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Nuove denunce contro le armi nucleari a Ghedi e Aviano: la protesta pacifista sfida la Nato nel cuore dell’Europa in fiamme
Il movimento pacifista italiano torna a farsi sentire. Nella mattinata del 24 ottobre 2025, in concomitanza con la Giornata delle Nazioni Unite, attivisti contro la presenza di armi nucleari sul territorio nazionale hanno tenuto due presidi informativi: uno davanti alla base militare di Ghedi, nel Bresciano,  e un altro di fronte alla Loggia del Municipio di Pordenone. L’iniziativa accompagna il deposito di nuove denunce alle Procure di Brescia e Pordenone, con l’obiettivo di accertare la presenza, ritenuta certa dai promotori, di testate nucleari nelle basi di Ghedi e Aviano, sotto controllo statunitense ma ospitate in territorio italiano. Gli attivisti chiedono di accertare la presenza – da loro ritenuta certa – di testate nucleari nelle basi di Ghedi e Aviano, e di dichiararne l’illegittimità. Le denunce si fondano sulla legge 185 del 1990, che regola il commercio e il transito di armamenti in Italia, sul Trattato di Parigi del 1947, che vieta al nostro Paese di detenere armi di distruzione di massa, e sul Trattato di non proliferazione del 1975, che impegna i firmatari a non ospitare né sviluppare armi nucleari. Non è la prima volta che queste norme vengono invocate in sede giudiziaria. Una precedente denuncia, depositata alla Procura di Roma il 2 ottobre 2023, fu archiviata perché il giudice ritenne di “non poter interferire con scelte prettamente politiche”. Una motivazione che gli attivisti respingono con forza: «Se la magistratura deve essere indipendente dalla politica, allora un atto politico può essere indagato», sostengono. Per questo, le nuove denunce sono state ripresentate a Brescia e Pordenone, cioè nei territori in cui “è stata materialmente consumata l’attività di importazione”. Gli attivisti non si sono dunque arresi. “Il giudice – spiegano i promotori – è garante della legalità e non può arretrare laddove gli spazi della discrezionalità politica siano limitati da vincoli di diritto internazionale e costituzionale. La presenza di testate atomiche in Italia viola norme precise e non può essere giustificata in nome di un’alleanza militare”. Dietro la nuova offensiva legale si muove un fronte composito di pacifisti, giuristi, antimilitaristi e attivisti di storiche associazioni come la WILPF Italia (Women’s International League for Peace and Freedom), da sempre in prima linea nella denuncia delle politiche di riarmo e nella richiesta di adesione al Trattato ONU per la proibizione delle armi nucleari, che l’Italia continua a non ratificare. Il contesto internazionale rende la protesta particolarmente significativa. Mentre il mondo è scosso da nuovi conflitti – dall’Ucraina al Medio Oriente, fino al riaccendersi delle tensioni in Asia – la NATO appare impegnata in una crescente corsa agli armamenti, con un’espansione delle spese militari e l’installazione di nuovi sistemi bellici nel continente europeo. L’Italia, per la sua posizione strategica nel Mediterraneo e la presenza di basi chiave come Ghedi e Aviano, resta uno dei punti più sensibili di questa infrastruttura nucleare. Non a caso, la contestazione contro la NATO si intreccia con un più ampio dibattito sulla sovranità nazionale e sulla legalità internazionale. Per i manifestanti, il mantenimento di testate atomiche statunitensi in Italia costituisce “una violazione palese del diritto dei popoli alla pace” e un atto di sudditanza verso un’alleanza militare che agisce al di fuori dei principi della Carta delle Nazioni Unite. “Non possiamo accettare che il nostro territorio continui a ospitare strumenti di distruzione di massa – affermano gli organizzatori – mentre si moltiplicano guerre e tensioni in nome della sicurezza. L’unica sicurezza reale è il disarmo”. L’iniziativa, organizzata in occasione del deposito delle denunce alle Procure di Brescia e Pordenone, è stata promossa da esponenti di «Donne e uomini contro la guerra», del «Centro sociale 28 Maggio», di «Abbasso la guerra», insieme ad altre realtà del pacifismo di base, tra cui Rifondazione comunista. Davanti all’ingresso dell’aeroporto di Ghedi si è tenuta una conferenza stampa, con gli interventi