L’assassinio di Anas al-Sharif visto da colleghi italiani, tra neologismi e cinismo
La notizia è più che nota e non occorre tornarci sopra: la notte tra domenica e
lunedì un attacco dell’esercito israeliano contro una tendopoli di Gaza City ha
ucciso sei tra giornalisti e operatori di ripresa di al Jazeera: Anas
al-Sharif, Mohammed Qreiqeh, Ibrahim Zaher, Moamen Aliwa, Mohammed Noufal e
Mohamed al-Khalidi. Non riporto la professione di ciascuno di loro perché il
giornalismo è un lavoro di gruppo, collettivo in cui ogni funzione è
fondamentale, non solo di chi appare in video col suo volto. Certo, Anas
al-Sharif era il più noto perché ne vedevamo il volto. Lo ricordavamo anche per
essersi tolto, pieno di speranza, casco e giubbotto all’annuncio di una delle
precarie tregue di questi 22 mesi.
Queste sei persone erano tra le voci ormai quasi afone e gli occhi stanchi della
Striscia di Gaza. Affamate e stremate, hanno continuato a raccontare con
coraggio il genocidio israeliano, nonostante l’enorme sofferenza personale e
collettiva e le minacce di morte. I loro omicidi intenzionali costituiscono
secondo Amnesty International un crimine di guerra.
Secondo altri, no. La definizione di giornalista-terrorista che ha campeggiato
come una sentenza (emessa da chi?) per alcune ore sulla diretta del portale di
Repubblica, non virgolettata e non attribuita ad alcuna fonte se non
evidentemente a chi l’aveva scritta, ha spalancato le porte a una malevola
conclusione: che le sei persone uccise fossero un bersaglio legittimo.
Sul suo profilo X, lasciando trapelare compiacimento per l’accaduto,
Giambattista Brunori, giornalista del servizio pubblico televisivo, ha scritto
questo “commosso” ricordo del collega Anas, con foto a seguire: “Anas Al Sharif,
corrispondente di Al Jazeera ucciso in un attacco mirato israeliano a Gaza City.
Qui un selfie con l’ormai defunto capo di Hamas Yaya Sinwar”. Se quella foto
fosse vera o fosse, come hanno osservato a vista 99 commentatori su 100 sotto il
suo post, “taroccata”, il problema non se l’è posto. Mentre termino questo
commento per Articolo 21, alle 16 di lunedì 11 agosto, il post di Brunori è
ancora lì.
Articolo 21