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A New York maratona elettorale per Zohran Mamdani
La campagna elettorale “Zohran for New York City” è in dirittura d’arrivo. Martedì 4 novembre è la data ufficiale in cui i cittadini dei cinque distretti (Bronx, Brooklyn, Manhattan, Queens e Staten Island) sono chiamati a esprimere la propria preferenza su chi vorranno come sindaco per i prossimi quattro anni.  Lo scorso aprile il giovane socialista Zohran Mamdani ha sorpreso tutti, soprattutto la vecchia guardia democratica, sbaragliando gli avversari alle primarie e stabilendo il record di distacco in punti percentuali dal secondo candidato (Andrew Cuomo). A Zohran piace correre. Apprendo che era solito fare jogging e ha per ben due volte partecipato alla maratona di NYC, riuscendo pure a migliorarsi di qualcosa. Che sia stata la sua attitudine alla competizione sportiva, l’idea di chiamare questo ultimo fine settimana di propaganda elettorale porta a porta “New York canvassing Marathon”, mentre in contemporanea si svolge la 54th edizione della famosa corsa, è stata una gran bella trovata. L’obiettivo è battere tutti i record e riuscire a contattare più cittadini possibile. Sabato, il primo giorno di tour de force, si è stabilito il primato di bussare a 103.000 porte in ventiquattr’ore; domenica si vuole raddoppiare il numero. Per far ciò il canvas inizia alle nove del mattino e termina alle nove di sera; ogni tre ore ne parte uno costituito da quante più coppie possibile di volontari. Nei vari centri è stata istituita una tenda banchetto, di solito in un’area verde, dove i partecipanti ricevono il materiale e istruzioni pratiche. Stavolta decido di rimanere nel mio quartiere (Bed-Stuy)e mi reco alla tenda di zona. La prima persona che vedo è Isaac (il ragazzo che mi fece da mentore al mio primo canvas un mese fa). È tra quelli sotto la tenda: è impegnato a dare informazioni, cartellette e volantini. Ormai è diventato un attivista professionista, ma appena mi avvicino viene ad abbracciarmi. L’altra volta eravamo ancora tutti in abbigliamento quasi estivo: Isaac in pantaloncini e canotta. Oggi invece fa freddino; indossa un simpatico cappello di lana gialla con la scritta Zohran for NYC in blu e un giubbottone sulle cui spalle spicca una kefiah bianca e nera. In questa mise ha un aspetto decisamente più autorevole e grazie alla sciarpa guadagna un che di nobile. Tutti gli uomini dovrebbero indossare una kefiah; ne acquisterebbero in fascino. In quattro e quattr’otto mi accoppia a Lindsay, che è al suo primo canvas; dunque stavolta dovrei essere io l’esperta, si raccomanda Isaac. Lindsay ed io partiamo alla volta del nostro turf, il territorio che dovremo coprire. Ci è toccata un’area piuttosto lontana; dobbiamo percorrere ben nove isolati. Mentre camminiamo spedite chiacchieriamo. Lindsay mi è subito simpatico: poco più alto di me, non proprio minuto, ma non certo imponente, sembrerebbe un tipo ordinario se non fosse per gli occhi vispi, brillanti e intelligenti e per un non so che di fresco e familiare. Si è trasferito a Brooklyn da quattro anni e mezzo, ma è originario dell’ovest, di Seattle. Viene da una delle città più giovani e creative degli States, dove nacque il movimento no global. Correva l’anno 1999 quando circa settantamila ragazzi riuscirono a bloccare i lavori dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e accesero la miccia delle proteste che impazzarono in quegli anni. Ovunque si radunassero i big del neoliberismo globalizzato, i famigerati raduni dei G7 e poi G8, accorrevano anche i manifestanti, per lo più pacifici e creativi, a contestarne la legittimità democratico-popolare. È in quegli anni che nacque lo slogan “Un altro mondo è possibile”, sul cui ideale si sono formati gruppi di resistenza civile e nonviolenta, fanzine e network di pensiero rivoluzionario, tante diverse forme di consapevolezza sociale, economica e ambientale di cui possiamo considerarci gli eredi. A Seattle però c’è anche il Pacifico; vivere accanto a una distesa d’acqua più grande di tutti i continenti messi insieme non ti lascia indifferente – lo so per esperienza personale, ma non è questa l’occasione per parlarne; comunque non posso fare a meno di percepire la freschezza, il guizzo dell’eternamente giovane