Reati culturalmente motivati: un approfondimento sulle mutilazioni genitali femminili
Questo articolo si concentra sull’analisi dei reati culturalmente motivati, con
particolare attenzione al fenomeno delle mutilazioni genitali femminili,
esaminandone le implicazioni culturali, giuridiche e internazionali all’interno
delle società multiculturali.
L’Italia, come molti altri Paesi europei, si può definire sempre più come
“società multiculturale”. Secondo il professore di diritto penale Fabio Basile,
quando si parla di cultura, si fa spesso riferimento ad una definizione
“etnicamente qualificata”: un sistema complesso, composto da differenti visioni
del mondo e modi di pensare, da concezioni diverse del giusto e dell’ingiusto,
del bello e del brutto, del bene e del male. Queste modalità di percezione e
interpretazione della realtà sono profondamente radicate e pervasive, e
caratterizzano i gruppi sociali, evolvendosi e contaminandosi nel corso delle
generazioni.
Un aspetto cruciale, quando si affronta il tema dei pluralismo culturale,
riguarda il “localismo” del diritto penale, infatti, questa materia, più di
altri settori dell’ordinamento giuridico, tende ad assumere una dimensione
locale, riflettendo i valori e le norme proprie del contesto culturale in cui è
applicato.
Da qualche decennio, il diritto penale ha iniziato a confrontarsi con il
pluralismo culturale delle società contemporanee, elaborando per la prima volta
concetti come il “reato culturalmente orientato” che richiede “una valutazione,
umana e sociale, culturalmente condizionata dei comportamenti presi in
considerazione” 1.
DEFINIZIONE DI REATO CULTURALMENTE MOTIVATO
I concetti di cultural defense e di reato culturalmente motivato vengono
utilizzati in ambito penalistico europeo per descrivere un comportamento
compiuto da un soggetto appartenente a una cultura minoritaria, che, pur
risultando penalmente rilevante secondo l’ordinamento giuridico del Paese
ospitante, è considerato socialmente accettato, giustificato e incentivato dal
Paese d’origine. Tali condotte generano un conflitto tra la norma penale dello
Stato d’accoglienza e una norma culturale, spesso profondamente radicata e
talvolta anche rinforzata dall’ordinamento giuridico del Paese d’origine. In
ambito penalistico, questa divergenza è definita “antinomia impropria”.
Nel diritto penale di ciascun Paese, la gestione del pluralismo culturale
dipende dall’adesione a uno dei due modelli teorici prevalenti: il modello
assimilazionista e il modello multiculturalista. Il primo impone agli immigrati
l’abbandono della propria eredità culturale, richiedendo una piena conformità ai
valori, alle norme e alle pratiche della società ospitante. Al contrario, il
modello multiculturalista si fonda sul riconoscimento della diversità culturale
e sulla legittimazione delle pratiche minoritarie, promuovendo strategie
politiche tolleranti e progressiste, purché compatibili con i principi
fondamentali dell’ordinamento giuridico.
Diverse democrazie occidentali hanno aderito formalmente al modello
multiculturalista ponendo però dei limiti al suo esercizio: il rispetto dei
diritti fondamentali dell’individuo, per cui, ogni espressione culturale deve
necessariamente armonizzarsi con i principi costituzionali e con le norme a
tutela dell’individuo.
I REATI CULTURALMENTE MOTIVATI: PERPLESSITÀ INTERPRETATIVE
La crescente presenza di persone migranti nei Paesi europei, all’interno di
società sempre più caratterizzate dal pluralismo culturale, solleva una serie di
riflessioni anche in ambito penalistico. Una delle questioni più delicate
riguarda il ruolo che le differenze culturali dell’imputato o imputata possono,
o dovrebbero, avere nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto penale.
Non si tratta di offrire una giustificazione automatica ai comportamenti
penalmente rilevanti, ma di interrogarsi su come il sistema giuridico possa
confrontarsi con condotte che, pur configurandosi come reati, trovano origine in
sistemi normativi e valori culturali differenti da quelli della società di
arrivo. In questo senso, il problema non è tanto la “cultura” come attenuante o
esimente, quanto la complessità del giudizio quando esso coinvolge individui
portatori di tradizioni e visioni del mondo diverse.
Non esiste una risposta univoca, anche perché i contesti culturali sono molto
eterogenei, così come lo sono i reati che possono emergere in un quadro
multiculturale. È però possibile individuare alcune tipologie di condotte che
pongono particolari difficoltà interpretative, soprattutto quando alla base vi
siano pratiche legate a convinzioni culturali radicate.
Tuttavia, si possono individuare alcune macro-categorie di reati che emergono
con maggiore frequenza, analizzandone dettagliatamente uno nei prossimi
paragrafi:
* Reati intrafamiliari: in alcune culture, il capofamiglia detiene un’autorità
assoluta che giustifica l’uso della violenza per punire comportamenti
ritenuti devianti.
