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REPAK: La condanna a morte di Sharifeh Mohammadi è un attacco alla vita e ai diritti di tutte le donne
L’Ufficio curdo per le relazioni internazionali delle donne (REPAK) ha condannato fermamente la condanna a morte dell’attivista iraniana per i diritti dei lavoratori Sharifeh Mohammadi e ha invitato la comunità internazionale a mostrare solidarietà e protestare. Sharifeh Mohammadi è stata arrestata a Rasht nel dicembre 2023. Nel luglio 2024 un tribunale rivoluzionario l’ha condannata a morte per presunta “propaganda anti-stato”. Dopo i ricorsi, la sentenza è stata inizialmente annullata a ottobre, ma è stata nuovamente inflitta a febbraio e recentemente confermata dalla Corte suprema iraniana. Ciò significa che la donna di 45 anni potrebbe essere giustiziata in qualsiasi momento. La dichiarazione del REPAK, che descrive il verdetto come un attacco alla vita e ai diritti delle donne in Iran comprende quanto segue: “Quando osserviamo i regimi che nel corso della storia si sono difesi e hanno mantenuto la loro esistenza attraverso guerre e distruzioni, vediamo che non sono mai stati in grado di stabilire pace e tranquillità nei loro paesi, ma sono stati piuttosto spinti in un caos sempre più profondo. Anche il regime dei Mullah in Iran non è riuscito a stare al fianco del suo popolo nemmeno nei momenti più critici, rifiutandosi di ascoltare le sue voci e le sue richieste. Invece di difendere gli interessi del popolo, ha fatto ricorso a una violenza crescente giorno dopo giorno spingendo il Paese in un vicolo cieco. Ci sono molti esempi di questo nel corso della storia: i regimi che hanno basato il loro potere esclusivamente sul monopolio e hanno ignorato le richieste del popolo non sono mai stati in grado di mantenere la loro esistenza, mentre i regimi che sono rimasti al fianco del loro popolo di fronte all’ingiustizia e alla disuguaglianza e si sono impegnati a trovare soluzioni hanno sempre avuto successo. La condanna a morte pronunciata contro Sherifeh Mohammadi, che ha lottato contro le violazioni dei diritti umani, la violenza, lo sfruttamento e l’ingiustizia, non si basa su un sistema giudiziario fondato sullo stato di diritto, bensì su una mentalità che salvaguarda il predominio maschile e colpisce il diritto alla vita delle donne. Sherifeh Mohammadi, residente nella città di Rasht, è stata arrestata nel dicembre 2023 con l’accusa di “propaganda anti-statale”. Il 4 luglio 2024 è stata condannata a morte dalla Corte Rivoluzionaria Iraniana. In seguito a appello, la sentenza è stata annullata il 12 dicembre 2024. Tuttavia, solo due mesi dopo, il 13 febbraio 2025, la Seconda Camera della Corte Rivoluzionaria ha confermato la stessa sentenza. Come centinaia di donne che lottano per la propria libertà, anche lei è diventata un bersaglio del regime. Il popolo non è rimasto in silenzio di fronte a questa ingiustizia, e non rimarrà in silenzio perché ogni silenzio apre la strada a nuove ingiustizie e prepara il terreno per la loro legittimazione sotto la maschera della legge. Il regime dei mullah in Iran ha ripetutamente dimostrato di essere nemico non solo delle donne, ma di chiunque difenda i diritti umani e faccia sentire la propria voce. Migliaia di persone sono state gettate in prigione per vari motivi e il destino di molte rimane sconosciuto. La rivendicazione dei diritti è stata criminalizzata e la morte è stata presentata come l’unica soluzione. In un luogo in cui regnano una così grave oppressione e tirannia, il silenzio o la ritirata non sono un’opzione. Invece di cercare soluzioni, ogni tentativo è considerato una minaccia per il sistema dominato dagli uomini e represso con la forza. Tutto questo sta accadendo sotto gli occhi di tutti e la sua gravità aumenta di giorno in giorno. Noi, come REPAK, chiediamo al regime iraniano di porre fine ai crimini contro i diritti umani, agli attacchi sistematici contro le donne e alla pena di morte. L’unica via verso una soluzione e la pace passa attraverso la comprensione democratica, la tutela della voce del popolo e la salvaguardia dei diritti. Facciamo inoltre appello alla comunità democratica internazionale: siate la voce del popolo che cerca la libertà, si opponete alle esecuzioni ovunque e mostrate solidarietà.”   L'articolo REPAK: La condanna a morte di Sharifeh Mohammadi è un attacco alla vita e ai diritti di tutte le donne proviene da Retekurdistan.it.
