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Il formaggio di Agitu torna in Africa
Nel 2020 fece clamore il femminicidio di Agitu Ideo Gudeta, imprenditrice agricola e ambientalista di origini etiopi, che in Trentino aveva trovato il luogo per realizzare un’economia sostenibile. Oggi il suo sogno è rinato in Burundi grazie a un’associazione che ha recuperato le attrezzature della pastora per avviare un caseificio gestito da donne. Un’eredità di resistenza che continua oltre i confini. Agitu Ideo Gudeta, una donna originaria dell’Etiopia, è una vittima di femminicidio. Fu assassinata il 29 dicembre 2020 a Frassilongo, un paesino del Trentino, da un pastore ghanese che lei aveva aiutato accogliendolo come collaboratore nella sua azienda agricola. Arrivata in Italia a 18 anni, conseguita la laurea in Sociologia a Trento, era tornata in Etiopia per dedicarsi a progetti di economia sostenibile contro l’inquinamento e la devastazione ambientale. Ma il suo impegno di attivista per i diritti degli allevatori e contro le speculazioni la rese invisa al governo. A rischio di arresto e minacciata di morte, fu costretta a lasciare il Paese natale. Tornò a Trento, e dopo un lungo peregrinare trovò nella Valle dei Mòcheni il luogo ideale per realizzare la sua visione: un’economia agricola sostenibile, in armonia con la natura, basata sull’allevamento della capra pezzata mòchena, razza autoctona dalle elevate capacità produttive. Grazie alle conoscenze apprese dalla nonna e dai pastori a fianco dei quali aveva combattuto in Etiopia, recuperò terreni abbandonati e li trasformò in risorse. Nel suo maso produceva formaggi con metodi tradizionali e li vendeva direttamente, diventando una figura nota nelle valli e nei borghi trentini. Tra questi, Brentonico, tra il Monte Baldo e il Lago di Garda, gemellato con Muyinga in Burundi. Dal Trentino al Burundi Mauro Dossi è stato il sindaco di questo Comune. «Nel 1994 facemmo una scelta famigliare e decidemmo di prendere in affido una ragazzina burundese di 13 anni, Josiane, che stava vivendo l’esperienza drammatica dello scontro fra gli Hutu e i Tutsi», racconta. «Nel 1997 venne ucciso suo padre e decidemmo di accompagnarla in Burundi al suo funerale». Là Doss irimase impressionato dalla situazione sociale che si viveva nel Paese e decise di fare qualcosa. Fondò l’associazione “Il Melograno” (https://www.associazionemelograno.com/, che negli anni costruì orfanotrofi, falegnamerie, officine e laboratori di cucito, con un modello economico in cui il 50% degli utili delle attività commerciali veniva destinato alle scuole materne e agli orfanotrofi. Nel 2007, Il Melograno avviò una cooperativa agricola con dieci donne burundesi, oggi cresciute fino a settanta. Una scelta volutamente femminile in un contesto in cui sono le donne a sostenere la vita quotidiana: lavorano la terra, raccolgono l’acqua, cucinano, crescono i figli e mantengono le abitazioni. Oggi, le socie lavoratrici stanno coinvolgendo i figli, educandoli a non ripetere gli errori dei padri. Grazie al microcredito interno, la cooperativa ha raggiunto l’autosufficienza alimentare, lavorando 6 ettari di terreno, un dato impressionante se si tiene conto che il Burundi è un Paese con una delle più alte densità abitative al mondo (è grande come il Piemonte, ma ci vivono 12 milioni di persone) e la terra è un bene preziosissimo. Casari senza frontiere Il Melograno aiutò la cooperativa con un allevamento di mucche, capre e maiali, e favorì l’adesione a un consorzio per la raccolta e la vendita del latte. Tuttavia, il limitato mercato locale non permetteva di sostenere i costi di produzione, e il trasporto fino alla capitale, distante 170 chilometri, era insostenibile. La soluzione fu la produzione di formaggio, un prodotto più facilmente trasportabile. Molti allevatori burundesi nemmeno sapevano cosa fosse il formaggio, ma accettarono l’idea e avviarono la costruzione di un