imperfezioni in alcuni suoi algoritmi” (“bug“) che ha poi promesso di
correggere col tempo. E così, tutto è finito lì.
Ora, invece, grazie alle rivelazioni di un piccolo gruppo di whistleblower
all’interno di Meta, abbiamo le prove concrete che Meta continua a censurare i
post pro Palestina, consapevolmente e impunemente.
Infine, grazie alla loro denuncia della tecnica di “avvelenamento del pozzo” dei
dati praticata da Israele, abbiamo un’idea più chiara dei limiti
dell’Intelligenza Artificiale. L’IA è palesemente un “pappagallo stocastico”,
ovvero una creatura che “parla” usando calcoli di probabilità al posto di una
vera consapevolezza di quello che dice. Questo pappagallo può essere
ammaestrato, poi, a presentare prioritariamente le informazioni che i suoi
padroni hanno voluto, con maggiore insistenza, fargli incamerare. In altre
parole, apprendiamo che chiunque controlli l’addestramento di un’IA controllerà
le basi e influenzerà le possibilità di deduzione grazie a cui quell’IA creerà
le sue risposte. Oggi chi controlla l’IA in Occidente è una manciata di
miliardari della Silicon Valley legati alla lobby sionista, ma anche a tutte le
più grosse lobby.
In conclusione, l’IA è da usare, sì, ma con cautela; in quanto ai prodotti Meta
(Facebook, Instagram, WhatsApp), meglio smettere di usarli. Per quanto riguarda
la vicenda Meta Leaks, essa svela solo uno dei vari intrighi escogitati dai
sionisti per soffocare il grido che sale da Gaza. Vanno contrastati
risolutamente, tutti quanti.
Patrick Boylan