tipico di quella costa che sento in Lindsay. Siamo arrivati al nostro turf; basta chiacchierare, ora è tempo di impegnarsi nella corsa. Facciamo del nostro meglio tra campanelli e battenti; il bilancio delle risposte che riceviamo è decisamente pro-Zohran e questo ci rallegra. Sbircio il sito che aggiorna in tempo reale i numeri della maratona; la nostra, non quella sportiva che si è già conclusa ed è stata immancabilmente vinta da due atleti africani. Anche noi ce la stiamo cavando niente male: il record dei 103.000 di sabato è già ampiamente superato. Perché quando ci si mette in tanti, e con passione, si possono fare cose incredibili.       Marina Serina
New York non è in vendita. Entusiasmante raduno per Zohran Mamdani
Domenica 26 ottobre 2025: la notte è calata lentamente. Da ore siamo seduti sugli spalti freddi del Forest Hills Stadium e l’aria si è fatta pungente; siamo tutti intirizziti, ma non lo è il cuore, che anzi pieno di passione ci incita a urlare e battere le mani sempre più forte. Stiamo tutti aspettando Zohran Mamdani. Per chi come me fosse una neofita della politica statunitense, è importante sapere che durante un raduno (che qui chiamano rally) sfilano sul palco uno a uno i sostenitori del candidato, per esporre con vigore e trasporto le motivazioni che li hanno indotti a sostenerlo. Gli interventi sono numerosi. Per primi parlano i rappresentanti di diverse categorie di lavoratori – il medico, l’infermiere, il ricercatore, l’insegnante, l’educatore, il tassista e altri ancora. Tutti fanno fatica ad arrivare alla fine del mese.  Poi tocca ai referenti delle tre principali religioni presenti in città – un rabbino, un imam e un pastore – tutti e tre desiderosi di costruire una comunità dove ci sia posto per ogni fede e dove ognuna non solo rispetti l’altra, ma ne ricerchi il confronto e l’amicizia. Seguono personaggi di spicco dell’ambiente sindacale e dell’organizzazione politica DSA (Democratici Socialisti d’America) tra cui Alexandria Ocasio-Cortez, rappresentante per New York al Congresso e il membro più giovane che mai vi sia stato eletto (classe 1989) e Bernie Sanders, al contrario uno tra i senatori democratici più longevi e battaglieri della scena politica americana. Finalmente, in un tripudio di applausi e ovazioni di felicità che prendono qualche minuto buono, tocca all’aspirante sindaco uscire sul palco; è arrivato il momento di donarsi al suo pubblico. Non mi sento di straparlare affermando che l’incontro tra Zohran e le 15.000 persone raccolte attorno a lui stasera abbia un che di amoroso. Lui riconosce tutto: senza di loro sarebbe rimasto l’anomalia statistica (così scherza parlando di come i primi sondaggi l’avevano definito). Loro, i lavoratori, lo ringraziano perché li ha ascoltati. E’ da tempo infatti che in questo Paese, e non solo, non si ascoltano più le persone; a New York City Zohran sembra essere il primo politico a riaprire il dialogo interrotto tra l’istituzione e il popolo. Da anni i bisogni della città vengono analizzati e pianificati attraverso modelli teorici sempre più lontani dalla realtà, che non riguardano più le necessità del cittadino, ma quelle di corporation e milionari. Da questa presa d’atto e denuncia scaturisce il nome del raduno: New York City is not for sale (la città di New York non è in vendita). Urliamo lo slogan così tante volte che sembra che l’intera città, da Harlem fino a Staten Island possa sentirlo. Zohran stesso ci invita a diventare ancora più chiassosi, così che Cuomo (il rivale) ci senta dal suo appartamento da ottomila dollari al mese e che ci sentano pure i miliardari arroccati dentro la Casa Bianca! Benché sia in un momento di grande forza e creatività, il movimento DSA non nasce dal nulla (il riferimento è al lavoro paziente di semina fatto dall’amico Bernie Sanders) e la strada sarà lunga e in salita. Non basterà vincere il 4 novembre, obiettivo a cui bisogna dedicarsi senza risparmiarsi e pensando di essere cinque punti indietro all’avversario (non avanti come indicano i sondaggi); da lì in poi ogni giorno ogni lavoratore dovrà essere consapevole dei propri diritti e pronto a lottare per essi; si dovrà riportare la città dentro uno schema di valori umani ed egualitari. Perché non è radical (estremista) voler vivere in una casa dignitosa a un prezzo accessibile; è radical venire accusati di avere simili pretese.  