caseificio. A quel punto sorse però il problema che in Burundi non ci sono attrezzature per i caseifici, anche perché in tutto il Paese ce ne sono solo tre. È allora che Dossi si ricordò di Agitu. «L’avevo conosciuta perché compravo i suoi formaggi», ricorda l’ex sindaco. «Mi venne l’idea di andare a vedere che fine avessero fatto le sue attrezzature. Nel retro del suo laboratorio a Frassilongo trovammo una situazione non idilliaca: l’attrezzatura era su un prato fuori dal caseificio. La esaminammo con un nostro esperto e decidemmo che tutto ciò che era recuperabile lo avremmo recuperato. Con un container la portammo tutta in Burundi. Avremmo potuto prenderla anche da un’altra parte, però aveva un significato prendere proprio quella». Pagina Facebook La capra felice In Trentino si era tentato più volte di riavviare l’attività di Agitu, senza successo. «Abbiamo fatto la proposta all’avvocato Molinari, curatore dei beni della pastora. La proposta fu accettata e quindi abbiamo portato tutto in Burundi. Abbiamo invitato ad andarvi dei nostri casari e abbiamo formato i casari loro. Fra l’altro abbiamo scelto e individuato anche una ragazza, che assomiglia tantissimo ad Agitu. Abbiamo formato lei e un ragazzo. Oggi il caseificio di Muyinga produce formaggio e funziona a pieno regime. Noi sistematicamente andiamo giù ogni sei mesi con dei casari e li aiutiamo a crescere, però loro intanto sono già diventati autonomi: producono il formaggio e lo portano nella capitale. Li abbiamo aiutati a trovare dei canali che consentano loro di venderlo in ristoranti e negozi. Il formaggio ovviamente si chiama “Agitu”». E il sogno non si ferma qui. «Vorremmo portare in Burundi anche il gregge di Agitu, o almeno gli animali sopravvissuti: quattro capre e un caprone», racconta Dossi. L’idea è quella di consolidare la capra mòchena, la razza che Agitu contribuì a salvare dall’estinzione, e far nascere un allevamento gestito dalla cooperativa femminile. Un progetto che chiuderebbe il cerchio, riportando idealmente Agitu nella sua terra. Le difficoltà burocratiche e sanitarie per il trasferimento degli animali rendono questa fase ancora incerta, ma quel che è certo è che, se Agitu avesse avuto la possibilità di ricostruire in Etiopia ciò che aveva realizzato in Trentino, lo avrebbe fatto senza esitazione. Oggi, nel caseificio di Muyinga, una targa in sua memoria sembra dire: “Guarda, tu sei qui. Ti abbiamo riportata in Africa attraverso la tua attrezzatura, in un contesto che avresti di sicuro amato”.   Africa Rivista
Testimonianza da Bukavu sotto occupazione
Un giovane giornalista di Bukavu (di cui non citiamo il nome per sua sicurezza) racconta la vita sotto l’M23 (23 Marzo), il movimento ribelle che fa da paravento all’occupazione ruandese della Repubblica Democratica del Congo orientale, che si è estesa da Goma e dalle aree circostanti del Nord-Kivu a Bukavu e alle aree circostanti del Sud-Kivu, a partire da febbraio 2025. Una denuncia delle ingiustizie ma anche parole di speranza. Nel frattempo, il Qatar ha fatto una proposta di pace alla RD Congo e al Movimento ribelle; il dialogo dovrebbe riprendere; sul terreno, però, continuano gli scontri, i morti e una volontà espansiva, particolarmente da parte dell’M23 Nel Kivu sotto la morsa dell’M23: oppressione e resilienza Un giovane giornalista di Bukavu (di cui non citiamo il nome per sua sicurezza) racconta la vita sotto l’M23 (23 Marzo), il movimento ribelle che fa da paravento all’occupazione ruandese della Repubblica Democratica del Congo orientale, che si è estesa da Goma e dalle aree circostanti del Nord-Kivu a Bukavu e alle aree circostanti del Sud-Kivu, a partire da febbraio 2025. Una denuncia delle ingiustizie ma anche parole di speranza. Nel frattempo, il Qatar ha fatto una proposta di pace alla RD Congo e al Movimento ribelle; il dialogo dovrebbe riprendere; sul terreno, però, continuano gli scontri, i morti e una