Libertà per Mehmet Çakas e tutti i prigionieri politici curdi
Nostro fratello Mehmet Çakas, poiché la sua richiesta di asilo politico in Germania non è stata accolta, è andato in Italia e ha presentato lì la sua richiesta di asilo politico. Mentre era in Italia, è stato arrestato a causa del mandato di arresto internazionale (Red Notice) emesso dalla Germania. Dopo circa quattro mesi di detenzione in Italia, il tribunale italiano ha deciso di estradarlo in Germania con la condizione che non fosse estradato in Turchia. I tribunali tedeschi, con l’accusa di essere un “dirigente del PKK”, hanno condannato nostro fratello a 2 anni e 10 mesi di carcere. A due mesi dalla fine della pena, lo Stato tedesco ha deciso di espellerlo e consegnarlo alla Turchia con la motivazione che la sua richiesta di asilo politico in Germania non era stata accettata. Durante il periodo in cui era detenuto in Italia, Mehmet ha espresso chiaramente la sua opposizione all’estradizione in Germania, affermando che temeva di essere successivamente estradato in Turchia. Il tribunale italiano, accogliendo questa preoccupazione, lo ha consegnato alla Germania solo con la garanzia che non sarebbe stato estradato in Turchia. Mehmet era stato costretto a recarsi in Italia per presentare una nuova richiesta di asilo a causa del rifiuto della Germania. Tuttavia, è stato arrestato una settimana prima della sua prima udienza in Italia e quindi non ha potuto partecipare al processo di asilo, che è rimasto in sospeso. La Germania, sostenendo che Mehmet non ha un permesso di soggiorno né in Germania né in un altro paese europeo, ha deciso di espellerlo e consegnarlo alla Turchia. Come famiglia, riteniamo che questa situazione rappresenti una tragica violazione sia del diritto tedesco che di quello italiano. Lo Stato tedesco, da un lato, ha interrotto il processo di asilo in Italia emettendo un Red Notice, e dall’altro, pur non avendo prove di attività illegali di Mehmet secondo le leggi tedesche, lo ha condannato basandosi sull’inclusione del PKK nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’UE e su una lunga sorveglianza, concludendo che fosse un “dirigente del PKK”. Con questa condanna, ha violato il suo diritto alla libertà e ora, con l’intenzione di estradarlo in Turchia, cerca di condannarlo a passare il resto della sua vita nelle carceri turche, trasformando la nostra vita in un incubo. Noi, come famiglia, ci siamo affidati al diritto e ai valori europei, credendo che l’Europa fosse un porto sicuro per i diritti umani e le libertà. Siamo stati costretti a lasciare il nostro paese, il nostro popolo, la nostra lingua e la nostra cultura. Tuttavia, la situazione che stiamo vivendo oggi getta un’ombra amara sull’immagine dell’Europa come porto sicuro. L’ingiustizia subita da molti curdi di fronte al diritto europeo dimostra che questi diritti e libertà non sono sempre validi per gli “stranieri” e che le norme giuridiche europee possono essere facilmente ignorate quando si tratta di loro. Come curdi e “stranieri”, chiediamo che le norme giuridiche europee siano applicate equamente a tutti coloro che cercano rifugio. Rifiutiamo fermamente che i curdi diventino oggetti di scambio politico ed economico tra gli stati europei e la Turchia. Mehmet ha attualmente cinque fascicoli di processo in Turchia, con mandati di arresto pendenti, e ha un’udienza prevista a Erzincan nel settembre 2025. Viene processato secondo l’articolo 302 del codice penale turco (ergastolo aggravato). Durante la sua detenzione in Italia, lo Stato turco aveva già richiesto la sua estradizione attraverso un Red Notice. Considerando la mancanza di un processo equo in Turchia, la sua scarsa reputazione in materia di diritti umani e la sua politica repressiva contro i prigionieri politici curdi, l’estradizione di Mehmet sarebbe una chiara violazione del diritto europeo. Questo è particolarmente grave quando si tratta di un’accusa ai sensi dell’articolo 302. Come famiglia, ci stavamo preparando ad accogliere nostro fratello all’uscita dal carcere la prima settimana di ottobre, pronti a vivere finalmente in libertà dopo 2 anni e 10 mesi di detenzione. Tuttavia, la decisione della Germania di estradarlo in Turchia ci ha posto di fronte a una realtà terribile: nostro fratello rischia di passare il resto della sua vita nelle carceri turche. Questa prospettiva è per noi una fonte di dolore immenso e una tragedia che oscura il nostro futuro. L’estradizione di Mehmet creerebbe un precedente