In verità il blocco degli affitti riguarda solo una particolare tipologia di contratto, quello “stabilized” (a canone fisso), che comunque coinvolge più di due milioni di famiglie. Maggior impatto sociale potrebbe avere la cura dell’infanzia gratuita fino ai sei anni. Ma anche in questo caso non è radical desiderare una famiglia; è radical che si imponga una scelta tra la carriera e gli affetti. Sembrano cose ovvie, eppure dall’eccitazione che rilevo attorno a me sembra che tali elementari desideri siano rimasti soffocati, forse sotto il peso del sopravvivere in una realtà divenuta ostile. La città stessa, la bella New York City, è protagonista stasera. La sento amata dal candidato e dai suoi cittadini qui riuniti. Più volte, ascoltando il botta e risposta, fatto di applausi, di torce dei telefonini che ondeggiano, di sonori “buuuu”, di urla e risate, ho l’impressione che i presenti vogliano liberarla dai sordidi affaristi che nella loro infinita avidità ne stanno ammorbando l’anima. Il punto è che una città non è fatta solo di mattoni, accaio e cemento: nelle sue arterie scorre anche qualcos’altro, qualcosa che potremmo anche chiamare “amore”. E come ogni creatura quando si sente amata diventa felice e accogliente, anche New York diventa amabile. Di amore si parla molto durante il rally; la parola è sulla bocca di ogni partecipante e io lo voglio intendere così, a trecentosessanta gradi e senza barriere. Un miliardario, residente chissà dove, a cui è stato proposto l’ennesimo affare immobiliare a seguito di sfratti di interi lotti a Bed-Stuyvesant (il quartiere dove abito a Brooklyn) costruirebbe un’altra relazione, o meglio sarebbe dire non creerà “nessuna relazione”. A costui potrebbe persino non interessare il nome del quartiere dove ha investito denaro e men che meno la sua storia, intrisa di vita e battaglie civili. Ma la città appartiene a chi la vive, non a chi la sfrutta e a un certo punto o muore o si ribella. Zohran chiede a gran voce: “Volete arrendervi o combattere?” Il coro risponde compatto: “Combattere!” Al rally di stasera, in proporzioni diverse, sono presenti tutte le generazioni. Ne ho un campionario proprio vicino a me. Alla mia destra siede una signora anziana non molto alta e piuttosto robusta; le spalle sono da indio-messicana, ma il viso può appartenere a qualsiasi etnia. La figura nell’insieme mostra i segni di una persona che ha faticato per vivere. Alla mia sinistra siede un ragazzo giovane dall’aspetto hippie e dai modi delicati: indossa un giubbotto di pelle, la sciarpa e il cappello di lana e porta persino degli occhialini tondi alla John Lennon. Lui esprime il proprio entusiasmo in maniera vigorosa, salta come un grillo e si agita a ogni battuta; lei è molto più composta nelle sue reazioni, non applaude ogni trenta secondi e si alza in piedi sempre per ultima (lui è sempre il primo), però non resiste alla battute di Zohran e finalmente, adesso che siamo al finale, la vedo ridere quasi spensierata. Questa donna, come me intabarrata per far fronte al freddo della sera, mi ricorda una delle prime persone che incontrai quando misi piede in America otto anni fa. Mi ero smarrita nel dedalo della stazione di Port Authority quando un’addetta mi aiutò indirizzandomi alla banchina giusta dell’autobus che dovevo prendere, qualche piano sopra rispetto a dove mi ero persa. Sull’ascensore scambiammo due parole: io ero la turista entusiasta, lei la lavoratrice stressata. Le sue parole mi sono rimaste ben impresse: “Questa è la città che non dorme mai; per voi è affascinante, ma noi stiamo impazzendo. Avrei bisogno anch’io di una vacanza … Che bella dev’essere l’Italia … ma qui è impossibile pensare di avere più di una settimana di riposo e con così poco tempo che cosa fai? Stai a casa, cerchi di recuperare tutto ciò che hai lasciato indietro, perché a New York si deve sempre correre, sennò finisci male, per strada. Non so dove finiremo, non so per quanto potremo ancora reggere.” Mi chiedo se anche lei sia qui stasera. Non la saprei riconoscere, ma spero tanto che ci sia. Foto di Marina Serina e https://www.facebook.com/32BJSEIU   Marina Serina
Paura, potere e disperazione: così la vecchia guardia cerca di fermare Zohran Mamdani
