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Giustizia per Hind Rajab
Wissam Hamada, madre di Hind Rajab, ha annunciato il ricorso alla giustizia internazionale contro i 24 soldati e ufficiali israeliani responsabili,  il 29 gennaio 2024, dell’assassinio della sua bambina di sei anni, dei sei parenti che erano in macchina con lei e dei due soccorritori che hanno cercato di salvarla. “Vogliamo giustizia. La nostra battaglia deve servire d’esempio alle vittime dei crimini finora impuniti. I criminali israeliani devono sapere che non sono al di sopra di ogni giudizio; deve cadere il velo di impunità che finora ha coperto il genocidio a Gaza”.   ANBAMED
La Fondazione Hind Rajab rivela i nomi di chi ha ucciso la bimba, i suoi parenti e i soccorritori
Documenti esclusivi scoperti dalla Fondazione Hind Rajab rivelano che a uccidere la bimba di sei anni, la sua famiglia e i soccorritori è stato il servizio segreto “Vampire Empire” dell’esercito israeliano. Il servizio fa parte del 52° Battaglione della 401ª Brigata, comandata da Benny Aharon. Il comandante della compagnia è l’agente Sean Glass. Le registrazioni delle comunicazioni – in possesso della Fondazione – rivelano che è stato lui dal suo carro armato a ordinare l’assassinio. I documenti mostrano che uno dei partecipanti all’omicidio di Hind Rajab è il soldato Itay Shokerkov, cittadino argentino. Tutti i documenti in possesso della Fondazione sono stati consegnati alla Corte Penale internazionale e alla Corte di Giustizia dell’Aja. La Fondazione ha rivelato anche di aver intentato una causa in Germania contro il soldato tedesco Shimon Zuckerman. ANBAMED
L’assassinio di Anas al-Sharif visto da colleghi italiani, tra neologismi e cinismo
La notizia è più che nota e non occorre tornarci sopra: la notte tra domenica e lunedì un attacco dell’esercito israeliano contro una tendopoli di Gaza City ha ucciso sei tra giornalisti e operatori di ripresa di al Jazeera:  Anas al-Sharif, Mohammed Qreiqeh, Ibrahim Zaher, Moamen Aliwa, Mohammed Noufal e Mohamed al-Khalidi. Non riporto la professione di ciascuno di loro perché il giornalismo è un lavoro di gruppo, collettivo in cui ogni funzione è fondamentale, non solo di chi appare in video col suo volto. Certo, Anas al-Sharif era il più noto perché ne vedevamo il volto. Lo ricordavamo anche per essersi tolto, pieno di speranza, casco e giubbotto all’annuncio di una delle precarie tregue di questi 22 mesi. Queste sei persone erano tra le voci ormai quasi afone e gli occhi stanchi della Striscia di Gaza. Affamate e stremate, hanno continuato a raccontare con coraggio il genocidio israeliano, nonostante l’enorme sofferenza personale e collettiva e le minacce di morte. I loro omicidi intenzionali costituiscono secondo Amnesty International un crimine di guerra. Secondo altri, no. La definizione di giornalista-terrorista che ha campeggiato come una sentenza (emessa da chi?) per alcune ore sulla diretta del portale di Repubblica, non virgolettata e non attribuita ad alcuna fonte se non evidentemente a chi l’aveva scritta, ha spalancato le porte a una malevola conclusione: che le sei persone uccise fossero un bersaglio legittimo. Sul suo profilo X, lasciando trapelare compiacimento per l’accaduto, Giambattista Brunori, giornalista del servizio pubblico televisivo, ha scritto questo “commosso” ricordo del collega Anas, con foto a seguire: “Anas Al Sharif, corrispondente di Al Jazeera ucciso in un attacco mirato israeliano a Gaza City. Qui un selfie con l’ormai defunto capo di Hamas Yaya Sinwar”. Se quella foto fosse vera o fosse, come hanno osservato a vista 99 commentatori su 100 sotto il suo post, “taroccata”, il problema non se l’è posto. Mentre termino questo commento per Articolo 21, alle 16 di lunedì 11 agosto, il post di Brunori è ancora lì.     Articolo 21