Serge Latouche / L’arte perduta di vedere la bellezza, l’arte di vivere
Serge Latouche, filosofo, economista e obiettore di decrescita, condensa in un
centinaio di pagine una riflessione sul fallimento dell’urbanistica e
sull’insignificanza dell’arte nel mondo contemporaneo. Il paradigma di uno
sviluppo continuo e inarrestabile divora ogni cosa, anche l’idea del bello. La
società mercificata produce continuamente consumo, immondizia e bisogni. Non
mancano architetti e urbanisti di valore che progettano singoli edifici
ecologici e perfettamente vivibili, ma sul piano globale l’architettura non ha
arginato la cementificazione, la devastazione del territorio, e soprattutto non
ha plasmato degli spazi di condivisione per la collettività e una nuova estetica
condivisa.
Alla base di questo pensiero c’è l’idea sottintesa che l’architettura sia la
disciplina che forma la società e nello stesso tempo ne è il riflesso, e che
l’estetica dell’architettura sia in qualche modo conforme all’educazione delle
persone e alla loro moralità. Il pensiero che l’architettura sia sopra e dentro
tutto; la sua valutazione critica – con un po’ di esercizio – alla portata di
ciascuno; e che da essa si possa desumere lo spirito di una civiltà, molto di
più che dall’arte, perché dalle opere d’arte presumiamo di desumere lo spirito
di un determinato artista piuttosto che quello della collettività di
appartenenza.
Non stonerebbe, tra le pagine di Latouche, il pensiero del viaggiatore e critico
d’architettura Robert Byron, che nei primi anni Trenta del XX secolo scriveva:
«L’architettura è la più universale delle arti. […] I dipinti si trovano nelle
gallerie, la letteratura nei libri. Le gallerie devono essere visitate, i libri
devono essere aperti. Gli edifici invece sono sempre con noi. La democrazia è un
fatto urbano, l’architettura è la sua arte» (R. Byron, Il giudizio
sull’architettura, Umberto Allemandi & C., Torino 2006). Parole che riecheggiano
Cornelius Castoriadis, più volte richiamato da Latouche: «Si può affermare,
senza rischio di essere contraddetti, che gli individui sono soggetti a una
paideia diversa per effetto del solo contesto urbano, se per esempio vivono a
Siena o a La Courneuve». Così per Latouche la crisi dell’abitare, nelle nostre
città senza mura cinte da periferie rivestite di manifesti pubblicitari, è una
crisi politica e sociale.
Il progetto della decrescita, che è funzionale alla costruzione di una società
(e quindi di una architettura) diversa, porta con sé valori etici ed estetici e
la speranza di re-incantare il mondo, riplasmando un’idea del sacro legata ai
luoghi. Ma per restituire senso e pienezza alla bellezza – e al sostantivo tanto
abusato – l’arte deve recuperare un significato attivo. Il concetto di arte
priva di funzione, distaccata dall’artigianato, è nato nella modernità, con
l’ascesa della borghesia, insieme all’immagine dell’artista come figura geniale
che segue la propria fiamma interiore (ed è quindi legittimato a
disinteressarsi, se lo desidera, della collettività di cui è parte). L’arte è
oggi, nella visione di Latouche come in quella di Jean Baudrillard negli anni
Settanta del XX secolo, un universo autoportate dominato dall’economia. I nuovi
artisti sono inventati dal giornalismo e dalla critica, con l’obiettivo di far
funzionare il mercato. Essi, come scrive Castoriadis, creano, più che opere,
prodotti “che condividono con tutti gli altri prodotti della loro epoca il
medesimo cambiamento nella determinazione della propria temporalità: studiati
non per durare, ma per non durare”.
L’arte è esibizionista, fine a sé stessa, ed è arte perché dichiarata tale (ben
oltre i ready-made di Duchamp) anche perché – se non venisse dichiarata –
nessuno la riconoscerebbe. Finché persiste questa impasse, la bellezza non è
alla portata di tutti e l’arte non può essere uno strumento di cambiamento del
mondo. Nella critica alla società dei consumi di Latouche alcuni punti
soprattutto meritano ulteriori riflessioni che – mi rendo conto – tracimano da
una semplice recensione. Il disinteresse, tutto e solo moderno, per la durata
delle architetture e dei manufatti distingue profondamente il paesaggio antico e
premoderno da quello contemporaneo. La nostra società e l’architettura sono
caratterizzate, inoltre, dall’assenza di reimpiego, nei materiali, nelle forme
architettoniche, molto spesso anche negli spazi. Le necessità di tutela
impongono ristrutturazioni filologiche degli edifici storici che, se da un lato
sono comprensibili ed evitano le devastazioni dei decenni passati, dall’altro
tolgono una possibilità di rinascita agli edifici antichi. La funzione abitativa
di molti centri storici si va perdendo, non soltanto in aree urbane ma in
tantissimi piccoli paesi delle campagne italiane. Si costruiscono villette ai
margini del paese invece che ristrutturare le case nel centro, dotate di stanze
piccole e condizioni di luce e di visibilità dell’esterno che non riteniamo più
adatte all’abitare a cui aspiriamo. Si torna a vivere nei piccoli centri per
sfuggire al caldo, all’inquinamento, al traffico e ai costi delle grandi città,
ma questo non comporta la ricostruzione di un tessuto di collettività condivisa.