A poche settimane dalle elezioni per la carica di sindaco di New York, il tono della campagna è passato dalla competizione alla disperazione. La prevedibile campagna di paura dell’estrema destra ha trovato un alleato inaspettato nell’arrogante macchina democratica che un tempo serviva Andrew Cuomo e che ancora oggi protegge il suo marchio politico. Insieme, stanno mettendo in atto una strategia su due fronti per danneggiare la credibilità di Zohran Mamdani: demonizzarlo come “troppo radicale” e contemporaneamente sabotarlo dall’interno dell’establishment che lui rappresenta meglio di loro. Il copione dell’estrema destra è familiare. I tabloid urlano “comunista”, “a favore dei terroristi”, “anti-Israele” e “anti-polizia”, riciclando il panico della Guerra Fredda e l’islamofobia post 11 settembre. Trasformano ogni proposta politica progressista in un’arma culturale. Il congelamento degli affitti diventa “lotta di classe”. Il trasporto pubblico gratuito diventa “suicidio fiscale”. Anche l’empatia è sospetta. L’obiettivo non è la persuasione, ma la paura. La loro narrativa si basa su una nostalgia spasmodica per una New York che non è mai esistita, dove il privilegio mascherava la stabilità. In quella città fantastica, la diversità era decorativa, i sindacati erano obbedienti e i miliardari erano generosi. Ma l’opposizione più rivelatrice e pericolosa ora proviene dall’ala Cuomo-Adams dell’establishment democratico. Gli stessi addetti ai lavori che per anni hanno difeso la corruzione, il clientelismo e gli accordi segreti sono improvvisamente preoccupati per l’“inesperienza” di Mamdani. Sono gli stessi democratici che applaudivano la teatralità da uomo forte di Cuomo mentre maltrattava i suoi collaboratori, ignorava la crisi abitativa della classe operaia e premiava gli imprenditori edili. Gli stessi potenti che non sono riusciti a ispirare una generazione di nuovi elettori ora sussurrano che Mamdani non è in grado di “costruire un consenso”. Ciò che intendono realmente è che non accetterà ordini. L’élite democratica sta ora sostenendo apertamente la candidatura indipendente di Cuomo, un atto di sabotaggio politico che rasenta l’autodistruzione. La loro giustificazione? “L’eleggibilità”. La vera paura? Dover rendere conto delle loro azioni. La vittoria di Mamdani alle primarie democratiche non è stata solo una sorpresa, ma anche un atto di accusa contro un partito ormai sordo alle esigenze della propria base. Il messaggio degli elettori era chiaro: vogliono un sindaco che parli a nome degli inquilini, dei lavoratori e dei quartieri dimenticati, non della classe dei donatori. Eppure la vecchia guardia del partito preferisce perdere contro un reazionario piuttosto che vincere con un socialista democratico. Questa ipocrisia è profonda. Gli stessi consulenti politici che predicano “l’unità contro la destra” stanno ora spendendo milioni in pubblicità aggressive che riprendono le posizioni della destra. Denunciano la “divisività” mentre cospirano con miliardari e magnati dei media per dividere l’elettorato sulla base della paura e della classe sociale. Affermano di difendere la democrazia, mentre minano il risultato delle loro stesse primarie. Così facendo, rivelano la loro vera fedeltà: non al partito, all’ideologia o persino al governo, ma al potere stesso. I media mainstream amplificano questa farsa. I principali organi di informazione, alcuni liberali di nome ma conservatori nella struttura, descrivono la campagna di Mamdani come una “prova di estremismo” piuttosto che come un movimento democratico. Questo è ciò che da tempo chiamo giornalismo dell’esclusione: quando le notizie che mettono in discussione la ricchezza e la guerra vengono etichettate come ‘marginali’ e quelle che servono il potere vengono trattate come “obiettive”. In questo modello, il compito dei media non è quello di informare il pubblico, ma di rassicurare l’élite che nulla di fondamentale cambierà. Eppure qualcosa sta cambiando. Ogni attacco, ogni diffamazione, ogni titolo citato in modo errato non fa che chiarire la posta in gioco. L’ascesa di Mamdani non rappresenta solo una campagna, ma un riallineamento politico: un nuovo Secondo Cerchio di lavoratori, sindacati, immigrati e progressisti che vedono oltre il teatro della paura. Sanno che le accuse più veementi di “radicalismo” provengono spesso da coloro che temono di perdere i propri privilegi. La disperazione del vecchio ordine è un segno del suo declino. L’élite al potere e i media che la sostengono possono rallentare la marea, ma non possono invertirla. Quando l’establishment definisce un movimento “pericoloso”, di solito significa che sta finalmente diventando efficace. Se il Partito Democratico continua a sostenere di difendere la democrazia, dovrebbe smetterla di combattere i suoi elettori e iniziare ad ascoltarli. Traduzione dall’inglese di Anna Polo     Partha Banerjee
