Michel Foucault / Non innamoratevi del potere!
Nella contingenza che ci è data di vivere, ormai già da troppi anni il problema
del “fascismo” è certamente quello più persistente. E non si tratta del fascismo
di Mussolini e Hitler (anche se talvolta esso sembra ripresentarsi in forme
tragicamente farsesche) ma si tratta – scriveva Michel Foucault (1926-1984) – di
quel fascismo quotidiano (o “microfascismo”) che ci abita facendoci desiderare e
amare il potere, “questa cosa che ci domina e ci sfrutta”. Lo scriveva nella
Prefazione all’edizione nordamericana del 1977 de L’Anti-Edipo (1972) di Gilles
Deleuze e Félix Guattari, un libro che, secondo il filosofo francese, inaugurava
un modo nuovo di fare critica filosofica, sociale e politica, liberando il
pensiero anche dai vecchi ma ancora venerati maestri come Marx e Freud.
Questo testo profondamente storico-filosofico e brillantemente militante apre
l’antologia di brevi testi foucaultiani, magistralmente curata da Deborah Borca
– traduttrice, tra l’altro, del quarto volume della sua Storia della Sessualità
(Le confessioni della carne) – nella nuova collana Idee di Feltrinelli. Un libro
piccolo e potentissimo che appare come un manuale sin dal titolo e che,
attraverso la scelta di testi che vanno dal 1973 al 1981, mostra un Foucault
impegnato nella titanica e, a suo stesso dire, frammentaria impresa di impostare
una critica della ragione occidentale: come si produce un soggetto di
conoscenza? Come finiamo con l’accettare che una verità debba essere considerata
vera? Attraverso quali pratiche discorsive di esclusione e gerarchizzazione dei
saperi si costituisce qualcosa come un sapere scientifico?
Nell’introduzione al volume, Borca si chiede da dove iniziare a leggere Foucault
e che uso farne, come liberarlo dall’addomesticamento, come fare in modo che ci
aiuti a lavorare su noi stessi. In questi saggi ritroviamo le caratteristiche
fondamentali del pensiero foucaultiano come l’idea secondo la quale non vi sia
alcuna nobile origine nella natura umana della quale, invece, andrebbero
evidenziate la meschinità e la “piccolezza meticolosa e inconfessabile” che ha
portato all’invenzione stessa di una sua nobile origine. Tutto avviene nei
processi e muta, sotto i colpi di pratiche sociali e discorsi storicamente
contingenti, nelle loro crisi e interruzioni. La conoscenza – lungi dal
coincidere con il suo oggetto (il mondo) – è il frutto di un conflitto tra gli
istinti umani; il soggetto stesso è un prodotto storico e instabile, “quel che
nel XIX e XX secolo verrà chiamato l’Uomo” e del quale Foucault aveva già
preconizzato la morte nel suo Le parole e le cose (1966).
Come sempre, Foucault apre davanti a chi lo legge (ancora oggi) le porte del suo
laboratorio di ricerca: le ipotesi storiche e filosofiche ardite, gli
avanzamenti ma, soprattutto, i ripensamenti, i cambi di rotta, l’autocritica
come gesto di rottura di un pensiero che non smette di rigenerarsi ed eccitarsi
per nuove idee e nuovi possibili sguardi. Non a caso, rivolgendosi al suo
uditorio del corso del 1976 “Bisogna difendere la società” – anche questo hanno
di interessante le trascrizioni dei corsi: l’aspetto performativo, quasi scenico
del suo linguaggio – parla del suo lavoro di ricerca come di un lavoro
dall’andamento “ripetitivo e discontinuo” che “potrebbe corrispondere a qualcosa
come una pigrizia febbrile” e che colpisce “gli amanti delle biblioteche, dei
documenti, dei riferimenti, delle scritture polverose”. Non una passione da topo
di biblioteca però, quanto l’eccitazione per una ricerca che scava, scova e
scopre genealogie, ovvero l’“accoppiamento della conoscenza erudita e delle
memorie locali”. Saperi alti e saperi bassi, saperi istituzionalizzati e saperi
soggettivi, potremmo dire.
Forse vivere una vita non fascista significa proprio mettere in discussione
paradigmi e idee comuni che abbiamo a lungo dato per scontato o considerato non
criticabili: la giustizia penale o l’istituzionalizzazione della Psichiatria, la
definizione di ciò che è anormale o la sessualità. Insomma, mettere le mani e il
pensiero nella “friabilità generale dei suoli”, rivolgere lo studio ai “saperi
assoggettati” o dal basso o locali: non il discorso della Psichiatria, appunto,
ma quello del soggetto psichiatrizzato, non il discorso della Medicina, ma
quello del malato. Questa sarebbe stata, secondo Foucault, la forza del pensiero
filosofico sviluppatosi a cavallo tra anni Sessanta e Settanta del Novecento, di
un’“insurrezione dei saperi” che, per tornare al Prefazione che apre il volume,
sarebbe ben presente nell’Anti-Edipo che Foucault definisce proprio una
“Introduzione alla vita non fascista” da perseguire attraverso una sorta di
decalogo che chiude il testo, consegnandolo davvero al tempo a venire (e anche
al nostro!): liberare la politica da ciò che è totalizzante, non gerarchizzare
pensieri, azioni e desideri, liberarsi dal fardello della mancanza, preferire il
molteplice e il positivo, il nomade al sedentario, “non immaginare che si debba
essere tristi per essere militanti, anche se quello che si combatte è
abominevole”, non innamorarsi del potere!
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