volontà espansiva, Verso la fine dell’occupazione dell’M23? A Katana, un villaggio nel Sud Kivu, una donna m’ha chiesto di recente: «Quando se ne andranno queste persone?». Le ho risposto che sono in corso iniziative per mettere fine alla guerra. Stiamo ancora aspettando di vedere segnali di pace. All’inizio di luglio, abbiamo visto camion carichi di giovani congolesi addestrati nelle fila dell’M23 arrivare in città. L’indottrinamento li avrà trasformati in ribelli? È difficile credere che un giovane che conosce la storia dal 1998 possa essere convinto che siano venuti per liberarci: alcuni giovani si uniscono al movimento per necessità, altri per interesse personale, sperando in denaro e lavoro. Si dice tuttavia che molte di queste reclute addestrate, arrivate a Bukavu, siano fuggite. Una sfida dell’Accordo di Washington è la previsione della partenza delle truppe ruandesi. Nell’esercito ruandese, e quindi nell’M23, ci sono anche Congolesi, tutsi e hutu, provenienti dai territori di Rutshuru e Masisi, che non sono poi così diversi da coloro che provengono direttamente dal Ruanda. Questo complicherà il rimpatrio. Il testo dell’Accordo menziona più volte i ribelli ruandesi delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), e l’M23 solo quando si parla dei colloqui di Doha: il Ruanda ha così visto convalidata la sua tesi di essere in Congo per difendersi dalle FDLR. C’è anche una debolezza del governo congolese, che ha inviato ai colloqui esperti che non hanno familiarità con la situazione che stiamo vivendo. La scorsa settimana, 7.000 soldati congolesi sono arrivati a Uvira da Kalemie. Secondo quanto riferito, sarebbero dispiegati nella pianura di Ruzizi. Le Forze Armate della RD Congo (FARDC) si stanno preparando a riconquistare le città occupate? La situazione è confusa. Vivere sotto il dominio dell’M23 L’insicurezza rimane elevata. Pochi giorni fa, sono stati trovati due cadaveri in città, entrambi con un proiettile in testa, tipico modus operandi dell’M23. L’altro ieri sera, l’ufficio della Società Civile di Walungu è stato vandalizzato. Ieri è stato ucciso il vicepresidente del Quadro di concertazione della Società civile di Kabare. Le perquisizioni domiciliari alla ricerca di armi avrebbero dovuto essere effettuate alla presenza del capo della strada, ma ora una dozzina di soldati dell’M23 entrano all’improvviso e perquisiscono ovunque. I nostri figli sono traumatizzati. Furti con scasso, rapine a mano armata e altri episodi di insicurezza sono comuni, con autori ignoti. Malattie imperversano a Bukavu e nelle zone circostanti, come il colera a Luhihi, il morbillo a Shabunda e così via. L’economia in generale non funziona: le banche rimangono chiuse, il che ha colpito in particolare imprenditori, funzionari pubblici e operatori di organizzazioni non governative (ONG), molte delle quali hanno chiuso. Il governo congolese paga i dipendenti pubblici tramite moneta elettronica, ma devono versare una percentuale elevata, che va dal 4 al 10%. Alcuni utilizzano piccoli servizi bancari, ma pagano commissioni bancarie aggiuntive. Il tasso di cambio non è stabile. Il cittadino comune, invece, è normalmente meno colpito dalla chiusura delle banche: con il piccolo capitale di poche decine di dollari che aveva all’arrivo dell’M23, continua ad andare in Ruanda per acquistare beni (verdure, frutta, carne, tuberi, ecc.) da rivendere. Non c’è più alcun accesso alla pianura di Ruzizi, da cui provenivano riso, manioca, pesce essiccato, ecc. Molti camion entrano nella città di Bukavu attraverso il Ruanda, provenienti dalla Tanzania. Chi trae maggiore vantaggio da questa situazione sono i grandi commercianti che collaborano con l’M23, mentre i cittadini comuni, oberati di tasse, ne subiscono le conseguenze più gravi. Viaggiare all’estero è molto difficile: il Burundi rifiuta i documenti di immigrazione rilasciati dai ribelli; si è costretti a passare attraverso il