* Reati d’onore: forme di violenza volte a ristabilire l’onore familiare o
personale, spesso collegate a comportamenti sessuali o relazioni non conformi
alle norme del gruppo di origine.
* Riduzione in schiavitù e sfruttamento di minori: pratiche tradizionali che
giustificano la sottomissione di minori.
* Reati contro la libertà sessuale: in contesti in cui la donna non gode di
autonomia si verificano abusi giustificati dal ruolo familiare o dal genere,
anche nei confronti di minorenni.
* Mutilazioni genitali femminili e pratiche rituali: condotte giustificate come
riti di passaggio o segni di appartenenza, che causano danni permanenti.
Nel contesto processuale, il background culturale dell’imputato può assumere
rilievo probatorio, offrendo al giudice una chiave interpretativa per una più
completa e veritiera ricostruzione dei fatti 2.
LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI E IL DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE
Come accennato sopra, il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili
rappresenta un chiaro esempio di reato culturalmente motivato. Nel 1955
l’Organizzazione Mondiale della sanità l’ha descritto includendo: “tutte le
pratiche che comportano la rimozione parziale o totale degli organi genitali
femminili esterni o altri danni agli organi genitali, compiute per motivazioni
culturali o altre motivazioni non terapeutiche 3”.
Sono state formalmente riconosciute 4 pratiche:
* Tipo I: consiste nell’escissione del prepuzio, con o senza la rimozione del
clitoride.
* Tipo II: prevede l’escissione del prepuzio e del clitoride, insieme alla
rimozione parziale o totale delle piccole labbra.
* Tipo III: comporta l’escissione parziale o totale dei genitali esterni e la
cucitura della vulva (infibulazione).
* Tipo IV: include tutte le altre pratiche dannose sui genitali, come le
ustioni, i tagli o l’uso di sostanze corrosive 4.
La mutilazione genitale femminile (MGF) è una pratica profondamente radicata in
molte società extraeuropee, diffusa in circa 40 Paesi nel mondo, principalmente
in Africa, Medio Oriente e alcune aree dell’Asia. Nonostante sia riconosciuta a
livello internazionale come una violazione dei diritti umani, continua ad essere
perpetrata a causa di un complesso sistema di credenze e tradizioni che varia da
contesto a contesto.
Alla base della MGF vi sono molteplici motivazioni, spesso intrecciate tra loro,
che affondano le radici in fattori culturali, religiosi e sociali. Uno degli
elementi principali è l’identità culturale: la pratica viene vista come un rito
di passaggio, un segno di appartenenza alla comunità. Le ragazze che vi si
sottopongono sono considerate adulte, pure e degne di rispetto, mentre chi si
rifiuta rischia l’emarginazione o la stigmatizzazione.
Un altro motivo ricorrente è legato alla concezione della sessualità femminile.
In alcune culture, si crede che la mutilazione rimuova una parte “maschile” del
corpo della donna, purificandola e rendendola più femminile. Questa convinzione
si lega al desiderio di controllare la sessualità femminile, vista come
potenzialmente pericolosa per l’onore familiare. Di conseguenza, la pratica
viene giustificata anche come strumento per garantire la verginità
prematrimoniale e la fedeltà coniugale, rafforzando l’idea che il corpo della
donna debba essere controllato in funzione del prestigio e della reputazione
della famiglia.
In alcune aree, inoltre, esistono credenze secondo cui i genitali esterni
femminili sarebbero impuri, poco estetici o addirittura nocivi per la salute. In
questo contesto, la MGF viene vista come una pratica igienica, che renderebbe il
corpo femminile più sano e gradevole. A queste credenze si aggiungono altre
convinzioni, come l’idea che la mutilazione possa aumentare la fertilità della
donna o migliorare il piacere sessuale del marito, rafforzando così il suo
valore nel matrimonio.
Non da ultimo, la MGF è spesso ritenuta una condizione necessaria per il
matrimonio: una donna non mutilata può essere considerata “impura”,
“disobbediente” o “inadatta” a diventare moglie, con gravi conseguenze sociali
per sé e per la sua famiglia 5.
In sintesi, la MGF non è solo una pratica fisica, ma il risultato di un sistema
culturale complesso, che collega il corpo femminile a concetti di purezza,
onore, salute e appartenenza. Vi è dunque un sistema di credenze che sostiene
che questa pratica migliori la salute e lo status sociale delle donne
coinvolte.
A seguito dei flussi migratori, diversi Paesi occidentali si sono trovati a
confrontarsi con pratiche come la mutilazione genitale femminile, ritenute
particolarmente gravi in quanto considerate lesive dei diritti fondamentali
delle donne, in particolare della loro integrità fisica e libertà personale.