di Elio Pagani, Ugo Giannangeli e Beppe Corioni, voci storiche del movimento per il disarmo nucleare. Durante la conferenza stampa, Ugo Giannangeli ha criticato quella che definisce una deriva bipartisan: «In contesti diversi, Antonio Tajani da una parte e Piero Fassino dall’altra hanno detto la stessa cosa: che il diritto conta poco. È una dichiarazione inquietante, che dimostra come il potere politico consideri il diritto un ostacolo, non un limite». Ancora più dura la denuncia di Beppe Corioni, secondo cui «l’Italia si sta preparando alla guerra». Ha citato un documento ufficiale della Regione Lombardia che, “sotto il titolo di Emergenza Ucraina – eventuale rischio nucleare, prevede l’istituzione di 30 depositi di stoccaggio di ioduro di potassio”. Una decisione grave, ha aggiunto, «se si considera che ancora non esiste un piano di emergenza nucleare, nonostante le nostre ripetute richieste». In un contesto internazionale attraversato da guerre e tensioni crescenti – dal fronte ucraino al Medio Oriente, passando per le dispute in Asia – la protesta assume un significato che va oltre i confini italiani. Gli attivisti denunciano la progressiva militarizzazione del continente europeo e il ruolo sempre più aggressivo della Nato, accusata di spingere l’Europa verso una logica di guerra permanente. «Non vogliamo essere complici di un sistema che prepara la catastrofe – dichiarano i promotori –. L’unica sicurezza possibile è il disarmo, non l’accumulo di armi nucleari nei nostri territori». Piazza della Loggia e la base di Ghedi diventano così luoghi simbolici di una stessa battaglia: quella per riaffermare il primato del diritto, la centralità della Costituzione e il valore universale della pace in un’epoca in cui, come ricordano i pacifisti, “l’Italia sembra dimenticare di essere nata dalla guerra e dalla Resistenza”. Il 24 ottobre, dunque, non è stata soltanto una giornata di denuncia legale, ma anche un momento di mobilitazione civile e di memoria. Piazza della Loggia, teatro della strage fascista del 1974, e la base di Ghedi, simbolo del potere militare, rappresentano due luoghi emblematici in cui si incrociano le ferite della storia e le sfide del presente. Un segnale forte che, nelle intenzioni dei promotori, vuole ricordare che la pace non è un affare di politica estera, ma un diritto costituzionale da difendere con la stessa tenacia con cui si difende la giustizia Laura Tussi
Ghedi e Pordenone uniti contro le bombe atomiche sui loro territori
Il 24 ottobre 2025 attivisti, pacifisti, antimilitaristi e militanti di Donne e Uomini contro la Guerra – Abbasso la guerra – Centro sociale 28 maggio – Tavolo della pace del Friuli Venezia Giulia – Ecoistituto Alex Langer di Mestre e altre realtà tra cui spiccano uomini e donne che rivestono posizioni apicali in associazioni nazionali e internazionali come WILPF Italia, si sono ritrovati in presidio alle ore 11 davanti alla base militare di Ghedi per presentare la denuncia penale depositata il 23 ottobre 2025 alla Procura di Brescia contro la presenza di armi nucleari sul territorio bresciano. Altri attivisti e militanti hanno fatto altrettanto in contemporanea al Municipio di Pordenone, in occasione del deposito della denuncia alla Procura di Pordenone per le bombe atomiche ad Aviano. Le denunce chiedono di accertare la presenza delle armi nucleari a Ghedi e ad Aviano, presenza certa per i denuncianti; di dichiararne l’illegittimità e di perseguire i responsabili, ci saranno pur dei responsabili, dell’importazione di bombe atomiche vietata dalla legge 185/90, dal trattato di Parigi del 1947, e dal Trattato di non proliferazione del 1975. Un’analoga denuncia presentata alla Procura di Roma il 2 ottobre 2023 era stata archiviata perché il giudice aveva ritenuto di non poter interferire con scelte prettamente politiche. Ma politici e militari hanno posto in essere una condotta illegittima e non potranno trincerarsi dietro una scelta politica perché la legge è chiara. Ed è principio pacifico che il giudice è garante della legalità e quindi non deve arretrare laddove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme nazionali e trattati internazionali firmati dall’Italia come nel nostro caso. La tenacia dei denuncianti, forti della consapevolezza di essere dalla parte della ragione e del diritto, li ha portati a riproporre la denuncia sui territori stessi dove le bombe attendono il loro utilizzo. Utilizzo che farebbe del nostro tertitorio un deserto mai più abitato e abitabile dagli esseri viventi.   Redazione Friuli Venezia Giulia