per altri casi simili, aprendo la strada a nuove espulsioni di curdi verso la Turchia da parte della Germania e di altri paesi europei. Anche se all’apparenza questa questione può sembrare riguardare solo i curdi, in realtà tocca tutti gli stranieri in Europa e, nel tempo, può coinvolgere anche i cittadini europei. Perché quando l’illegalità inizia ad essere applicata come eccezione agli “altri”, col tempo questo concetto si allarga fino a minacciare l’intera società europea. Per questo motivo, noi, la famiglia di Mehmet Çakas, facciamo appello ai curdi in Italia e in Europa, agli stranieri, agli amici del popolo curdo, alle persone sensibili e coscienti in Europa: uniamoci per fermare questa palese ingiustizia e impedire l’estradizione di Mehmet in Turchia. La libertà prevarrà.Libertà per Mehmet Çakas e per tutti i prigionieri politici detenuti in Europa, siano essi curdi o appartenenti ad altri popoli. La famiglia di Mehmet Çakas Messaggio di Mehmet Çakas: “Prima di tutto, invio i miei saluti e il mio affetto a tutti gli amici, compagni, giornalisti, e ai sostenitori della causa curda che hanno condiviso solidarietà con me durante la mia detenzione, riempiendo la mia cella di colori, lettere e immagini. Anche se è stata presa una decisione di espulsione nei miei confronti, credo nel diritto e nella vostra solidarietà e nella vostra lotta, e penso che l’ingiustizia nei miei confronti finirà. Tuttavia, se la decisione di espulsione non verrà annullata, mi aspetto che le autorità italiane rispettino la condizione posta durante la mia estradizione verso la Germania – cioè la promessa che non sarei stato estradato in Turchia – e che l’Italia mi riprenda. Infatti, prima di essere arrestato su richiesta della Germania, avevo già presentato domanda di asilo in Italia. Chiedo quindi che questo processo venga immediatamente riattivato e che mi venga concesso il diritto di soggiorno. Faccio appello ai curdi in Italia, agli amici del popolo curdo, alle organizzazioni per i diritti umani, agli operatori giuridici e al popolo italiano, che so essere legato ai principi di giustizia, affinché creino un’opinione pubblica per accelerare il mio processo di asilo in Italia e per garantire che la decisione del tribunale italiano di non estradarmi in Turchia venga rispettata.” The post Libertà per Mehmet Çakas e tutti i prigionieri politici curdi first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo Libertà per Mehmet Çakas e tutti i prigionieri politici curdi proviene da Retekurdistan.it.
Perché lottare contro l’occupazione militare e per i diritti Queer?
Come nodo sassarese di A Foras aderiamo al Pride 2025. Di seguito riassumiamo il nostro contributo politico al Pride, che vuole collegare in maniera intersezionale la lotta per la liberazione della Sardegna dall’occupazione militare con quella per i diritti Queer. * La de-colonizzazione dei territori è inseparabile dalla de-colonizzazione dei corpi. Il militarismo è la cultura della violenza esercitata su corpi e territori per ottenerne il controllo. In Sardegna lo vediamo all’opera costantemente, con il 65% delle servitù militari presenti sul nostro territorio, distrutto a livello economico, sociale ed ambientale. Le armi che vanno a portare morte ad altri popoli vengono progettate, sperimentate e collaudate nei poligoni militari e nella fabbrica di bombe RWM. * L’ideologia militarista rappresenta una delle espressioni del sistema cis-etero patriarcale. In questo contesto, il sistema bellico è il braccio armato del patriarcato. I due sistemi sono co-dipendenti: senza il militarismo il patriarcato non potrebbe perpetrarsi, senza il patriarcato il militarismo perderebbe la sua ragion d’essere: quella di affermare tramite la violenza i confini di proprietà su terre e corpi. * Patriarcato e militarismo sono sistemi basati sulla differenza binaria tra maschile e femminile, e sulla sopraffazione di uno sull’altra, dove la scelta è essere o schiavo o padrone, o donna o uomo, o colonizzat* o colonizzatore. * Il militarismo ha radici culturali, uno dei suoi primi veicoli è la scuola che tende sempre più a trasformarsi in una “replica” di una caserma militare, dove si instaurano rapporti di potere basati sulla sopraffazione sulle minoranze e delle persone più deboli, annientando la libertà altrui e instillando nelle persone più giovani la cultura militarista. * Con la nuova corsa agli armamenti e il dilagare della cultura militarista stiamo andando verso nuovi conflitti. La storia