La casa è più spesso nuova e libera sui quattro lati. I vecchi spazi di
condivisione persistono formalmente, con poche sacche di resilienza.
L’assenza di una nuova estetica rimarcata dal filosofo francese è evidente anche
nel fatto che, nonostante quanto detto poc’anzi, continuiamo a considerare belli
i centri storici antichi, eredi di culture differenti da quella attuale. Jeff
Bezos sceglie di sposarsi a Venezia, non alla periferia di Mestre. Quella stessa
Venezia che Marinetti nel Manifesto del Futurismo del 1909 avrebbe voluto
distruggere; un’ipotesi che ci inorridisce ma che non ci impedisce di fare di
quel centro storico un oggetto di mercificazione colonizzato dall’economia.
In questa fase di museificazione e gentrificazione dei nuclei storici, che va di
pari passo con la costruzione di una bellezza statica e innocua, il dilemma e
l’ambiguità della conservazione si pongono più che in altri periodi storici.
Dovremmo domandarci come mai l’eredità materiale del passato sembri portare da
sola il peso della bellezza. Perché continuiamo a trovare belli i centri storici
delle città europee, palinsesti medievali e post medievali? Siamo davvero noi i
produttori di questa estetica, noi ad aver deciso che quelle forme sono di
nostro gusto, nello stesso tempo condannandole, di fatto, a non servire più a
niente se non a colmare le memorie delle nostre fotocamere durante le vacanze?
Non sembriamo del tutto consapevoli del paradosso che in molti contesti la
conservazione e la tutela sono le uniche forme di reimpiego delle architetture
antiche che mettiamo in atto, un sistema di protezione da parte di uno sviluppo
che si dice sostenibile (Latouche in una vecchia intervista aveva definito lo
sviluppo sostenibile una invenzione linguistica, un “ossimoro grazioso”: S.
Latouche, Decrescita o barbarie, Castelvecchi, 2018).
Scrive il filosofo nell’introduzione che decrescita significa «arte di vivere
bene, in sintonia con il mondo», e «abbandonare il culto insensato dello
sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita». Non è un programma ma
un orizzonte di senso, che si nutre di altri pensieri destinati al ri-abitare e
alla ri-sacralizzazione degli spazi esistenti per interrompere la produzione
continua di nuovi luoghi. Tra le otto R indicate già altrove dal filosofo per
re-incantare il mondo (“rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare,
ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare”) devono trovare
spazio anche una riabilitazione del gusto; la riscrittura dell’arte come
componente fondamentale dell’esistere, sulla scia di Castoriadis, per il quale
le grandi opere d’arte erano finestre sul caos che svelavano e inventavano un
cosmo; la ridefinizione dello spazio urbano con edifici di altezza media (non
grattacieli né villette) autoefficienti da un punto di vista energetico e tra i
quali sia possibile passeggiare. Ma si tratterebbe soprattutto di prendere atto
dell’esistenza delle numerose persone che aspirano all’arte o ne sentono il
bisogno. Tra i resilienti Latouche iscrive i writers che «si ribellano contro la
pubblicità, quindi contro l’estetica della società di mercato e contro il
monopolio pubblicitario della bellezza» (e infatti la tendenza è quella di
trasformare la loro arte in valore estetico, v. Banksy).
Il compito è molto arduo, anche solo limitandosi all’arte. Come riconoscere le
finestre sul caos, distinguendo la grande opera da quella dozzinale? I
produttori di gusto e di estetica sono esistiti anche nell’era
pre-globalizzazione e la tendenza è sempre stata, anche sul piano
dell’architettura, di utilizzare le resistenze (anche un centro storico lo è, se
inteso come luogo con una anima) per mantenere il mito dell’arte e della
cultura, distruggendolo poi nel reale. Uno degli obiettivi principali potrebbe
allora consistere – è la mia personale forma di comprensione di quell’orizzonte
di senso, per nulla immediato, che si chiama decrescita – proprio nel togliere
l’arte, e la materialità passata che interseca i nostri spazi dell’abitare,
dalla sfera del futile, del diletto e del bello. Una strada difficile, non
ortodossa e non tracciata.
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