La politica della violenza e il futuro di Zohran Mamdani
Il tragico assassinio dell’attivista di destra Charlie Kirk ha scosso il panorama politico americano. Innanzitutto chiariamo una cosa: un atto di violenza del genere è assolutamente orribile e indifendibile. Come persona che crede profondamente nella nonviolenza gandhiana, lo condanno con la massima fermezza. Nessun disaccordo politico, per quanto profondo, dovrebbe mai sfociare in violenza fisica. La violenza non solo ruba una vita, ma danneggia anche la democrazia stessa. Ma una volta superato lo shock iniziale e il dolore, dobbiamo anche porci alcune domande difficili: come viene presentato questo crimine dai potenti mezzi di comunicazione e dai politici dell’establishment? E quale effetto potrebbe avere sul futuro di candidati progressisti come Zohran Mamdani, che ora è sotto i riflettori come serio contendente per la carica di sindaco di New York City? Da vittima a simbolo: la costruzione mediatica di Kirk Alcuni grandi media hanno già iniziato a elevare Kirk a figura simbolica, un martire dell’estrema destra, dipinto come un difensore quasi santo della “libertà” e dei “valori tradizionali”. Per una contorta ironia, coloro che hanno tratto il massimo vantaggio dalla politica divisiva e spesso incendiaria di Kirk ora stanno per ottenere ulteriori vantaggi politici dalla sua morte. Da morto, Kirk diventa più utile per loro di quanto non lo sia mai stato in vita. Il quadro è chiaro: Kirk è presentato come una vittima di una società che, secondo loro, è diventata “troppo radicale”, “troppo violenta” e “troppo intollerante”. Questa narrazione non è casuale, ma ha uno scopo ben preciso: associare l’ascesa della politica progressista al caos e alla violenza, indipendentemente da chi abbia commesso il crimine o quali fossero le reali motivazioni. La legge e l’ordine come arma politica L’establishment usa da tempo la retorica “legge e ordine” come arma politica. Da Nixon negli anni Sessanta a Giuliani negli anni Novanta, il tema è stato sempre lo stesso: la paura vende. Amplificando la criminalità – reale o esagerata – chi detiene il potere crea un senso di insicurezza tra la gente comune, che poi giustifica misure repressive e scoraggia la sperimentazione politica. In questo caso, l’assassinio di Kirk rischia di diventare l’ultimo strumento di questo arsenale. I leader progressisti come Mamdani, che parlano di giustizia economica, uguaglianza razziale e socialismo democratico, potrebbero essere dipinti come parte del problema: troppo “radicali”, troppo “indulgenti nei confronti della criminalità” o addirittura indirettamente responsabili di alimentare un “clima di violenza”. Nessuna di queste accuse avrebbe un fondamento fattuale, ma nel mondo della manipolazione mediatica, la percezione spesso conta più della verità. La sfida di Mamdani: rimanere fedele ai propri valori Zohran Mamdani è emerso come una rara voce di autentico socialismo democratico nella politica cittadina americana. La sua campagna per la carica di sindaco trova riscontro nei newyorkesi stanchi dell’aumento vertiginoso degli affitti, della crescente disuguaglianza e del controllo delle aziende sul governo cittadino. Tuttavia, proprio per questo motivo, l’establishment lo vede come una minaccia. All’indomani dell’assassinio di Kirk, la sfida di Mamdani sarà duplice. In primo luogo, dovrà prendere inequivocabilmente le distanze – insieme all’intero movimento progressista – da qualsiasi associazione con la violenza. Ciò è essenziale non solo dal punto di vista etico, ma anche politico. Deve ricordare ai newyorkesi che la tradizione della sinistra è radicata nella nonviolenza, nella solidarietà e nell’organizzazione