Caso Sovea, distribuito compost contaminato fino a 12 volte oltre i limiti di legge
Nel cuore del Bresciano, dove la filiera dei rifiuti muove numeri impressionanti – oltre 80 milioni di metri cubi di scorie distribuite in un centinaio di discariche e più di 500 impianti di trattamento – torna a farsi strada lo spettro della gestione illecita dei rifiuti. L’ultimo episodio riguarda la Sovea Srl di Ghedi – con sede legale a Codogno e un’altra unità produttiva a Castelvetro Piacentino – una società autorizzata dalla Provincia a ritirare rifiuti vegetali dalle multiutility per trasformarli in compost destinato all’agricoltura. Peccato che in quel compost siano stati trovati pezzi di plastica, vetro e idrocarburi fino a 12 volte oltre i limiti di legge. Le indagini erano partite nel maggio 2021, dopo la segnalazione di un residente di Calvisano, che aveva notato nel compost sparso nei campi piccoli frammenti di plastica, vetro e persino una batteria stilo. La denuncia ha fatto scattare gli accertamenti, culminati nel sequestro dell’impianto. L’operazione, scattata il 13 ottobre dopo quattro anni di indagini, è stata condotta dai Carabinieri Forestali di Brescia e Vobarno, con il supporto del Nucleo Radiomobile di Verolanuova e su mandato della Direzione distrettuale Antimafia. Gli investigatori hanno posto sotto sequestro l’impianto di compostaggio di Ghedi, un capannone di 9.600 metri quadrati immerso nella campagna, dove i cumuli di compost contaminato venivano accumulati e distribuiti. Sovea, oltre al sito di Ghedi, possiede un’unità produttiva a Castelvetro Piacentino e nel 2018 aveva tentato di aprire un altro impianto di compostaggio a Crotta d’Adda (Cremona), progetto poi respinto dopo le proteste dei cittadini e il no del Comune. Secondo gli inquirenti, tra il 2019 e il 2024 Sovea avrebbe ritirato 250mila tonnellate di rifiuti vegetali, che avrebbero dovuto essere trattati per eliminare i materiali estranei. «Avrebbe dovuto trattarli, per rimuovere i materiali estranei prima di trasformarli in sostanze ammendanti utili per l’agricoltura. Operazione che in realtà non veniva effettuata, allo scopo di massimizzare i profitti» – fanno sapere gli inquirenti che ora stanno risalendo la filiera della vendita per capire dove è finito quel compost che in realtà è rifiuto. A testimoniare la presenza di scorie di vario genere all’interno dei cumuli di ammendante ci sono i filmati e le fotografie scattate dai Carabinieri Forestali, che hanno sequestrato i 9.600 metri quadrati dell’impianto di Ghedi, un capannone in piena campagna. Il risultato è che quel compost, venduto a un euro a tonnellata o persino regalato ad agricoltori e contoterzisti, è finito nei campi di cereali e legumi di Ghedi e Calvisano, nel Piacentino e in altri comuni della Bassa Bresciana, contaminando terreni agricoli con sostanze nocive. L’amministratore unico della Sovea, Roberto Ancora, è oggi indagato per traffico illecito di rifiuti, in base all’articolo 452-quaterdecies del Codice Penale. Il caso Sovea ricorda da vicino quello della Wte di Brescia, la società che tra il 2018 e il 2019 aveva venduto come fertilizzanti 150mila tonnellate di fanghi tossici, poi finiti su 3.000 ettari di campi agricoli nel Nord Italia (31 comuni tra le province in Lombardia Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna) Le aziende agricole che hanno ricevuto i fanghi contaminati si trovano a Bagnolo Mella, Bedizzole, Botticino, Brescia, Calcinato, Calvisano, Dello, Fiesse, Gambara, Ghedi, Isorella, Leno, Lonato del Garda, Manerbio, Mazzano, Montirone, Nuvolera, Offlaga, Orzinuovi, Ospitaletto, Pavone Mella, Poncarale, Pontevico, Pralboino, Remedello, Rezzato, Roccafranca, San Paolo, Verolanuova e Visano. Fu un disastro ecologico. I fanghi di depurazione dovevano essere trattati, igienizzati e trasformati in fertilizzanti ma, alle acque reflue di impianti civili ed industriali, sarebbero stati aggiunti altri rifiuti pericolosi e sostanze chimiche inquinanti e poi il