Ruanda, recarsi a Kasindi, vicino a Butembo, acquistare un documento rilasciato dalle autorità congolesi e, con questo, entrare in RD Congo. A Bukavu, la REGIDESO (ente che garantisce la fornitura d’acqua pubblica) non è più in grado di acquistare autonomamente i prodotti per la depurazione dell’acqua: secondo un comunicato stampa del Sindacato degli agenti dell’azienda, l’M23 incassa il 50% dei ricavi. Nonostante il disaccordo degli agenti, l’M23 ha recentemente nominato un vicedirettore presso la SNEL (Società nazionale di energia elettrica), un incarico che non è mai esistito. Il vicegovernatore, scelto dall’M23, ha nominato un comitato direttivo per l’Istituto di Tecniche Mediche (ISTM), il che non rientra nelle sue competenze, e gli studenti hanno protestato. Informazione imbavagliata Le condizioni dell’informazione si stanno facendo più cupe. La Società civile non può esprimersi, i media sono imbavagliati. Alcuni hanno deciso di collaborare con l’M23, altri hanno preso le distanze e abbandonato la lotta. La caccia all’uomo è più mentale: siamo in una paura mentale, abbiamo paura di fare ciò che va fatto, ma almeno, come difensori dei diritti umani, continuiamo a documentare tutto ciò che accade nel Paese e nella zona occupata. Meno di due settimane fa, le autorità dell’M23 hanno riunito i dirigenti dei media tradizionali e i fornitori di servizi internet e hanno dato loro delle linee guida: devono trasmettere un’immagine positiva dell’M23 come liberatore e prestare molta attenzione a ciò che sta accadendo a Minembwe, dove i Banyamulenge (popolazione d’origine ruandese che abita gi altopiani del Sud-Kivu, ndt) vengono uccisi. Ai giornalisti è inoltre vietato parlare di ciò che sta accadendo altrove nella RD Congo. A volte siamo costretti a guardare senza fare nulla, e questo crea un senso di frustrazione e stanchezza. Quando ci vedono, sanno comunque che non siamo d’accordo con loro. Hanno detto ai piccoli commercianti di Katana, mentre chiedevano tasse illegali: «Sappiamo che non ci amate, voi amate i vostri fratelli Wazalendo (partigiani congolesi, ndt), quindi dovete pagare le nostre tasse». Regolamenti di conti e solidarietà Molte persone si sono uccise a vicenda per piccoli conflitti, con le armi lasciate ovunque (dai militari in fuga, ndt)… Il compositore congolese Idengo, ucciso a bruciapelo a Goma, cantava: «Ci stanno invadendo, perché ci sono mancati amore e unità». L’M23 non potrebbe essere forte senza i complici congolesi. Molti hanno approfittato di questa situazione di assenza dello Stato per accusarsi a vicenda e fare soldi. Danno denaro come forma di corruzione all’M23 per fare del male, per vincere una causa senza giustizia. È così che i cantieri si stanno moltiplicando a Bukavu. Il 16 febbraio scorso, giorno del suo arrivo, l’M23 ha sequestrato sei Land Cruiser del progetto PICAGEL: come poteva qualcuno venuto dal Masisi o dal Ruanda sapere di questo deposito? D’altra parte, questa guerra ha mostrato una certa solidarietà tra noi; le persone cercano di unirsi per incoraggiarsi e sostenersi a vicenda. Ad esempio, il proprietario di una casa ha detto al suo inquilino di non preoccuparsi di pagare l’affitto e di andare da lui, insieme alla sua famiglia, ogni volta che fosse rimasto senza cibo. Delle donne vendono il pesce trasportandolo sulla testa. Conoscono le famiglie che sono loro clienti abituali. Dicono: «Prendi il pesce, mi darai i soldi più tardi». Ci sono questi piccoli gesti di solidarietà. Nella nostra comunità di base, contribuiamo ogni settimana ad aiutare i malati. Giovani giornalisti aiutano gli orfanotrofi: ce ne sono molti che attualmente sono in difficoltà perché i benefattori non danno più soldi. Alcune scuole e università hanno accettato che i genitori paghino a rate i contributi scolastici, finché l’M23 non ha imposto tasse. Qualcuno era stato ucciso e il suo corpo giaceva su una scalinata pubblica vicino a Pageco; la