di base, non nello spargimento di sangue. In secondo luogo, Mamdani deve smascherare l’ipocrisia dei politici dell’establishment e dei loro alleati nei media. Mentre versano lacrime di coccodrillo per Kirk, rimangono in silenzio sulla violenza sistematica: sfratti di massa, brutalità della polizia, profilazione razziale, detenzione degli immigrati, distruzione dell’ambiente. La violenza della povertà e della disuguaglianza uccide molte più persone di qualsiasi assassinio politico. Eppure quelle vittime raramente vengono trasformate in martiri nei programmi televisivi in prima serata. Questo danneggerà le sue prospettive? La domanda rimane: l’assassinio di Kirk danneggerà le possibilità di Mamdani di diventare sindaco? La risposta dipende in gran parte dall’efficacia con cui lui e i suoi alleati riusciranno a controllare la narrazione. Se prevarrà la visione dell’establishment, che dipinge i progressisti come radicali irresponsabili, allora Mamdani potrebbe davvero trovarsi in difficoltà. La paura, dopotutto, è un potente motivatore in politica. Ma se Mamdani riuscirà a spostare il dibattito sulla violenza strutturale più profonda della disuguaglianza e sui fallimenti della leadership dell’establishment, potrebbe neutralizzare la propaganda e persino uscirne più forte. In effetti, la storia dimostra che quando i progressisti rimangono radicati nella verità e nel potere della base, possono superare tali sfide. La chiave è non ritirarsi per paura, ma parlare con più coraggio del tipo di società che desideriamo costruire: una società basata sulla giustizia, la compassione e la sicurezza reale per tutti. L’assassinio di Charlie Kirk è una tragedia che non deve mai ripetersi, ma è anche un momento che rivela il cinico funzionamento dei media politici. Le forze dell’establishment stanno già utilizzando questo crimine per cercare di delegittimare la politica progressista. Il compito di Zohran Mamdani è quello di superare questa manipolazione, riaffermare il suo impegno per la nonviolenza e connettersi con i newyorkesi comuni sulle loro reali preoccupazioni: alloggi, lavoro, assistenza sanitaria, istruzione e dignità. Se riuscirà a farlo, nessuna manipolazione mediatica potrà far deragliare la sua campagna. Alla fine, saranno le persone a decidere se sarà la paura o la speranza a guidare il futuro di New York City. Riferimenti: ⁠Chomsky, Noam. Media Control: The Spectacular Achievements of Propaganda. Seven Stories Press, 2002. West, Cornel. Democracy Matters: Winning the Fight Against Imperialism. Penguin, 2005. Nixon, Richard. “Law and Order” campaign speeches, 1968 U.S. Presidential Election. Mamdani, Zohran. Campaign speeches and policy statements, 2024–2025. Gitlin, Todd. The Whole World Is Watching: Mass Media in the Making and Unmaking of the New Left. University of California Press, 1980. Herman, Edward S. and Noam Chomsky. Manufacturing Consent: The Political Economy of the Mass Media. Pantheon, 1988. Traduzione dall’inglese di Anna Polo Partha Banerjee
Zohran Mamdani, la violenza e il dibattito su “legge e ordine”
Le recenti sparatorie a Manhattan due settimane fa e a Brooklyn questa settimana hanno riacceso il familiare dibattito su “legge e l’ordine” nella politica newyorkese. Com’era prevedibile, le voci dell’establishment – il sindaco Eric Adams, l’ex governatore Andrew Cuomo e i loro alleati nei grandi media – si sono affrettate a presentare queste tragedie come una giustificazione per espandere i poteri della polizia. Il messaggio è vecchio quanto la politica americana stessa: in tempi di disordini sociali, gli elettori devono voltare le spalle ai riformatori e schierarsi con il pugno di ferro dello Stato di polizia. Per i progressisti come Zohran Mamdani, che ha coraggiosamente chiesto di ripensare il ruolo e il finanziamento della polizia di New York, questa narrativa rappresenta sia una sfida immediata che un’opportunità. L’establishment non perderà l’occasione di strumentalizzare la paura. Sosterrà che un “principiante” come Mamdani non è adatto al ruolo di sindaco in un momento di crescente violenza. Insisterà che ridurre il budget gonfiato della polizia di New York è un invito al caos e non affronterà mai le vere cause sistemiche della violenza: il facile accesso alle armi, l’aggravarsi delle