Tali pratiche sono state oggetto di una netta condanna da parte della comunità
internazionale: diversi atti, tra cui il Protocollo di Maputo, impongono agli
Stati l’obbligo di vietarle espressamente attraverso misure legislative efficaci
e strumenti adeguati di tutela.
In ambito europeo, tali pratiche sono considerate penalmente condannabili in
tutti gli Stati, anche se con modalità diverse: alcuni Paesi, come Svezia, Regno
Unito, Norvegia, Belgio e Spagna, hanno adottato leggi specifiche per
contrastare queste pratiche, mentre altri, come la Francia, pur senza una
normativa specifica, fanno ricorso alle disposizioni generali sul reato di
lesioni personali. Nonostante ciò, la Francia risulta essere il Paese europeo in
cui si sono celebrati più procedimenti giudiziari in materia.
Infine, si è discusso della possibilità che il consenso espresso dalla donna
possa escludere la punibilità delle mutilazioni. Tuttavia, molte legislazioni
escludono esplicitamente questa possibilità, ritenendo che nemmeno il consenso
possa giustificare una pratica che lede diritti umani fondamentali.
IL CASO STUDIO E LA RISPOSTA NORMATIVA ITALIANA: LA LEGGE 7/2006 E
L’INTRODUZIONE DI REATI SPECIFICI NEL CODICE PENALE
Un caso particolarmente rilevante e rappresentativo del possibile sforzo
ricostruttivo del contesto di riferimento, si è verificato a Verona nel 2006,
quando, due genitori nigeriani avevano richiesto a una connazionale di praticare
la aruè, una forma di mutilazione rituale, su due neonate. In primo grado tutti
furono condannati, ma in appello la Corte di Venezia assolse i genitori,
ritenendo che non ci fosse la volontà di ledere le figlie, bensì l’intenzione di
seguire un rituale culturale ritenuto necessario nella loro comunità. La
decisione si basò anche su testimonianze di esperti (antropologi, mediatori
culturali, membri della comunità religiosa), che aiutarono il giudice a
comprendere il contesto sociale e culturale del gesto.
Questa sentenza ha sollevato un ampio dibattito in quanto il confine tra il
rispetto delle differenze e la tutela dei diritti fondamentali rimane sottile e
profondamente controverso: da un lato, c’è chi considera questo caso un esempio
positivo di apertura al dialogo interculturale, dall’altro, alcuni temono che
legittimare pratiche lesive possa legittimare azioni pericolose, soprattutto in
casi in cui siano coinvolti minori o vittime vulnerabili.
In Italia, con la legge 9 gennaio 2006, n. 7, lo Stato ha introdotto una
normativa penale specifica per vietare e punire le mutilazioni genitali
femminili, scegliendo quindi di adottare una legge ad hoc. In particolare,
l’art. 9 della legge ha aggiunto al codice penale gli articoli 583-bis, che
introduce i reati di “mutilazioni genitali” e “lesioni genitali”, e 583-ter, che
prevede pene accessorie specifiche per i sanitari coinvolti.
Il tratto distintivo di questa normativa è la particolare severità
sanzionatoria. Le pene previste per questi reati sono infatti più elevate
rispetto a quelle normalmente applicabili per le lesioni personali.
Questa scelta legislativa è stata criticata da alcuni giuristi. In particolare,
si sostiene che il maggior rigore sanzionatorio non sia giustificato da una
maggiore gravità del danno fisico prodotto, ma piuttosto dalla motivazione
culturale del reato. Secondo questa interpretazione, la legge 7/2006 sarebbe una
norma simbolica, volta più a riaffermare i valori della cultura occidentale e a
stigmatizzare pratiche culturali “altre” piuttosto che a tutelare in modo
effettivo i diritti delle vittime.
Ne deriverebbe, in ultima analisi, un atteggiamento intollerante da parte del
legislatore, che punisce più duramente proprio perché il fatto è legato a
tradizioni culturali diverse da quelle dominanti, rischiando solo di accumulare
e fortificare pregiudizi nei confronti di comunità straniere, in base alle loro
provenienze.
1. Sentenza della Cassazione n. 19808 del 9 giugno 2006 ↩︎
2. I reati cd. «culturalmente motivati» commessi dagli immigrati: (possibili)
soluzioni giurisprudenziali, di Fabio Basile, da Questione Giustizia ↩︎
3. Si veda: “Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, Relazione
sulle mutilazioni genitali femminili, 27 ottobre 2021” ↩︎
4. Le mutilazioni genitali femminili. Analisi delle implicazioni culturali e
commento alla “Legge Consolo”, L. Tranquilli, L. Gentilucci, S. Talebi
Chahvar ↩︎
5. Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati
(comprese le mutilazioni genitali femminili), di Fabio Basile, da Stato,
Chiese e pluralismo confessionale ↩︎