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Guerra, repressione e austerità all’ombra del genocidio palestinese
Ci sono Paesi in Occidente che davanti al genocidio palestinese hanno adottato politiche conseguenti rispetto allo Stato di Israele? No, anche i Paesi più critici si sono limitati a qualche invettiva diplomatica, ipotizzando il riconoscimento di un eventuale Stato palestinese, la cui entità geografica è tanto confusa quanto irreale, visto il dispiegamento militare israeliano e i progetti di occupazione e colonizzazione in atto. In molti Paesi poi i tentativi di fermare la vendita di armi ad Israele è stata letteralmente boicottata da lobby sioniste (chiamiamole con il loro nome) che, all’occorrenza, scatenano il senso di colpa verso l’eccidio del popolo ebraico da parte nazista. In altre nazioni si afferma pubblicamente di avere interrotto qualsiasi rapporto commerciale e militare con Israele, salvo poi scoprire ben altra realtà, cioè che, ad esempio, una partita di armi può anche essere ceduta ad un Paese per arrivare ad un altro che, a sua volta, fa recapitare lontano il rifornimento e dopo innumerevoli giri arriva alla vera destinazione. Nelle università statunitensi e in Germania centinaia di attivisti propalestinesi sono stati arrestati e denunciati, quanto accade in terra trumpiana non è detto sia estraneo al clima culturale che vorranno esportare in autunno in Europa a partire da scuole e atenei.  L’obiettivo della campagna filoisraeliana va ben oltre il sostegno al genocidio, mira a ridefinire assetti democratici nei Paesi occidentali, utilizza le accuse di antisemitismo per normalizzare l’insegnamento, per dare impulso alle tecnologie duali avvalendosi magari del sostegno di qualche esponente politico che da anni, ormai, ad ogni domanda sulla Palestina risponde con la litania sul 7 ottobre. Non occorrono grandi conoscenze della storia per capire che da decenni è in atto una feroce repressione del popolo palestinese e con gradualità siamo arrivati al genocidio. Si confonde deliberatamente la critica politica, la lettura storica non in linea con la vulgata ufficiale con istigazione all’odio razziale. È quindi in atto, negli USA, ma presto anche in UE, la normalizzazione delle scuole e dell’università, forse in Italia siamo già avanti con la presenza di protocolli tra Ministero dell’Istruzione, Provveditorati e Forze Armate, gli Atenei, con le linee guida in materia di educazione civica, con gli stages scuola lavoro nelle caserme. Ha ragione Clara Mattei (sul Fatto Quotidiano del 18 Agosto) che, riprendendo Gramsci, ricorda come l’università sia «parte integrante dell’apparato del potere statale, essenziale nella costruzione del consenso per un ordine socio-economico fondamentalmente antidemocratico. Se un tempo la maschera era quella del pluralismo, oggi il volto è apertamente autoritario». E, quindi, un sentito ringraziamento va a studenti, studentesse, ricercatori e a quanti li hanno sostenuti, che hanno elaborato degli statuti accademici con passaggi chiari contro la partecipazione delle università a progetti di guerra: questo, però, potrebbe essere il canto del cigno di percorsi conflittuali ai quali seguiranno processi di normalizzazione e progetti neo-autoritari. In questi giorni estivi, girando per festival e le poche iniziative pubbliche, abbiamo toccato con mano il disinteresse verso l’economia di guerra, l’inconsapevole sottovalutazione politica di quanto la sopravvivenza del sistema capitalistico sia legata alle guerre in corso, prova ne sia l’aumento esponenziale di alcuni titoli azionari in borsa. I governi nazionali stanno facendo di tutto per favorire queste aziende, fautori del libero mercato intervengono invece con fare protezionistico per impedire ad una impresa concorrente di entrare nei mercati nazionali, si ergono a mediatori per rafforzare il capitalismo nazionale all’ombra della produzione di morte. E sarebbe utile, anzi indispensabile, provare a ricostruire quella fitta rete di interessi tra le aziende produttrici di armi, il sostegno accordato alla classe politica dominante a determinate imprese e la politica estera intrapresa dai singoli Paesi. L’accanimento contro Francesca Albanese nasce proprio dalla pubblicazione del report Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, per questo non passa giorno in cui venga descritta dai giornali di centrodestra, e non solo, come una alleata di Hamas con una campagna di odio ben orchestrata ai piani alti dell’editoria e della politica nazionale. Chiudiamo con due ulteriori considerazioni: il bilancio pluriennale europeo ci parla di investimenti duali e nelle infrastrutture, nei singoli paesi UE vedremo tra qualche settimana quante spese sociali saranno cancellate, questione rilevante perché, quando mancano i soldi si vanno a prendere dove sono ossia da sanità e pensioni, dai finanziamenti previsti agli Enti locali.  È poi importante ricordare che un aumento delle spese sociali rimetterebbe in funzione l’ascensore interclassista, che invece sono in molti a volere tenere fermo. E se gli USA rappresentano ancora un parametro di confronto, anzi una sorta di anticipazione degli scenari prossimi del vecchio continente, l’aumento delle spese militari ha già sacrificato le risorse destinate a tre capitoli di spesa: la sanità, l’assistenza alimentare, i servizi educativi e i piani sociali destinati ai migranti. E in alternativa? Nuovi centri di detenzione, sorveglianza e tecnologia avanzata per controllare i confini con il Messico e le aree metropolitane facendo leva sulla insicurezza e sui pericoli. SIAMO DAVANTI A UNA SORTA DI AUSTERITÀ CHE TAGLIA I PROGRAMMI SOCIALI, ACUISCE IL CONTROLLO E LA REPRESSIONE, RESTRINGE GLI SPAZI DI LIBERTÀ E DI DEMOCRAZIA, CHIUDE LA BOCCA ALLE VOCI DISSENZIENTI E RAFFORZA I DISPOSITIVI MILITARI NEL CORPO SOCIALE. ECCO SPIEGATO, IN TERMINI SEMPLICI E UN PO’ AFFRETTATI, IL RAPPORTO TRA POLITICHE DI AUSTERITÀ, SOSTEGNO ALLA GUERRA E REPRESSIONE DELLE ISTANZE DEMOCRATICHE, Federico Giusti, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università