disuguaglianze, la disperazione economica, l’insicurezza abitativa e l’alienazione dei giovani. La sua “ricetta” resterà la stessa: più potere alla polizia, più sorveglianza, più prigioni, più miliardi sottratti alle scuole, alla sanità, all’edilizia popolare e all’occupazione. Questo copione è ben collaudato. Ogni volta che i candidati dell’establishment si sentono con le spalle al muro, agitano lo spettro del disordine pubblico per respingere gli sfidanti progressisti. Lo abbiamo visto negli anni ’90, quando “tolleranza zero” è diventato lo slogan vincente. Lo abbiamo visto dopo l’11 settembre con il Patriot Act, una legge che ha sostanzialmente distrutto le libertà civili degli americani. E lo vediamo ora, con un budget della polizia di New York superiore a quello militare di molti Paesi, mentre le scuole pubbliche lottano per ottenere risorse e la crisi degli alloggi peggiora. L’establishment prospera sulla paura, perché la paura disorienta gli elettori e li spinge verso la falsa promessa di una sicurezza autoritaria. Per Mamdani la posta in gioco è alta. Non è solo un candidato, è anche il simbolo di una visione diversa per New York, una visione in cui le comunità non sono criminalizzate ma responsabilizzate, in cui i soldi pubblici sono investiti nelle persone invece che nella militarizzazione della polizia. Per sopravvivere e vincere, la sua campagna deve contrastare preventivamente la narrativa dell’ordine pubblico dell’establishment prima che questa attecchisca completamente. È una questione urgente. In primo luogo, Mamdani deve affrontare direttamente le sparatorie con empatia, chiarezza e convinzione. Deve riconoscere il dolore delle vittime e delle loro famiglie, insistendo sul fatto che la soluzione non può essere semplicemente “più polizia”. Deve ribadire con forza che la presenza della polizia non ha impedito queste sparatorie a Manhattan o a Brooklyn. Ciò che impedirà la prossima tragedia è frenare il flusso di armi a New York, affrontare la povertà e la disoccupazione e costruire programmi di prevenzione della violenza basati sulla comunità. In secondo luogo, la sua campagna dovrebbe evidenziare esempi in cui l’eccessiva presenza della polizia non è riuscita a garantire la sicurezza e contrapporli a iniziative guidate dalla comunità che hanno avuto successo. Ad esempio, i programmi Cure Violence, il tutoraggio dei giovani, i progetti di edilizia popolare e i servizi di salute mentale hanno tutti dimostrato una riduzione misurabile della violenza, senza i cicli di brutalità e sfiducia generati dalla politica del pugno di ferro. In terzo luogo, Mamdani deve rivendicare il linguaggio della sicurezza. Troppo spesso i progressisti cedono questo argomento ai conservatori, ma la sicurezza non è semplicemente l’assenza di criminalità; è la presenza di stabilità, opportunità e dignità. I quartieri sicuri sono quelli in cui i giovani hanno programmi doposcuola, i genitori hanno un lavoro stabile e le famiglie possono contare sull’assistenza sanitaria e sulla sicurezza abitativa. Riformulando il dibattito, Mamdani può dimostrare che la sua visione non è “morbida con la criminalità”, ma genuinamente dura con le cause profonde della violenza, spiegando alla gente che è così che funzionano oggi i Paesi avanzati di tutto il mondo. Infine, la sua campagna dovrebbe mobilitare gli alleati e le voci della comunità per parlare con coraggio di questo tema. I sopravvissuti, le organizzazioni di base, i leader degli immigrati e i newyorkesi comuni devono essere in prima linea e dire: “Vogliamo sicurezza reale, non esibizioni poliziesche”. Questa coalizione può smorzare la narrativa dell’establishment e ricordare agli elettori che lo status quo li ha più volte delusi. Le prossime settimane metteranno alla prova la campagna di Mamdani. L’establishment ha dalla sua parte il denaro, i media e la paura, ma Mamdani ha la gente, i principi e una visione di giustizia. Se la sua campagna riuscirà a trasformare questo momento di paura in una conversazione sulle soluzioni reali, potrebbe cambiare il dibattito non solo nel suo distretto, ma nella politica newyorkese in generale. E questo avrà un enorme impatto positivo in tutta l’America. Traduzione dall’inglese di Anna Polo, con l’ausilio di un traduttore automatico   Partha Banerjee