vista era insopportabile. Una donna di passaggio ha preso il suo pagne e lo ha coperto. Quando qualcuno è in lutto o è malato in ospedale, le persone vanno a trovarlo e lo aiutano, proprio come prima. Segnali di resilienza La gioia e la festa non sono scomparse. Chi non capisce pensa che siamo in combutta con i ribelli, ma è una forma di resistenza. Nei mercati pirata sui marciapiedi della città, le donne non se ne sono andate: si possono ancora trovare vestiti, pomodori, carne… Il vicegovernatore ha dato loro 72 ore per andarsene; i soldati sono arrivati persino con le armi, hanno portato via due o tre donne, ma pochi minuti dopo le donne sono tornate e hanno rioccupato gli spazi. Le donne vedono questi luoghi come favorevoli alla vendita, soprattutto in questo periodo di crisi, e inoltre non potrebbero permettersi di pagare un posto al mercato. Così l’M23 è tornato con le fruste e ha picchiato tutti quelli che incontrava. Le donne hanno perso molte delle loro merci, ma un’ora dopo, altre sono tornate a vendere nello stesso posto. L’M23 si è rassegnato o sta preparando un’operazione più energica? Queste donne non hanno altre fonti di sostentamento per le loro famiglie. La stragrande maggioranza delle persone non è d’accordo con questa occupazione e, sebbene ci troviamo in una situazione di impotenza, stanno esprimendo il loro malcontento, persino nei bus, nelle piazze e sui social media: è già un rimedio, una forma di resilienza. È difficile da controllare! Un giorno, vicino a Piazza Indipendenza, un giovane membro dell’M23 ha costretto i passeggeri a scendere da un bus parcheggiato male e voleva arrestare il conducente. Una donna ha reagito: «Sai, tutto questo finirà!». L’uomo ha detto: «Dimmi cosa mi farai dopo. Chiamo il servizio di sicurezza e ti spiegherai davanti a loro». La maggior parte delle persone presenti ha sostenuto la donna. Alcuni si sono scusati per lei; l’uomo è stato costretto ad accettare le scuse e la donna se n’è andata. I giovani sono la speranza C’è speranza, non solo per il Kivu, ma per tutti i paesi della subregione e anche per il Ruanda, soprattutto per i giovani ruandesi. Sono congolese, ma ho molti amici ruandesi, sia hutu che tutsi. Come economista, ho svolto da loro servizi di consulenza. Il futuro della subregione dipende dai suoi giovani, se saremo consapevoli del nostro ruolo nel cambiare il sistema messo in atto dai nostri leader e se sarà possibile lavorare insieme. Dico ai giovani ruandesi: «Voi non avete molto spazio per l’agricoltura, noi sì. Venite da noi, voi avete la tecnologia, noi lo spazio… Lavoriamo per abbandonare le divisioni politiche, affinché i nostri leader capiscano che trent’anni sono sufficienti!». Mobutu ha regnato per 32 anni, Kagame è al suo 30° anno di occupazione della Repubblica Democratica del Congo. Presto questo finirà. Speriamo di entrare in una nuova fase di una subregione riconciliata, non per piacere, ma anche perché giustizia è stata fatta. Dobbiamo fare della giustizia uno dei pilastri della riconciliazione, prima di tutto tra tutti noi Congolesi, perché tra noi ci sono molti traditori; tra ruandofoni e non ruandofoni; che chi ha fatto del male agli altri risponda alla giustizia; riconciliazione tra tutti i popoli della subregione, tra i Tutsi e gli Hutu del Ruanda, i Tutsi e gli Hutu del Burundi. Dovremmo imparare dai nostri errori: siamo tutti vittime perché abbiamo messo al potere persone impreparate e prive di competenze utili alla comunità. Penso che il futuro del Sud Kivu, della Repubblica Democratica del Congo e della subregione sarà migliore, ma abbiamo bisogno di giovani consapevoli, politici consapevoli e della volontà di fare le cose in modo diverso. Possiamo fare del Congo un grande Paese per le generazioni future, una forza trainante per lo sviluppo di tutta l’Africa, ed è possibile. (testimonianza del 7 luglio 2025 rivista il 14 agosto 2025)         La Bottega del Barbieri