tutto veniva venduto ad agricoltori – alcuni compiacenti e altri no – che li utilizzavano nei loro terreni. Per chi ha condotto le indagini si trattava di «una consapevole strategia aziendale» per ridurre al minimo i costi e massimizzare il profitto. Come riportava Il Salvagente nel giugno 2021, la Wte era stata al centro di un’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Brescia, che aveva documentato l’imponente traffico di fanghi industriali spacciati per concimi. Nel 2021 vennero chiuse le indagini. Furono 23 gli indagati e 17 i rinviati a giudizio. Le prime segnalazioni dei cittadini risalgono al 2011, le indagini si svolsero tra il 2018 e il 2019, il sequestro dell’azienda avvenne due anni dopo e il processo nel 2024 non era ancora entrato nel vivo della questione. Solo nel febbraio 2025, il giudice Angela Corvi ha condannato Giuseppe Giustacchini, titolare dell’azienda, a un anno e quattro mesi (pena sospesa) e 77mila euro di multa per l’azienda con revoca dell’autorizzazione all’esercizio di impresa. Le intercettazioni telefoniche avevano rivelato il cinismo dei dirigenti, che ironizzavano sulla contaminazione dei raccolti – “il bimbo che mangerà la pannocchia” cresciuta sui campi concimati coi fanghi tossici – divenuta simbolo della vicenda. La differenza rispetto al caso Wte è che nel caso Sovea non ci sono le intercettazioni telefoniche dei manager che ridono pensando ai bambini che mangiano le pannocchie contaminate. Lo scandalo della Sovea Srl allarma ancora di più il sindaco di Offlaga, il dottor Giancarlo Mazza, dove la Geobet Srl ha fatto richiesta di aprire un enorme impianto per la produzione di compost lavorando scarti vegetali e anche fanghi della lavorazione industriale. La provincia di Brescia si attesta la vera Terra dei Fuochi d’Italia.   Fonti: > Compost al veleno: il nuovo scandalo nel Bresciano https://brescia.corriere.it/notizie/cronaca/25_ottobre_15/compost-con-plastiche-e-idrocarburi-sui-campi-della-bassa-bresciana-e-del-piacentino-sequestrata-la-sovea-srl-di-ghedi-0efa85d9-364f-40bd-b48b-d4712163cxlk.shtml https://cremonasera.it/cronaca/ghedi-rifiuti-spacciati-per-fertilizzanti-nel-mirino-degli-inquirenti-la-sovea-srl-nel-2018-present-un-progetto-per-un-impianto-a-crotta-ma-venne-bocciato-tra-le-sedi-anche-castelvetro Redazione Sebino Franciacorta
Denuncia sulla presenza di armi nucleari: una brutta pagina per la magistratura requirente e giudicante
E così il dr. Paolo Emilio De Simone ha posto fine a una bella storia di attivismo pacifista e anti militarista (fatta di riunioni, incontri, dibattiti in scuole e in varie realtà territoriali) e a una brutta storia giudiziaria. La bella storia è nata con la pubblicazione del libro  Parere giuridico sulla presenza delle armi nucleari in Italia e poi, a livello giudiziario, è proseguita col deposito della denuncia alla Procura di Roma quasi due anni or sono, il 2 ottobre 2023. La realtà è semplice: le armi nucleari ci sono (a Ghedi e ad Aviano); la loro presenza è illegale; questo è un reato. Il reato si consuma con l’importazione e poi è permanente con la detenzione. Sembrerebbe quella che giornalisticamente si chiama “una causa vinta”: ci sono le fonti sicure, le prove, la documentazione. Così non è. L’11 ottobre 2023 una PM, la dottoressa Gianfederica Dito, chiede l’archiviazione del procedimento. Sì, avete letto bene, nove giorni dopo il deposito. La PM ha letto la denuncia? Probabilmente sì. Ha letto anche gli allegati? Sicuramente no vista la loro enorme mole. Perché la richiesta di archiviazione? Queste le parole della PM “Le scelte assunte nella gestione del delicato fenomeno sono connotate da profili di natura prettamente politica che sfuggono in quanto tali ed in assenza di condotte di evidente rilievo penale alle valutazioni in sede giurisdizionale “. In soldoni: il problema è politico e la magistratura non ha potere di intervento. Eppure l’articolo 101 della Costituzione dice che i giudici sono soggetti solo alla legge e nel nostro caso le leggi sono tante e chiare: la legge 185/90, il Trattato di Parigi del 1947, il Trattato di non proliferazione del 1975, per fermarci a quelle fondamentali. Oltre al danno la beffa: nessuno avverte i 22 denuncianti della richiesta di archiviazione perché possano far valere