ci ha insegnato che in tempo di guerra i diritti civili vengono meno, e quindi anche i diritti Queer sono da considerarsi a rischio. Per questo chiediamo a chi li ha a cuore e partecipa al Pride si schieri contro guerre e occupazione militare. Attualmente in Europa la parola d’ordine è “riarmo”. Per contrastarlo serve estirpare queste radici, fare un lavoro mirato nei luoghi di istruzione, costruire nuove alternative di vita civile e sociale, dove il rapporto non si basi su gerarchie di stampo militaresco. Non vogliamo generali, non siamo arruolat* e non siamo arruolabili, partiamo dal margine per diventare centro, per riprenderci i nostri spazi, le nostre terre libere e liberate, anche e soprattutto dalla presenza materiale delle basi militari, le nostre vite libere e liberate dell’ideologia della guerra, del militarismo e del patriarcato. + (diritti) QUEER – (poligono di) QUIRRA A Foras – Contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna Nodo di Sassari
Propaganda becera, riarmo e smantellamento della sanità pubblica
Anche quest’anno, come tutti gli anni ormai da decenni, la Sardegna è stata oggetto della consueta violenza e distruzione militare. Con i soliti nomi insulsi come “Mare Aperto” e “Joint Stars”, il territorio sardo veniva messo un’altra volta sotto assedio, per consentire agli eserciti di mezzo mondo la preparazione per gli attuali e i prossimi massacri di innocenti. Quest’anno, oltre al danno continuo che le esercitazioni militari infliggono all’ambiente, alla salute, all’economia, alla dignità dellə sardə e della Sardegna, dobbiamo aggiungere la beffa di una serie di “iniziative benefiche” connesse. Una operazione propagandistica becera e di infimo livello, che mette assieme autorità militari, aziende e autorità politiche della Regione Sardegna. Il messaggio è chiarissimo: mentre la Sardegna viene strangolata da una serie di tagli ai servizi pubblici sempre più asfissianti, con la distruzione del diritto alla salute, all’istruzione, ad una vita civile e serena nei tanti paesi del territorio sardo, dovremmo essere gratə all’esercito che ci degna dell’elemosina di due giorni di screening sanitari gratuiti sulla sua nuova, costosissima nave ammiraglia. Mentre i soldi per i servizi pubblici spariscono per trasformarsi in armi come la nave Trieste, i nostri diritti spariscono per trasformarsi in gentili concessioni delle Forze Armate. Non solo. È ancora più agghiacciante costatare come questa operazione, rivolta allə bambinə, avvenga proprio mentre il governo italiano sostiene in maniera convinta il genocidio del popolo palestinese a Gaza, dove il conto ufficiale dellə bambinə uccisə supera i 15.000, mentre sono più di 500.000 quellə sfollatə. Tra i soldi che stanno venendo tolti per le nostre cure, ci sono i 155 milioni di euro di armi israeliane importate in Italia (pari al 20% del totale) per il solo 2024. C’è, insomma, il finanziamento diretto che l’Italia dà al genocidio del popolo palestinese attraverso le forniture per le proprie forze armate. Non può sfuggire l’orribile ipocrisia di chi da una parte compra e usa sistemi d’arma sviluppati da un esercito genocida, che non si fa problemi a sterminare decine di migliaia di bambinə palestinesi a Gaza, e dall’altra viene da noi a farsi bello con due giorni di screening gratuiti per lə nostrə bambinə. Di fronte a queste gravi violazioni dei diritti, la risposta può essere solo una: unirsi. È lo Stato stesso a negare diritti per alimentare la macchina bellica e sostenere il genocidio palestinese. Il prezzo dell’orrore che succede in Palestina lo pagheremo anche noi, se non reagiamo immediatamente e con forza, a fermare il meccanismo stritolatore della logica bellica, suprematista, imperialista, il nuovo nazifascismo che torna sempre più forte e convinto. Siamo tuttə responsabilə. E tuttə possiamo scegliere da che parte stare. Il 10 maggio, diciamo NO a questo sistema di morte, ai suoi danni e alle beffe che ci propone con la sua propaganda becera. Rivendichiamo il diritto alla vita e alla terra del popolo palestinese. Rivendichiamo il nostro diritto alla salute. Rivendichiamo la nostra terra. Rivendichiamo un uso umano dei fondi pubblici, per tutelare i diritti e non preparare gli stermini di innocenti. Quei fondi devono servire per creare centri sanitari stabili e duraturi, non per operazioni di facciata a bordo delle navi militari, fatte per coprire la violenza dell’occupazione militare in terra sarda e del genocidio in terra palestinese.