le loro ragioni avanti al giudice (GIP). Non ci siamo dimenticati di chiedere in denuncia di essere avvertiti; il segretario della PM non si è dimenticato di avvertirci. No, non è stato un errore, la PM non ci ha ritenuti “persone offese” ma, bontà sua, al più “persone danneggiate” che stanno un gradino più su dei semplici “denuncianti” ma ugualmente non hanno diritto all’avviso. Una persona normale fa fatica a capire la differenza tra le tre figure ma anche i giuristi tanto è vero che il più recente orientamento internazionale tende a unificare le varie figure nell’unica di “vittima del reato”. Senza alcun contraddittorio quindi il GIP Paolo Scotto di Luzio ravvisava come “pienamente condivisibile” la richiesta di archiviazione e il 29 aprile 2024 archiviava. Scoperta l’archiviazione grazie a uno dei periodici controlli di cancelleria, rimaneva un solo strumento: il reclamo; e lo presentiamo con una dotta dissertazione del nostro difensore sulla fondatezza della denuncia e sul diritto alla notifica dell’avviso. Niente da fare: il giudice del reclamo respinge. Curiosa la motivazione: “poiché l’interesse protetto dalle norme è l’incolumità pubblica e l’ordine pubblico la persona offesa non può che essere in via principale…….. lo Stato”! Bel conflitto di interessi visto che lo Stato è quello che noi riteniamo responsabile del reato nella persona dei vari governanti succedutisi nel tempo. Non solo, ma afferma il giudice che sulla presenza delle armi può esserci al più un “mero sospetto” con ciò rivelando di non aver letto le molteplici fonti citate in denuncia. Infine torna l’aspetto decisivo: “le scelte sono connotate da profili di natura prettamente politica”. Eravamo consapevoli di non denunciare un furto di galline; eravamo consapevoli delle implicazioni politiche della denuncia ma ritenevamo, e riteniamo, che la magistratura possa, anzi debba, giudicare anche le scelte politiche quando, come nel nostro caso, siano di rilievo penale. Il problema è noto come sindacabilità/giustiziabilità dell’atto politico. L’orientamento più recente della Corte di Cassazione a Sezioni unite (sentenza n. 15601/23) è esplicito “il giudice è garante della legalità e quindi non arretra laddove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme”. In soldoni: il diritto deve prevalere sulla politica. Nel nostro caso tre magistrati sono arretrati (per usare il termine della Cassazione) così come altri magistrati, sempre della Procura di Roma, stanno arretrando trattenendo senza decisione alcuna da oltre un anno e mezzo la denuncia per la fornitura di armi ad Israele e quindi per la complicità del Governo italiano nel genocidio in corso. Non devono esistere temi tabù. Il giudice farebbe politica (accusa periodica rivolta ai magistrati da questo governo) se non esistessero leggi da fare rispettare. Ma se le leggi ci sono, esse devono trovare applicazione. E’ stato scritto (Cassazione, Sezioni unite, n. 18829/2019) “per ravvisare il carattere politico di un atto occorre che sia impossibile individuare un parametro giuridico, sia norme di legge che principi dell’ordinamento, sulla base del quale svolgere il sindacato giurisdizionale. Quando il legislatore predetermina canoni di legalità ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai principi fondamentali dello Stato di diritto”. Infatti, in tema di migranti, è stato scritto che le difficoltà nella gestione dei flussi migratori non possono giustificare il ricorso a pratiche che sarebbero incompatibili con gli obblighi derivanti da convenzioni. Sui migranti la magistratura ha avuto il coraggio di andare allo scontro col Governo, non così su temi di carattere politico più vasto come la presenza del nucleare sul nostro territorio e il concorso in un genocidio. Per il concorso nel genocidio stiamo per denunciare il governo alla Corte penale internazionale, vista l’inerzia della magistratura italiana. Per la presenza di armi nucleari stiamo per presentare due denunce, una a Pordenone e una a Brescia, rispettivamente per Aviano e per Ghedi. Noi non arretriamo, anzi rilanciamo. Cerchiamo un giudice che non arretri. Venegono Superiore, 20 agosto 2025 Avv. Ugo Giannangeli (attivista Abbasso la Guerra OdV) Dott. Elio Pagani (Presidente Abbasso la Guerra OdV) Abbasso la Guerra